La politica di questo paese segue una direzione ostinatamente contraria, a
volte, al semplice buon senso, a tratti, alla legalità, sempre ai bisogni
primari. Bisogni primari che non è qui il caso di specificare quali siano e
che possono essere sintetizzati nei diritti inalienabili della persona.Guardando ai vertici, nelle parole e nei gesti dei politici, inalienabile
sembra solo l’ordine gerarchico dato: ed anche qui non vale la pena di
disperdersi in spiegazioni su fatti ormai noti a tutte e tutti.
_ A guardare le cose da cittadine ci si chiede che fine abbia fatto il frutto
nato dal contrasto tra cittadini e politica, per riassumere, il discorso
sulla casta.

La risposta a questa domanda è tanto implicita quanto inquietante: il
frutto è l’uomo forte, più forte dei precedenti salvatori della Patria.
_ Più la politica lascia degenerare i problemi, e sembra abbia interesse a
lasciarli degenerare, e più i cittadini oppressi dalle emergenze sono
rifugiati, più che rifugiarsi essi stessi, nell’uomo della salvezza. A
destra come a sinistra.

Inutile fare nomi, inutile dire che la soluzione che la casta, incapace di
autoriformarsi per definizione, ha scelto per se stessa è quella di
diventare tutt’uno con l’immagine dei capi. Sono i capi che rappresentano se stessi nell’energia autoritaria e nelle “soluzioni finali”.

Nasce prima l’uomo forte o nascono prima le situazioni emergenziali che lo
reclamano? Non siamo noi a dover aggiungere dietrologie alla cultura del
nazionale del complotto. Il complotto è fatto da uomini che possono farlo e
che lo agiscono nella disponibilità contingente dei poteri, ovvero nulla che
possa immediatamente essere riportato al tipo di oppressione subita dalle
donne, che è ordinaria e non emergenziale. Complotti, emergenze sono le
diversioni di una costruzione gerarchica data e oggi più che mai violenta
perché in crisi.

La cultura del complotto, sia agito che assistito, nasconde la vera natura
della realizzazione del teorema maschile che conduce al “bisogno del capo
più forte”. La vera natura di quanto accade è l’esasperazione del conflitto
tra la legittima aspirazione femminile a governare il presente e il futuro e
la difesa del predominio maschile.
_ Il governo nel terzo millennio in modo più evidente ed impudico non pratica
l’ordinaria amministrazione, ovvero la prevenzione delle emergenze.

Non solo le così dette catastrofi naturali, che certo a volte lo sono, non
solo nelle conseguenze del consumo dissennato e non solo nelle conseguenze
della speculazione finanziaria, si delineano azioni governative sempre più
assimilabili ai regimi dittatoriali, perché svincolate dalle regole cui sono
sottoposti i cittadini comuni. Lo sviluppo della democrazia che deve
condurre i sudditi ad essere cittadini pari tra loro, in un simile stile di
governo è indesiderabile, o meglio, indesiderabile come sempre per il
governo.

Il rapporto esistente tra la quotidianità delle donne e la dimensione
pubblica rivela molto più della semplice incapacità a governate: rivela la
necessità dello stato di continua emergenza. Sarebbe altrimenti inspiegabile
lo stato di clandestinità e invisibilità nelle quali si compiono gesti
necessari.
_ Sono i gesti che normalmente le donne compiono in quel territorio detto
lavoro di cura, quel lavoro gratuito e volontario, ma senza il quale tutto
si ferma.
_ L’importanza di quei gesti, nient’affatto automatici ma compiuti per scelta
responsabile, è ben presente a tutti. Il fatto che questa sfera non occupi
alcuno spazio nella distribuzione del prestigio e della rilevanza politica
risponde evidentemente all’esigenza di distrarre le risorse dai bisogni
primari.

C’è però un aspetto più decisivo per l’occultamento del lavoro di cura: i
gesti responsabili delle donne sono la contraddizione quotidiana degli stili
di governo, delle emergenze, della “necessità dell’uomo forte”, perché
risolvono e prevengono.
_ Lo sguardo esterno sull’emergenza successiva terremoto de L’Aquila, privo
del dolore e lutto subito direttamente, ha rivelato, come sempre,
l’impossibilità di far convivere responsabilità femminile e gestione
autoritaria delle emergenze.

La televisione ed i giornali ci hanno rimandato la realtà (non importa se
rappresentata o semplicemente documentata) di donne, più che immobili,
immobilizzate, paralizzate, certo dal dolore nelle prime ore, ma
successivamente dall’irregimentazione dei gesti più naturali del provvedere
a sé “nello spazio possibile”. Nulla lasciato all’intelligenza e alla
riorganizzazione personale.
_ Anche nel potere ognuna rintraccia continuamente il segno dello
stemperamento dei gesti femminili “sul prestigio del capo”, così come
risulta stemperato sulle donne il disdoro della gestione politica, più che
mai nelle mani forti del capo.

Può altrettanto essere rintracciata, nella politica, la necessità che i
gesti delle donne vengano rinominati: perché la capacità di governare da
donne è un fatto, e può essere liberata dal disdoro della direzione
ordinariamente maschile, che ha aspetto e sostanza analoghi a quel che
vediamo relativamente alle violenze sessuate.

Non si tratta di proporre, per le regionali del marzo 2010, una campagna
eroica quanto inutile del genere “donna vota donna” ma di rinominare e
rendere pubblico il sostegno della presenza possibile delle donne nelle
assemblee elettive. Le donne che portarono la lettera scarlatta dell’UDI
nelle precedenti tornate elettorali, segnalavano di non essere estranee, ma
di essere tenute estranee al potere.
_ Ciò non ostante alcune donne sono nelle istituzioni, se pure marcate dalla
benevolenza dei capi, se pure nell’invisibilità del contributo delle
elettrici, se pure nell’iniquità del sistema elettorale.

Le leggi regionali, anche per effetto del rifiuto delle quote simboliche
pronunciato con 50e50 (la legge nazionale d’iniziativa popolare dell’UDI)
configurano in alcune realtà un quadro diverso da quello nazionale nelle
elezioni dei rappresentanti, qui è possibile rinominare, se pure ad alti
costi, l’elezione di donne “nonostante i capi”. Se dovesse continuare a
prevalere l’indifferenza all’elezione o no di donne nelle assemblee
elettive, la conferma all’uomo forte otterrebbe ulteriori e drammatiche
conferme.

Tutto delinea una prospettiva che pare indispensabile affrontare, e si
tratta della probabilità, non troppo lontana, che i poteri per la loro
conflittualità interna si rendano incapaci di interpretare qualsiasi
credibilità pubblica, non solo per le donne intese come soggetto politico,
ma anche per un gran numero di cittadini “disimpegnati” o “accordati col
sistema”. Una svolta autoritaria concreta, non retoricamente pronunciata
come è stato finora, può emergere per autoinvestitura. Le donne sicuramente
costituiscono l’unica alternativa.

È nella necessità di affrontare questo momento politico che la soggettività
politica del femminismo ha l’opportunità di indirizzare gesti responsabili
rivelatori, in netta opposizione alla gestione irresponsabile ed ordinaria
dei vertici. Si tratta di parole che possono essere pronunciate, di gesti
che è possibile fare.