Mi lascio interrogare da quello che vedo e che patisco, ma non tutto mi sembra negativo e avverto con particolare disagio i limiti della nostra cultura occidentale che procede per separazioni arbitrarie e nette tra esseri umani, animali e natura.Sono stata a gennaio in India con un viaggio organizzato e mi sono ritrovata in un gruppo formato solo da 5 persone, tutte donne. Siamo state undici giorni insieme: io, mia sorella, una anestesista svizzera che ha fatto di recente volontariato in un ospedale di Calcutta, una signora che ha ospitato per anni bambini di Cernobyl e sua figlia medica chirurga con una esperienza di lavoro volontario in un ospedale in Bolivia. All’inizio grande rispetto reciproco, poi conoscenza ed empatia, infine affetto.

Mi è di conforto cominciare proprio parlando di loro, della rara bellezza di questo incontro, perché trovo particolarmente difficile raccontare questo viaggio tanto complesso, faticoso, a tratti sconvolgente come nessuno. Eppure sento {{il desiderio e l’urgenza di parlarne.}}

Sappiamo forse tante cose dell’India, ma andarci è stato per me come entrare in una dimensione non semplice da decifrare. Prima di partire mi sono diligentemente documentata sulla sua storia e all’inizio mi è sembrata inedita, ma subito dopo ho riconosciuto le stesse dinamiche del potere, la stessa ferocia, gli stessi lutti, deportazioni, guerre di religione, pesante dominio maschile che caratterizzano anche la nostra lunga occidentale civiltà. Questo mi ha dato durante tutto il viaggio {{la sensazione straniante di stare in un altro mondo e contemporaneamente nel mio}}.

Ma ho anche percepito ogni giorno con grande emozione {{una particolare profondità del tempo,}} in un luogo dove la civiltà umana si è sviluppata forse prima che da noi, dove è nata una lingua, la più antica di tutte quelle conosciute, il sanscrito, ancora oggi studiata grazie ad antichissimi e preziosissimi libri sacri.

Abbiamo visitato molte città, soprattutto in Rajasthan, spostandoci con l’aereo, col treno e con un pulmino che macinava (si fa per dire) chilometri per giornate che non finivano mai, in strade a tratti dissestate, spesso aspettando che passassero mucche lente e indifferenti, o cani randagi, o pastori con piccole greggi di pecore o capre e bufali.

Ho lasciato che mi entrassero nell’anima i gialli campi di colza, alberi bellissimi, la terra arida e incolta, le casupole, le misere tende, le baracche per la vendita di qualsiasi cosa, ogni tanto le scimmie, i maiali, i tanti bambini e bambine laceri/e e sporchi/e e poi, come fiori nel deserto, le donne nei loro bellissimi sari colorati, col volto velato se in compagnia del marito o della suocera, segno di rispetto secondo quanto andava dicendo Suresh, la nostra guida indiana. Dappertutto miseria e degrado, incuria, disattenzione completa alle cose e alle case, con i rifiuti -plastica compresa- ammucchiati ovunque e gli animali intenti a rovistare e sparpagliare; ogni tanto un tubo ai bordi della strada da cui prendere l’acqua e presso cui lavare i panni strofinandoli direttamente a terra.

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Nelle strade delle città la situazione cambia}}, ma di poco: una moltitudine di donne e uomini, bambine e bambini in un traffico assordante e disordinato, moto e bici per lo più vecchissime, quasi sempre un uomo alla guida, magari con moglie e due figli appollaiati, autobus in genere scrostati e arrugginiti, assenza quasi di marciapiedi, mercanzie varie adagiate per terra senza problema.

I ponteggi per il restauro dei palazzi sono di legno di bambù legati alla meglio su cui, senza protezione alcuna, lavorano uomini traballanti. I pali della luce sostengono grovigli e grovigli di fili che pendono, scorrono a tre a quattro lungo le facciate delle case. “Non sono pericolosi?” “Certamente! Quando piove molti muoiono fulminati” mi risponde Suresh. E ovunque mucche bianche o nere o fulve, vitelli, cani randagi, piccoli e veloci scoiattoli, scimmie sui tetti dove i ragazzi fanno volare i loro aquiloni. Ogni tanto un uomo volta le spalle alla strada e orina tranquillamente.

