A guardare «il bicchiere mezzo pieno», questo venerdì 17 non è poi andato tanto male. Le agenzie delle NU hanno reso noto gli ultimi dai sui tassi di mortalità infantile e materna. Considerevole riduzione di almeno un terzo rispetto a quelli che erano i dati del 1990. Ma la strada è ancora lunga.Ieri, venerdì 17, l’UNICEF ha reso noto i dati dell’ultimo rapporto “[Levels & Trends in Child Mortality->http://www.childinfo.org/files/Child_Mortality_Report_2010.pdf]” (Livelli e tendenze nella mortalità infantile) (in inglese) della IGME, un gruppo di agenzie delle Nazioni Unite per le stime sulla mortalità infantile.

{{I dati, per una volta, sono quasi confortanti}}: si registra una progressiva tendenza alla riduzione nel numero di bambini che, nel mondo, non giungono a compiere il quinto anno di vita.

{{La mortalità infantile è passata dai 12,4 milioni del 1990 agli attuali 8,1 milioni di casi}}; con un tasso di mortalità medio di 60 decessi ogni mille nati vivi, a fonte degli 89 decessi su mille degli anni novanta. Dunque, nel mondo muoio ogni giorno 12.000 bambini in meno rispetto al 1990.

{{Ma in realtà, la tragedia rimane}}: ogni giorno continuano a morire 22.000 bambini per cause che in larga parte potrebbero essere evitate. Il 70% di questi decessi avviene nel primo anno di vita.
_ In barba al venerdì 17, che sembrava sfatare la leggenda nera – {{la maggior parte delle morti è concentrata in pochi Paesi}}.

{{Nel 2009 circa metà dei decessi sotto i 5 anni è avvenuto in cinque Stati: India, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Cina e Pakistan}}. In Africa Sub-sahariana, 1 bambino su 8 non arriva a cinque anni; la media nei PVS è di 1 su 167.

Nonostante, il calo nei tassi di mortalità infantile (0-5 anni) sia stato decisamente più netto negli anni 2000-2009 rispetto al decennio precedente siamo ancora {{ben lontani dagli Obiettivi del Millennio}}, proclamati solennemente nel settembre del 2000.

L’obiettivo era una ridurre di due terzi – fra il 1990 e il 2015 – della mortalità infantile, ci attestiamo appena su proporzioni molto più contenute, un terzo o poco più.

Lo stesso dicasi per il {{tasso di mortalità materna}}. Il rapporto “Trends in maternal mortality: 1990 to 2008”, presentato contemporaneamente a Ginevra e New Yotk, qualche giorno fa, parla di una {{riduzione di un terzo rispetto ai dati del decennio precedente}}.

Il numero delle donne che muoiono per complicazioni post-gravidanza e parto è diminuita del 34% (da 546.000 nel 1990 a 358.000 nel 2008), secondo il rapporto dell’OMS, UNICEF, UNFPA e Banca mondiale.

“La riduzione globale dei tassi di mortalità materna è una notizia incoraggiante”, ha dichiarato la dott.ssa Margaret Chan, Direttore generale dell’OMS, ma il tasso annuo di riduzione è meno della metà di quanto è necessario per raggiungere l’obiettivo di Sviluppo del Millennio, ossia la riduzione del 75% del tasso di mortalità (periodo 1990-2015). Questo richiede una riduzione annua del 5,5% e il 34% di riduzione rispetto al 1990 comporta una riduzione media annua del solo il 2,3%.

Formazione del personale e miglioramento dei servizi di ostetricia hanno dato risultati ragguardevoli, ma {{le donne incinte continuano a morire per quattro motivi principali}}: grave emorragia post-parto, infezioni, ipertensione e aborto non sicuro.

Ciascuna di queste complicazioni nel 2008 ha ucciso circa 1.000 donne al giorno. Di queste 570 vivevano in Africa sub-sahariana, 300 in Asia meridionale e 5 nei paesi ad alto reddito.
_ Nei paesi in via di sviluppo, il rischio per una donna di morire per cause legate alla gravidanza è di 36 volte superiore a quello dei paesi sviluppati. «Le morti materne sono causa e conseguenza della povertà», ha detto Tamar Manuelyan Atinc, Vice Presidente di Sviluppo Umano della Banca Mondiale.
{“Per raggiungere il nostro obiettivo globale di ridurre la mortalità materna, dobbiamo continuare a lavorare per raggiungere le donne più a rischio. […] Queste donne sono quelle che vivono in zone rurali, povere e/o in aree di conflitto, coloro che appartengono a minoranze etniche e ai gruppi indigeni e quelle infettati da HIV”}, come ha sostenuto Anthony Lake, direttore esecutivo dell’UNICEF.

Dalla relazione, che copre il periodo dal 1990-2008, è emerso che: 10 degli 87 paesi con rapporti di mortalità materna uguale o superiore a 100 nel 1990 hanno ottenuto la riduzione desiderata del 5,5% annuo tra il 1990 e il 2008; ma nel resto dei 30 Paesi, i progressi compiuti a partire dal 1990 sono stati insufficienti.

Il 99% delle morti materne nel 2008 si è verificato nei PVS: il 57% in Africa sub-sahariana e il 30% in Asia. Certo, sono stati compiuti progressi notevoli in Africa sub-sahariana, in cui è diminuita la mortalità materna del 26% e si stima che il numero di morti materne in Asia è sceso da 315.000 a 139.000 tra il 1990 e il 2008, quasi una riduzione del 52%.

Le nuove stime mostrano che è possibile prevenire la morte di molte più donne. A tal fine, i Paesi però devono investire nelle loro sistemi sanitari e la qualità delle cure, ma parliamo di Paesi in cui – troppo spesso – a causa di una politica di contenimento delle spese e riduzione del debito pubblico, si fa tutt’altro.