Ai margini della Conferenza internazionale sulla violenza contro le donne (9settembre 2009), citando anche l’esempio di paesi quali il Senegal e il Burkina Faso, è stata comunicata la decisione di istituire una giornata contro le mutilazioni genitali.
Secondo i dati resi noti da{{ Margherita Boniver}}, inviato speciale per le emergenze umanitarie, nel mondo sono 140 milioni le donne che hanno subito una mutilazione genitale parziale o totale. D’altronde, dati dell’OMS rivelano come nel solo continente africano ogni anno circa tre milioni di bambine e donne siano sottoposte a un intervento di escissione/mutilazione genitale femminile (E/Mgf).

{{L’appartenenza etnica}} sembra giocare un ruolo importante nel tipo di intervento mutilatorio imposto. Secondo indagini condotte a livello nazionale dai singoli Stati e poi rielaborate dall’OMS il 90% delle Mgf praticate è di tipo escissorio (con taglio e/o rimozione di parti dell’apparato genitale della donna), mentre un decimo dei casi si riferisce all’azione specifica dell’infibulazione, che ha come scopo il restringimento dell’orifizio vaginale e può a sua volta essere associato anche a un’escissione. In Africa più di 91,5 milioni di ragazze di età superiore a 9 anni sono vittime di mutilazioni genitali e in paesi quali Sudan, Sierra Leone, Mali, Somalia, il fenomeno sembra toccare quasi l’intera popolazione femminile.

Negli ultimi decenni, {{la consapevolezza delle implicazioni negative per la salute}} della donna ha fatto sì che una percentuale sempre maggiore di casi di Mgf venissero gestiti da personale dotato di un livello anche rudimentale di formazione sanitaria. Diciamo che {{forme “medicalizzate” di Mgf}} sono praticate, per esempio, per il 94% del totale dei casi in Egitto, 76% in Yemen, 65% in Mauritania. L’UNICEF e l’OMS sottolineano che questa evoluzione del fenomeno se da una parte limita il dolore e alcune conseguenze negative legate alla gestione delle complicazioni (quali emorragie, infezioni), non cambia il fatto che le Mgf rappresentino una lesione dei diritti umani in quanto «impedisce il godimento dei diritti e delle libertà fondamentale e l’autodeterminazione libera e scevra da condizionamenti e minacce», così come sottolineato nella stessa conferenza dalla {{ vicesegretaria generale delle Nazioni Unite, Asha Rose Migiro.}}

{{L’azione condotta a livello internazionale negli ultimi trent’anni ha comportato effetti positivi su molte legislazioni nazionali.}} Sembra infatti che le ragazze più giovani tendano a sottrarsi a questa pratica con maggior efficacia delle loro coetanee in epoche precedenti. Ma a causa di legislazione anti-Mfg in alcuni paesi è stato registrato un abbassamento dell’età media delle vittime, per eludere la legge; e la stessa UNICEF teme che ciò possa anche spingere coloro che non intendono abbandonarla verso una deriva clandestina della pratica, come accade spesso con l’aborto in un regime di proibizionismo.
Si tratta di {{retaggi culturali difficili da combattere}}. La pratica, infatti, è considerata fondamentale per garantire il prestigio di una bambina o donna, per consentirle di trovare un marito, per conferirle castità, salute, bellezza e onore della famiglia.

Si tratta di un problema culturale legato a tradizioni ancestrali, che solo l’educazione e la sensibilizzazione possono affrontare. Ma è {{un problema che non può essere relegato alla sanità o nello specifico alle donne}}, è una battaglia che va condotta dall’intera società: donne e uomini. Non solo perché gli uomini «hanno il potere di decidere su intere comunità», ma perché sono parti delle medesime comunità e sensibilizzarli, significa in primis, aprire loro gli occhi sulle sofferenze inutili a cui sono sottoposte le persone a cui voglio bene: le loro madri, mogli, figlie. È questo uno degli aspetti su cui ha maggiormente insistito {{Asha Rose Migiro}}. Il relativismo culturale, pilastro fondamentale del diritto umanitario e della tutela degli stessi, è spesso additato come il responsabile di una “miopia diffusa” che affetta coloro che cercano di non vedere e quindi non affronare problematiche che richiedono un impegno stituzionale considerevole. Ma che se ne dica una strumentalizzazione del relativismo culturale non può certo giustificare: miopia o strabismo istituzionale!

Le mutilazioni genitali rappresentano una violazione del diritto umano, nello specifico, come sottolineato da Emma Bonino, dell’intangibilità del corpo, ecco perché la stessa vicepresidente del senato ha considerato «un’ottima idea» la proposta del ministro Frattini di organizzare un conferenza, al margine dell’ Assemblea generale dell’ONU, che si è svolta il 25 settembre, per definire una «politica comune» per combattere questo tipo di violenza. Ma aldilà delle parole di problemi restano! Servono piani e programmi seri di educazione, e azioni di contrasto a tutto il sistema dei rapporti di genere.

Indire giornate internazionali contro le mutilazioni genitali, come quella {{proposta per il 10 maggio}}, sfoggiare braccialetti di caucciù bianchi (come quelli distribuiti alla Conferenza sulla violenza contro le donne di Roma), sono belle idee ma come sottolineato da {{Daniela Colombo}}, presidente dell’ong italiana Aidos, servono i fatti!

La sensibilizzazione diffusa è indubbiamente lo strumento educativo migliore, ma serveno tempo, progetti, organizzazione e coordinamento. Insomma servono soldi! E questo è il tasto dolente. Il tema è stato sollevato più volte, da varie delegazioni, ma non si è giunti a vere conclusioni. Si è parlato di sostenere le iniziative come la campagna «Unite to end violence against women» del segretario generale delle Nazioni Unite ma, intanto, ha ricordato Daniela Colombo: l’Italia ha ridotto drasticamente i suoi finanziamenti all’Unifem e Unfra. «Anche ai piani delle Nazioni Unite l’Italia ha dato 300 mila dollari poi più niente».

Alcuni strumenti per l’escissione tradizionalmente usati in Niger
©UNICEF Niger/G.Pirozzi http://www.unicef.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/1059