Bisogna attraversare tutto questo per arrivare finalmente a moschee, forti che dominano le città, mausolei, palazzi reali, templi induisti e giainisti, che lasciano senza fiato per la loro bellezza, l’armonia delle forme, la ricchezza dei materiali, la perfezione delle decorazioni. Tra essi e la folla dei paria c’è una distanza non misurabile con la logica della nostra sensibilità democratica. {{Le caste,}} ci dicono, sono vietate dalla Costituzione, superate per legge. Per legge! Nei fatti {{l’India brulica di “intoccabili”}}, formiche abbandonate al loro destino che poco interessano a chi dovrebbe occuparsene, con i segni della polio, della lebbra e altre malattie che lì sembrano ineluttabile normalità della vita. La rassegnazione al proprio destino -un fatalismo senza misericordia- è la cosa che colpisce nel profondo e fa male: ricorda un po’ le genti del sud della nostra Italia di cento anni fa; evoca ingiustizie, soprusi, ma anche colpevoli incapacità, o semplicemente una impossibilità assoluta a reagire.

Il viaggio in treno ha messo a dura prova la nostra pazienza e non solo: tre ore di ritardo in una sala d’aspetto femminile (ne esistono solo a pagamento), mentre fuori sostava una folla di uomini, donne, bambine/i vecchi e vecchie in piedi sotto la pioggia o a terra a dormire o a mangiare tra cani randagi, topi lungo i binari e addirittura una mucca, fatta entrare in stazione chissà da chi, chissà perché.

I templi induisti di Kajuraho sorgono dal verde del grande parco come elementi della natura, bizzarri e straordinari. Mentre in Europa si correva terrorizzati a fare penitenza all’avvicinarsi dell’anno mille, la lussuria considerata uno dei maggiori peccati, qui si decoravano le pareti di edifici sacri con numerosissime sculture erotiche. {{Un inno alla bellezza dei corpi}}, soprattutto femminili, sorpresi in tante posizioni, pieni di ornamenti finemente lavorati: un kamasutra illustrato, dove l’amore carnale diventa energia positiva, estasi mistica, gesto di avvicinamento al sacro. Non ho visto una sola rappresentazione del sesso come violenza. Il mio pensiero è andato per questo subito all’India di oggi, ai tanti episodi di violenza sulle donne di cui ultimamente abbiamo avuto notizia dai media , uno terribile proprio quando noi eravamo lì.

A Jodhpur sul muro interno del forte un bassorilievo colorato di rosso raffigura le mani delle 15 mogli del maharaja che fecero sati ed evoca le tante donne che per sfuggire a stupri e riduzione in schiavitù andavano anch’esse (in massa almeno in tre occasioni) imbottite di droghe, ad {{immolarsi sulle pire }} dove bruciavano i corpi dei loro uomini uccisi dai nemici musulmani. Fino a pochi anni fa, in caso di morte del marito, una donna senza figli era spinta a fare la stessa cosa! E chissà se nei piccoli villaggi ancora non succeda!
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L’impatto più sconvolgente, suggestivo per alcuni aspetti,}} è stato a Varanasi, la città sacra, dove il fiume Gange scorre e purifica secondo la religione indù, tanto che consente ai morti che vengono immersi nelle sue acque di andare direttamente nel nirvana, liberi dall’obbligo della reincarnazione. Siamo arrivate sulla riva di pomeriggio con un breve viaggio (previsto nel programma) su un risciò malfermo dove io e mia sorella facevamo inutili sforzi per cercare di alleviare il peso ad un ragazzo magro come un chiodo che ogni tanto si fermava stremato perché non ce la faceva a pedalare. Avremmo voluto scendere, andare a piedi, ma non volevamo umiliarlo, né privarlo delle rupie contrattate con la nostra guida: è stato un momento molto duro che non dimenticheremo mai! Da lontano, su una barca, abbiamo potuto osservare i cadaveri che, avvolti in un drappo giallo cosparso di fiori, vengono immersi nelle acque prima di venire bruciati; il fumo lento esce dalle pire mentre in un altro gat (le scale che conducono all’acqua) si officiano riti con canti e suoni, e l’aria si riempie del forte odore di incenso o canfora. Abbiamo assistito all’alba del giorno dopo alle abluzioni e alle preghiere dei fedeli; qualcuno lava oltre al corpo anche i denti nell’acqua melmosa mentre sui gradoni le immancabili mucche orinano e defecano accanto a turisti e a quanti chiedono l’elemosina o si fermano per avere protezione e consigli da bramini e santoni. Una giovane donna con un bimbo in braccio tende la mano e mostra una metà del viso completamente rovinato dall’acido.

