Articolo di MANUELA GANDINI

 

Dawn Kasper at the Venice Biennale

— La Biennale è un lungo racconto a puntate che si dipana negli anni. Non è pasta per gli occhi, cibo retinico, ma ricognizione sullo stato dell’umanità. L’edizione scorsa di Okwui Enwezor restituiva l’idea di un mondo destrutturato senza più architetti, un mondo in movimento da un luogo fisico a un luogo mentale ancora inesistente. Si esponevano serramenti e copertoni (Tsibi Geva-Israele) e buchi nei muri colorati tra le macerie (Antonio Manuel-Brasile) e un vecchio negozio greco ricostruito perfettamente (Maria Papadimitriu- Grecia). La Biennale di Christine Macel è un mosaico più sottile e soft che allontana lo zoom dal particolare per mostrare un panorama più vasto, frammentato e complesso. L’idea del trasloco dell’umanità in viaggio verso luoghi senza geografie, permane in modo rarefatto, impalpabile, pregno di evocazioni sciamaniche, riti e azioni propiziatorie (Arsenale). Ciò che si impone sempre più è il processo di delocalizzazione del reale che, in scala 1:1, si sposta dai propri luoghi abituali migrando dalla quotidianità all’eccezionalità espositiva. Il ready made dello scorrere della vita parte con Dawn Kasper, artista rocker della periferia di Washington, che porta alla Biennale il suo mondo, il quartiere, il suo “studio nomade”, gli amici, i giradischi e le sculture, i mixer e i componenti della band. È uno studio di registrazione, perennemente attivo, posto all’ingresso del Padiglione centrale ai Giardini. Ma anche il Padiglione della Francia (Xavier Veilhan) costruisce tout court uno spazio musicale, inclinando e rifacendo pavimenti e soffitti, incrociando figure geometriche angolari dal forte odore di legno, per ottenere un guscio, un luogo ovattato, una tana: lo studio perfetto. Per tutta la durata della Biennale, musicisti professionisti suonano e si esibiscono, coinvolgendo altri musicisti di passaggio in esperimenti e composizioni. Il mondo si ricrea trasferendo la realtà nel potere immaginifico dell’arte, come a dire che la realtà non può più stare nella propria pelle ma preme per trasformarsi in poesia. Disorientano le immense colonne grigie cascanti, i mondi e la distruzione della forma di Phyllida Barlow al Padiglione della Gran Bretagna. Il padiglione del Canada è sventrato. Il tetto rotto, un sacco a pelo e una fontana uguale a quella del Washington Square Park, creano un tetro paesaggio. L’artista, Geoffrey Farmer ricompone la scena del cortile di una scuola distrutta, il San Francisco Art Institute, decretando lo spopolamento delle istituzioni.

La delocalizzazione integrale di strutture domestiche, lavorative, artistiche, statali, verso il luogo dell’immaginario (l’arte) è una pratica che si diffonde nel 1993 con la Biennale di Achille Bonito Oliva profeticamente intitolata “I punti cardinali dell’arte”. Due esempi di allora sono l’affermarsi di un nuovo Stato, il “NSK State in Time”, e la delocalizzazione dei padiglioni nazionali. Nato dall’incontro tra artisti e musicisti provenienti dal punk e dal graffitismo sloveno che fondarono il collettivo IRWIN, lo Stato dell’Arte produsse dei veri e propri passaporti mentre imperversava la guerra nei Balcani e scompariva la Jugoslavia. Il secondo esempio riguarda il Padiglione di Israele che, uscito dalla propria sede storica, si materializzava – come kibbutz freschissimo e pieno di profumi e piante – nel mezzo dei Giardini, su progetto di Avital Geva. Era un luogo di rigenerazione per biennalisti esausti, di conoscenza e classificazione vegetale. Un esempio di sopravvivenza reale e un laboratorio di coltura e di vita. L’esatto contrario della macchinosa, scenografica e mortifera installazione di Giorgio Andreotta Calò per il padiglione italiano.

