Il titolo che ho scelto, “Una donna di nome ‘A’yscha” ha sostituitoquello potenziale“La donna nell’Islam”. Non esiste “la donna musulmana”, avulsa dal contesto storico, sociale e geografico, esistono “le donne musulmane”.
Considerando solo alcune donne legate al Profeta da vincoli di parentela ci si trova di fronte a modelli assai differenti, per atteggiamento, comportamento, indole e approccio ai rapporti di genere.‘A’ysha, la giovane moglie del Profeta, incarna il modello di donna attiva e autonoma, protagonista di aneddoti che dipingono il suo carattere vivace e ribelle, fino ad apostrofare così il Profeta: “Vedo che il tuo Dio si affretta a venirti personalmente in aiuto negli affari di cuore!”. Fatima, la figlia del Profeta e la sposa di ‘Ali, è invece il modello di moglie e madre rassicurante e accomodante. Sukaina bint al-Hussein, pronipote del Profeta, è ricordata per le proteste contro l’intensificazione delle restrizioni alle donne e per la sua fermezza nel non voler nascondere la bellezza di cui Dio stesso le aveva fatto dono.

La rappresentazione della donna nell’Islam, sempre uguale a se stessa, sottomessa e lapidata, rinchiusa e con il burqa, non rende giustizia ai movimenti delle donne marocchine per la riforma della [moudawana->http://www.hrea.org/moudawana.html] (diritto di famiglia) (testo disponibile in inglese), né alle donne che studiano il fiqh (giurisprudenza islamica) per scalfire il monopolio maschile di interpretazione dell’Islam.

La rappresentazione dell’Islam come blocco monolitico fa parte di quella particolare attitudine allo studio dell’Oriente che ha così ben analizzato Edward Said. I caratteri dell’arabo o della donna musulmana diventano metastorici e metaindividuali, nutrendo un nuovo tipo di razzismo, quello che Taguiff ha definito “razzismo differenzialista” che esalta le “differenze” dell’“l’altro” rendendole assolute e incommensurabili. All’Oriente e, all’Islam in particolare in questo periodo, viene negata la contemporaneità, la potenzialità di cambiamento, la storicità e la dinamicità, la complessità e la varietà.

Il dibattito sul velo è sintomatico.
_ Il velo è stato stigmatizzato dagli europei come segno dell’arretratezza dei popoli orientali e si è macchiato di servilismo nei confronti del colonialismo in passato, lo pseudo-femminismo indignato dal velo oggi non tiene conto del “dinamismo storico del velo”, catalogandolo semplicisticamente e arrogantemente come segno di sottomissione.

In Algeria, il velo fu utilizzato come reazione all’occupazione francese, in proposito, così commenta Franz Fanon nel 1971: “Velo tolto e poi rimesso, velo strumentalizzato… C’è dunque un dinamismo storico del velo… ci si vela per tradizione, per separazione rigida dei sessi, ma anche perché l’occupante vuole strappare il velo all’Algeria”.

Un femminismo “orientalista”, rischia di essere complice della diffusione del razzismo differenzialista in Occidente e dell’incremento del fondamentalismo nel mondo islamico.

– {L’immagine è tratta dal sito [www.rawa.org->kttp://www.rawa.org]}