Dal sito www.aprileonline.it riprendiamo questo articolo di della Sen. Silvana Pisa – A cosa sono servite e servono le guerre afgana e irachena? Quando si può dire che una guerra è vinta? La “liquidità” della modernità scompagina le carte e fornisce una risposta articolata. Proviamo a ricostruire un percorso
Nel’89 la fine dell’equilibrio bipolare porta a confondere l’occidente con l’unica potenza militare rimasta sul campo, gli Stati Uniti. Le {{“guerre moderne”}} sono quelle condotte in prima persona dagli USA con alleanze a geometrie variabili a seconda delle circostanze. Teorizzate, fin dagli inizi degli anni ’90 nei pensatoi neocon in continuità con l’idea di mondo sostenuta da Bush-senior “difendere il tenore di vita degli americani a qualunque costo”: controllare e razziare le risorse energetiche, mercati, territori strategici, anche a costo di guerre unilaterali, preventive, permanenti. I pretesti per innestarle non sono difficili da trovare.

Le guerre moderne implicano l’uso di tecnologie molto costose e sofisticate che fanno del war-fare un elemento forte del pil americano. Il libro paga del {Departement of Defence} conta più di 2 milioni di nomi senza contare i riservisti, i contractors, i tanti lavoratori delle industrie delle armi. Queste guerre prevedono l’impegno preponderante della guerra aerea e missilistica (con l’uso di gigantesche portaerei) che mirano alla riduzione del numero di combattenti sul campo.

È la teorizzazione del {{trasferimento del rischio sul nemico}} per consentire ai militari aggressori “zero perdite” o quantomeno una minimizzazione del rischio. In questa ottica si enfatizzano gli armamenti di precisione (le bombe intelligenti) anche se comportano “danni collaterali” (vedi oggi l’Afghanistan). Questi {{investono principalmente i civiliche costituiscono più del 90% delle vittime}} delle guerre moderne. Si tratta degli “inermi” (senza armi) coinvolti nel mucchio. L’illusione di chi agisce la guerra è ancora quella della delocalizzazione: gli orrori lontani si rimuovono più in fretta e conservano l’illusione di una vittoria pulita.

L'{{11 di settembre}} “il terrorismo” (non più i soggetti terroristi) irrompe nella storia con la rappresentazione della morte in diretta sugli schermi domestici di tutto il mondo. Il dato di novità è che il terrorismo in questa occasione s’impossessa delle tecniche della potenza dominante (tecnologie informatiche, aeronautiche, finanziarie) per meglio vincerla consentendo anche la spettacolarizzazione mediatica dell’orrore. L’altro elemento, più antico ma non meno trascinante, è che i terroristi sono riusciti a fare della propria morte un’arma assoluta contro un sistema che vive sull’esclusione della morte e il cui ideale è avere 0 morti (Baudrillard).

È l’inizio della {{guerra asimmetrica}} (anche se episodi precedenti ce ne sono stati tanti nelle numerose guerriglie sparse per il mondo soprattutto in funzione di liberazione da un’occupazione straniera).
Ma se la minaccia viene dal terrorismo quale è la risposta efficace? Non certo l’occupazione militare del paese da cui provengono i terroristi come è stato fatto con l'{{Afghanistan}}.
_ In casi precedenti ({{Libano}} 1968 e {{Tunisia}} 1985) il {{Consiglio di sicurezza dell’ONU}} aveva condannato il ricorso alla forza contro uno Stato per colpire gruppi terroristici. Né si trattava di legittima difesa perché l’art 51 della {{Carta delle Nazioni Unite}} sostiene che il presupposto per esercitarla è un “attacco armato” che continua nel tempo. La risoluzione dell’ONU 1368 nel cui preambolo si riconobbe il diritto di legittima difesa degli Stati Uniti per reagire ad una “minaccia alla pace” oltre a costituire una forzatura del diritto internazionale (comprensibile solo dal punto di vista dell’emotività globale suscitata dal drammatico evento) risultava “ambigua e contraddittoria” (A. Cassese) Ancora : il Consiglio di Sicurezza non ha mai autorizzato preventivamente la missione Enduring freedom in cui l’uso della forza bellica viene utilizzata non per difendersi ma per aggredire.