Mi sento {{una intrusa indecente}}, non riesco proprio a fotografare né a guardare e mi assale forte il desiderio di saper parlare le loro tante lingue e stabilire un contatto, un dialogo possibile che ci riporti alla nostra comune appartenenza al genere umano. Siamo passate poi a piedi per viuzze di fango piene di rifiuti, cose rotte e mai aggiustate, piccoli templi o altarini, dove sembra che anche gli uccelli piangano e la morte ti cammini accanto, ti sfiori, ti tocchi, ti strattoni. E ti invade la vergogna per la tua bella casa, il cibo che mangi grazie al sacrificio e al supplizio di tanti animali, gli sprechi innumerevoli. Ti senti male.

La vita qui viene vissuta come {{un flusso ininterrotto dove c’è posto per tutto e per tutti}}, anche per i topi, anch’essi sacri, poco importa se portano malattie.

Mi lascio interrogare da quello che vedo e che patisco, ma non tutto mi sembra negativo e avverto con particolare disagio i limiti della nostra cultura occidentale che procede per separazioni arbitrarie e nette tra esseri umani, animali e natura. Io invece so, ne ho anche scritto anni fa, che {{la distanza tra me e un pesciolino}} che mi nuota accanto nel mare non è poi così grande come vogliono farmi credere; e ancora… ci volevano studi scientifici durati anni per “scoprire” che i cani hanno quella zona del cervello preposta all’affettività che funziona come la nostra?

{{Troppo poco so e troppo poco ho visto }} di questo paese tanto vasto e tanto complicato che ha acquistato l’indipendenza dall’Inghilterra solo nel 1947: una Repubblica molto più giovane della nostra che ha ovviamente ancora molta strada da fare.

Mi sarebbe piaciuto visitarlo per i fatti miei, incontrare donne come Vandana Shiva o quelle dell’associazione del Sari rosa, ad esempio, che trovano e consegnano direttamente alle forze dell’ordine gli uomini che commettono violenza sulle donne. Sarei andata volentieri in quelle piccole comunità del Kerala dove ho letto che il potere è condiviso tra donne e uomini e il superfluo redistribuito tra chi ha più bisogno. Questo e tanto altro mi sarebbe piaciuto fare. Sento perciò {{un vuoto di conoscenza}} e alcune mie domande sono destinate a rimanere per ora senza risposta.

Grazie a questo viaggio, però, oggi so immaginare concretamente da dove viene la maggior parte delle Indiane e degli Indiani che vivono e lavorano nel nostro Paese.

{{Mi resta}} {{il dolore per tutta la miseria}} che ho visto, {{l’indignazione e la rabbia per una classe politica spesso corrotta}} che non riesce a migliorare la vita della sua gente più indifesa (l’India è una potenza economica al dodicesimo posto nel mondo!) e mi preoccupa non poco la campagna elettorale in atto in questi mesi in cui sembra crescere sempre più il nazionalismo che, come si sa, nega il valore delle differenze e lascia poco spazio alla libertà, soprattutto a quella delle donne.

{{Mi resta lo stupore per la tanta bellezza}} che ho potuto ammirare nei monumenti, nei volti, nei tanti occhi che per frazioni di secondo ho incrociato. E sento che in me si è rafforzata una certezza: abbiamo tanto da cambiare anche noi nel nostro modo di conoscere, di vivere, di consumare.

foto di Rosanna Marcodoppido