In questa edizione – curata da Macel, una giovane donna che ha colto l’esprit du temps – la vita e il lavorio umano sono celebrati anche al Padiglione centrale dei Giardini, con Green Light Workshop. Nell’installazione-laboratorio, luminoso e lindo, di Ellison Olafur domina il verde. Si tratta di un fablab con un centinaio di donne e uomini provenienti da paesi africani e asiatici che, attorno a lunghi tavoli, costruiscono lampade verdi. L’incontro con le persone che sono fuggite da realtà infernali, indaffarate nella costruzione di oggetti i cui proventi andranno a una serie di Ong di accoglienza, configura un luogo sociale reale in grado di produrre micro-economia, relazione e conoscenza. Questa umanità appare qui diversa e piena di dignità rispetto alla rappresentazione che ne viene usualmente fatta sia dagli artisti (si veda la mostra Terra Inquieta alla Triennale di Milano, curata da Massimiliano Gioni) sia dai media. Se le copertine sono sempre dedicate alla morte e alla distruzione, in quest’opera collettiva si produce vita, non emergenza. E a proposito dello stato di necessità concludo il breve excursus con Mark Bradford, che ha trasformato il padiglione americano in una sorta di caverna coloratissima. L’artista ha avviato con RTdP, una cooperativa sociale attiva nel sistema carcerario veneziano, una collaborazione di sei anni definita Process Collettivo, per il recupero lavorativo e creativo dei detenuti. Partendo dalla propria storia, Bradford affianca al termine necessità quello di accesso, lavorando con popolazioni emarginate. A Los Angeles con A+P offre formazione nelle competenze di base ai ragazzi dati in affido. Le sue opera-azioni confermano il fatto che occorre penetrare nelle pieghe più periferiche del sociale e che, nonostante il dominio del virtuale e del mercato, l’istanza più rivoluzionaria dell’arte non sia più né la rappresentazione né la politica, bensì l’azione e la rel-azione.

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Articolo di FRANCESCA PASINI

Un’opera d’arte ha significato politico? No, glielo diamo noi.

Duchamp diceva che l’opera si completa attraverso lo sguardo dell’osservatore. Io penso che il significato politico dell’arte emerga dal confronto tra il soggetto che osserva e il soggetto incarnato nell’opera. Non sempre i pensieri coincidono, da qui nascono l’aura anticonformista e la valenza politica espressa da questi due soggetti, messi al mondo – uno biologicamente, l’altro artisticamente – da uomini o donne. In questo “o”, appare la distinzione tra creare e procreare e l’autodeterminazione che l’arte e la società richiedono rispetto agli eventi politici, culturali, personali.

Un filo a zig zag ha collegato la mia lettura politica. L’ho trovato dopo la caduta di energia alla mostra di Christine Macel, per cui ho deciso di sospendere il giudizio su questa biennale e sull’asse franco-tedesco dei suoi premi.

Damien Hirst è al capo del filo. Tutto parte dalla ricerca dell’origine archetipico-mitica, topos della rinascita classica in varie epoche. Panofsky, inRinascimento e Rinascenze, ne vede l’origine già attorno al 1200, i neoclassicismi successivi sono arrivati fino alla progettazione di una città intera: San Pietroburgo.

Hirst mette i piedi nel piatto. Miti e figure, accompagnati da didascalie eccellenti, sono il test di verità del ritrovamento di “Incredibile”, la nave naufragata nell’oceano Indiano, di proprietà del primordiale collezionista globale: il liberto Amotan, vissuto ad Antiochia tra la metà del I secolo e l’inizio del II secolo d.C.