Le {{alternative alla guerra esistevano allora come esistono oggi}}. Si poteva trattare perché i talebani consegnassero agli USA i gruppi di Al Quaeda (una trattativa era già stata iniziata con Clinton) oppure si poteva perseguire la punizione dei terroristi catturandoli e consegnandoli ai massimi livelli della giustizia internazionale costituendo un tribunale internazionale speciale (dato che nel 2001 il Tribunale Penale Internazionale non era ancora operativo all’AJA).
_ “La legge da sola non basta: ma ha un grande potenziale per delegittimare governanti e leader assassini e, combinata con una varietà di altre misure coercitive non violente, potrebbe conseguire molti dei risultati che si ricercano attraverso la guerra, con pochissime delle sue disastrose conseguenze”.

Senza contare che verso la generica “minaccia” terroristica -contro la quale anche il nostro paese si arma fino ai denti- la via più efficace da percorrere resta quella di prevenirne le cause. Prosciugare i bacini d’odio, brodo di coltura del terrorismo. Lo si fa affrontando il tema della ridistribuzione delle risorse nei confronti dei tanti paesi in cui un pasto alla madrassa rappresenta per tanti giovani l’unico modo per sbarcare il lunario. Rendere il mondo più uguale, dialogare con culture diverse, significa anche consentire l’accesso ai mercati occidentali dei tanti paesi del sud del mondo che invece si scontrano con economie del nord protette e sovvenzionate. Ai paesi poveri non resta che produrre immigrazione.

{{La strada scelta}} è stata altra perché il fine, fin dall’inizio, era altro: incistare basi militari americane in quelle regioni per fini geopolitici di controllo delle risorse energetiche e per contenimento di paesi come Iran, Cina, Russia e India.
_ Oggi abbiamo di fronte un grande {{Medio Oriente}} sempre più destabilizzato: la crisi cronicizzata di Israele e Palestina, la mattanza quotidiana in {{Iraq}}, il {{Libano}} che stenta a trovare stabilità politica, lo stesso Afghanistan senza pace, l’Iran accerchiato e sulle difensive che prepara l’arma nucleare.
_ Le guerre d'{{Afghanistan e Iraq}} non hanno risolto il tema del terrorismo ma hanno agito da detonatore spargendolo nel mondo (attentati di Madrid e Londra e non solo).

Che le {{truppe d’occupazione}} restino non è la soluzione del problema della sicurezza di quei paesi ma costituisce una parte del problema. Gli eserciti d’occupazione non evitano la guerra civile irachena né rendono l’Afghanistan più vivibile (corruzione, narcotraffico, dominio dei signori della guerra, insorgenza talebana).
_ Il {{nostro paese}} ad esempio resta in Afghanistan con i suoi militari, coinvolto in una guerra d’occupazione, non per migliorare le condizioni di vita degli afgani -che sono peggiorate- ma in virtù di una coalizione internazionale dominata dagli interessi imperiali di uno Stato guida.
In questo modo il mezzo (la coalizione) diventa il fine.

Dicono i teorici che una guerra si vince quando si raggiunge l’obiettivo che ci si era proposti nel farla e quando l’avversario riconosce la propria sconfitta. Ma {{la vittoria militare non coincide con la vittoria politica}}: l’ampliarsi del raggio d’azione degli insurgents iracheni e afgani lo dimostra, nonostante in quei paesi siano state agite procedure elettorali “democratiche.” La pacificazione in quei territori è ancora lontana.
Per gli Stati Uniti, e per la Nato -utilizzata unilateralmente dagli Usa- l’unica exit strategy accettabile è mantenere i propri interessi in quello scacchiere ma per farlo debbono continuare ad occupare il paese con basi militari e questa non è una politica che tiene insieme le diversità. L’unica strada per uscirne sarebbe “{{comprare la pace}}”: mettere sul piatto un compromesso dignitoso ed accettabile per tutti ma questo vorrebbe dire che il vero obiettivo per cui si è scatenata la guerra -la costruzione di un nuovo scenario geopolitico- non è stato conseguito- e il gioco dell’oca ritornerebbe all’inizio.

Questo dimostra che le guerre non solo sono eticamente riprovevoli ma soprattutto irragionevoli: non risolvono e quasi sempre innestano ulteriori instabilità. Se lo stesso impegno -finanziario, lavorativo, assistenziale- fosse rivolto a democratizzare e rafforzare le istituzioni politiche globali (ONU, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, WTO, Tribunali Internazionali) si potrebbero raggiungere risultati migliori.
Senza contare che bisognerebbe mettere in naftalina una volta per sempre la teoria dell’esportazione della democrazia: non solo
{{Guantanamo e Abu Graib}} ma soprattutto le stragi d’innocenti civili ci interrogano sulla contraddizione occidentale di fare la guerra in favore di quei diritti umani che le stesse coalizioni occidentali (quella dei volenterosi in Iraq, Isaf-Nato in Afghanistan) calpestano quotidianamente.

Si tratta di una colpevole miopia che trascura l’unica via efficace: relazioni diplomatiche graduali in cui, nel rispetto dell’autodeterminazione, venga ricreata una strada comune (per esempio per convincere l’Iran a rinunciare all’arricchimento dell’uranio a fini militari, non sarebbe più utile proporre una denuclearizzazione dell’intera area da Israele al Pakistan e all’India?).

Oggi anche {{negli USA c’è un ripensamento rispetto al senso di queste guerre}} non solo negli ambienti democratici: il politologo repubblicano Edward Lutwak ha scritto recentemente che per superare il senso di umiliazione e di sconfitta delle antiche nazioni del Medio Oriente occorre “evitare invasioni militari… e lasciare che i popoli del Medio Oriente vivano la propria storia”. Tradotto, significa che la strategia adottata finora non ha pagato! E questo viene detto nello stesso momento in cui la Nato giustifica le stragi “dal cielo” di civili in afgani affermando che questo succede perché le truppe di terra sono troppo scarse! La Nato, che per la prima volta e con una forzatura giuridica (accordi di Washington del ’99) opera al di fuori dell’area atlantica si è trasformata in Nato globale: non più alleanza difensiva ma offensiva, non soltanto militare ma anche politica. In Afghanistan la Nato si gioca la sua “credibilità” in una partita impari militarmente per la potenza dei suoi armamenti, ma politicamente già persa.

{{Come se ne esce?}} perché di uscirne si tratta! Possiamo destinare cinquanta milioni per i piani di ricostruzione come si è deciso recentemente a Roma nella conferenza sulla giustizia e sui diritti umani in Afghanistan; possiamo continuare a sostenere la necessità di una pacificazione attraverso conferenze internazionali; possiamo ridefinire i profili delle nostre missioni, sostituire alle coalizioni USA quelle Nato (che ne adottano modalità: in Afghanistan, Enduring Freedom ha “cannibalizzato” la Nato che oggi opera sotto lo stesso comando USA del generale MC Neil) ma il punto politico resta quello: perché i nostri militari devono partecipare o appoggiare guerre dannose ed inutili?

Perché l’Italia è pronta ad inviare Carabinieri in Iraq sotto comando Nato per addestrare la polizia Irachena? Non era un punto qualificante dell’Unione -la tanto invocata discontinuità- aver ritirato il contingente italiano dall’Iraq? Perché da mesi le nostre truppe speciali sono impegnate in zone d’operazione dell’Afghanistan facendo la guerra (mentre la Francia pochi mesi fa le ha ritirate?).

Perché quella “{{vecchia Europa}}” che ha fatto pesare il suo dissenso alla guerra irachena -Francia, Germania, Spagna ed Italia- e che secondo il sondaggio del Financial
Times vede nelle “guerre al terrorismo” degli Stati Uniti il principale ostacolo alla pace, non riesce a prendere le distanze dal fallimento della guerra afgana? I {{parlamentari italiani}} che in ottobre saranno a Reykjavik al parlamento della Nato sapranno convincere in questo senso i loro colleghi? L’Italia che in questo periodo siede al consiglio di Sicurezza dell’ONU, non è in grado di insistere per una gestione ONU e non Nato della situazione afgana?

Molte sono le domande che si affollano e qualche certezza: il contesto afgano è cambiato in peggio; oggi si tratta di un contesto di guerra. Il voto parlamentare sulla missione lo scorso marzo fu dato -anche con sofferenza della sinistra- nella prospettiva di una svolta positiva che non si è realizzata. Oggi di fronte a massacri quotidiani -spesso taciuti dalla stampa- occorre che il nostro paese si avvii al ritiro della presenza militare anche unilateralmente. Qualcuno dovrà pur cominciare!