Una potente e “filologica” fantasia, incrosta i reperti, destinati al “Museo di Amotan”, con resti marini e tracce fantasy odierne. Tutto pervaso da ironia e colori. Nel video di presentazione e nei light box, che cadenzano le sale, le tecnologie dei sub sono una visione, sincronicamente perfetta dell’archetipo classico, occidentale che Hirst predispone per le 500 multinazionali che governano il mondo globale.

Hirst conosce le multinazionali, ne è il figlio prediletto e come tutti i figli prediletti disobbedisce. Fa un’asta dei suoi miliardari lavori e va sotto. Abbandona Gagosian, la galleria cardine del sistema, e rientra. Crea una “fusione” con la multinazionale della moda, Francois Pinault, e occupa le sedi espositive più celebri del mondo, nella città più celebre del mondo: Palazzo Grassi e Punta della Dogana. Collega il collezionista primordiale e il suo tesoro, all’origine primordiale del Museo Contemporaneo. Messaggio: Io sono una multinazionale!

La convenzione che l’arte sia di per sé democratica, che non interferisca con l’ordine mondiale, non solo dei potenti, ma anche dei semplici osservatori, sprofonda nella laguna. Pluto, Topolino, l’autoritratto di Hirst-Walt Disney, svelano che il potere dell’arte e dei potenti non si rappresenta solo con corone, diamanti, gioielli (che pure usa abbondantemente), ma con Walt Disney, Kubrick – Odissea nello Spazio, i film trash di violenza e battaglie in mondi alieni, “Il trono di spade”. Che fare?

Hirst-Caterina II vuole adornare il Palazzo di Inverno delle multinazionali, ma, nel bene e nel male, sulla Neva non c’è l’incrociatore Aurora, né il fischio d’avvio della Rivoluzione di Lenin. Ci siamo noi, con la necessità altrettanto impellente di capire la propria origine e i propri reperti.

Tutto il rumore di Hirst dice questo. E non è affatto poco.  Il filo si srotola fino al Padiglione Italia, ammirato da tutti, ma tenuto basso nella consacrazione ufficiale: nessun premio, nessuna menzione.

La storia dell’arte occidentale inizia in Italia. Per tutti! Il messaggio, punge tanto quanto Hirst, e viene dalle opere di Roberto Cuoghi.  Con un’istallazione, ormai più volte descritta, in ogni braccio di un tunnel di plastica trasparente è disteso il corpo, nudo, morto di un uomo. Non ha segni distintivi, solo una leggera inclinazione della testa. Ma, tutti sappiamo che è Cristo, crocefisso, deposto, risorto. Cuoghi ne disegna la deperibilità, la corrosione, l’odore di muffa, l’assenza di muscolatura. Con precisione e invenzione filologica stabilisce una distanza dall’iconografia cristiana e dalla prospettiva Rinascimentale.

Non c’è la finestra Albertiana, ma il  contatto diretto col tremendo e misterioso paesaggio della corruzione corporea. La tecnica attuale gli fornisce le macchine e la materia per dar vita ai corpi morti, per surgelarli, liofilizzarli, stabilizzarli “fisiologicamente”, pezzo per pezzo.

Si sa che la scienza è già arrivata a questo. Gli uomini-Cristo di Cuoghi sono plasmati di giorno in giorno: la vita nasce dalla vita; l’arte dall’arte. Infatti, all’uscita del tunnel, davanti ai frammenti sulla parete, scatta il ricordo dei resti di antiche sculture lignee o d’avorio, montati in modo da suggerire l’integrità originale. Il cerchio si apre alla precarietà della vita umana e dell’arte. Come diceva Lucio Fontana, “l’opera, prima o poi muore, eterno è il gesto”. Tempo fa. Cuoghi si è letteralmente trasformato nel corpo del padre, ha unito il soggetto dell’opera a sé stesso e a chi guarda. Un gesto, destinato a rinnovarsi, nell’arte e nella politica.

Tante donne fanno i conti con la storia dell’arte, anche questa è politica: Elisabetta Di Maggio, Maria Morganti (Fondazione Querini Stampalia); Marzia Migliora (Cà Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano); Carol Bove,Teresa Hubbard/Alexander Bircher (Padiglione Svizzero – Giardini.)

Elisabetta Di Maggio, qualche mese fa ha detto “ il problema è una nuova coscienza evolutiva”. Eccola. Con migliaia di aghi da entomologo disegna un volo di farfalla che non avviene mai in linea retta; foglie di edera “piantate” sul pavimento si avviluppano tra i divani Settecento; una bobina di carta velina intagliata irrora energia per il motore della mente. Una cuffia da bagno di porcellana intagliata con il bisturi, diventa una testa a cui ognuno aggiunge il volto ideale. Nella folla del cuore spesso basta una nuca. E’ appoggiata su una seggiolina di velluto rosso, sotto e a lato della Presentazione di Gesù al tempio, di Giovanni Bellini (1469). Come nel volo di una farfalla il bianco della porcellana, deviando, tocca quello delle fasce del Bambino.

Maria Morganti trasferisce la sua pratica pittorica, un colore dopo l’altro, un giorno dopo l’altro in una stoffa realizzata dall’industria tessile Bonotto. I colori vibrano nella trama. Ricoprono le pareti della caffetteria, progettata da Mario Botta in estensione col restauro di Carlo Scarpa del piano terra della Querini. Nella storia i pittori disegnavano e firmavano i cartoni degli arazzi, mentre le donne li realizzavano punto dopo punto senza lasciare traccia del loro nome. Maria non cancella il nome di chi li esegue, restituisce lo spazio disegnato dagli altri tenendo insieme la sua luce e quella umida di Carlo Scarpa. Riconoscere la differenza aumenta la libertà.

Marzia Migliora attraversa Cà Rezzonico con agilità. Scava nella storia della famiglia e completa il motto del loro stemma, Si Deus Pro Nobis con Quis Contra Nos, che trascrive su due specchi esistenti nel palazzo. Invade il salone con una fila di tavoli da orafo, sormontati da un blocco di salgemma, l’oro bianco di Venezia. In un quadro di Pietro Longhi, una ragazza indossa una maschera nera ovale. Ma quella maschera si deve tenere tra i denti, quindi la sentenza è, come dice Goldoni: “che la tasa, che la piasa, che la staga in casa”. Marzia ne fa una sul calco del suo volto, la sospende in una scatola trasparente. E’ la maschera dell’esclusione delle donne anche nel Secolo dei Lumi.

Carol Bove e Teresa Hubbard /Alexander Bircher. Le Women of Venice di Giacometti non sono mai arrivate al Padiglione Svizzero. Ora due donne le riportano e gli cambiano vita. Carol Bove ne fa delle figure astratte, colorate, con i vestiti al vento, quelle di Giacometti sono conficcate a piedi uniti per terra. Hubbard/Bircher raccontano in un film la commovente agnizione di un figlio rispetto alla madre. È Flora Mayo. Nel 1927 dalla California scappa a Parigi, studia all’Accademia con Giacometti, si amano. Nel 1933 deve tornare, il padre dopo il crollo del ’29, non può più mantenerla. Distrugge tutti i suoi lavori. Morirà in una casa di cura. Il figlio David non ne sapeva nulla. Il padre e l’amato non hanno investito su di lei. Ora, due donne e un uomo a Venezia le sbloccano i piedi e la fanno camminare nel mondo.

Da Fuori i Giardini (via Garibaldi, spazio “Venice Art Project”), Flavio Favelli lancia un messaggio a Damien Hirst e a tutt*. Per la settimana dell’opening, allestisce un bellissimo negozio, UNIVERS, dove vende a 20 euro una sua opera creata schiacciando delle lattine di birra. Il messaggio: Un prezzo politico è sempre libero! Mi sono comprata una birra olandese con un mulino a vento. Quello di don Chisciotte? Chi sa?

da:  alfapiù