Non so se è stato l’articolo di Michele Ainis sul Corriere del 6 febbraio, che contestava il termine e il concetto di “voto utile”. Non so se è stato il richiamo a quanto il diritto di voto sia costato a chi mi ha preceduta (“sangue e vite amare”, diceva un canto popolare riscritto da un coro di compagne). Sta di fatto che ho cambiato idea rispetto al voto.Ero (non proprio tranquillamente) approdata alla decisione di non votare, avevo anche pensato cosa scrivere sulla scheda: “Faccio politica 364 giorni all’anno: oggi NO!”. Ogni giorno che passava di questa campagna elettorale squallida, con una legge elettorale indecente, dopo un processo di formazione delle liste della sinistra (quella senza centro) che ha bruciato le speranze e le illusioni di tanti e tante (non le mie, perché non ne avevo…), ogni giorno mi confermava nella decisione.
Fra ieri e oggi un giro di boa, con la scelta di dare un “voto inutile”.
Ho deciso di votare Sel alla Camera e Rivoluzione civile al Senato. E’ un voto inutile soprattutto perché voto in Toscana, dove Rivoluzione civile non ha nessuna o quasi possibilità di prendere seggi al Senato, e dove il centrosinistra vincerà qualunque cosa io faccia.
Nonostante questo sento il bisogno di spiegare a chi avrà voglia di leggermi i motivi di questa scelta, oltre allo spirito di contraddizione che l’articolo di Ainis aveva rafforzato in me.
Ho, ormai da molti anni, {{la pretesa di votare delle donne, e di votare a sinistra}}. Questa seconda pretesa riduce in questa occasione le opzioni possibili a due. La prima è di fatto resa vana dal sistema elettorale vigente. Ma questa volta una serie di fattori che non sto ad analizzare qui, ma che mi piacerebbe affrontare insieme ad altre sabato prossimo a Bologna, hanno reso probabile una presenza di donne in Parlamento maggiore del solito. Ci sono infatti più donne (del solito) in posizioni eleggibili: chi ha fatto i conti dice che potrebbero essere alla fine più di un terzo.
A me questo interessa. Non mi interessa la “rappresentanza delle donne”, mi interessa, e non è un gioco di parole, che ci siano più donne rappresentanti. Sono approdata alla convinzione che la richiesta che siano il 50% sia {{un modo per garantire un diritto}}, oltre la logica riduttiva delle quote, e per questo non mi basta che siano il 30 o il 40%, che restano, appunto, quote. Penso che i partiti che affermano di credere nella democrazia paritaria avrebbero dovuto approfittare della legge elettorale per realizzarla, almeno al proprio interno. So benissimo che parte degli appelli alle donne sono spie della debolezza maschile di fronte alla crisi della politica, e non solo. Ciò nonostante, prendo atto dei segnali di cambiamento e uso anche questo come {{criterio di scelta}}.
Sel e Pd, (che non potrebbe comunque essere la mia scelta, per altri motivi) sono le liste che hanno più donne eleggibili. Rivoluzione civile ne ha di meno, ma le ha soprattutto nelle liste per il Senato. So benissimo che sono state messe lì perché tanto non saranno elette: del resto quando il sistema in uso è quello con i collegi uninominale (UK, Francia, noi qualche tempo fa) è abitudine universale mettere le donne nei collegi più a rischio.
Non importa: tanto so benissimo che il mio sarà un voto inutile.
So anche che in entrambe le liste non sono tante le donne con cui potrò costruire relazioni politiche significative in un’ottica femminista. {{Ma continuo ad avere del femminismo una visione plurale}}: credo che nella varietà dei percorsi ci saranno più donne del solito abituate o disposte a cercare in sé e nelle proprie simili la radice della propria forza. E questo mi basta.
Credo che l’ostacolo principale per le donne non sono tanto altre donne che hanno pratiche diverse, quanto il potere e la cultura patriarcale che permeano i luoghi delle decisioni politiche più ancora di altri.
E quindi condivido e rilancio la proposta che Maria Grazia Campari ha fatto sia a Paestum che dopo (e per la verità anche prima) di costruire {{una rete di relazioni orizzontali e verticali, fra femministe}}, coinvolgendo anche coloro che a volte non si dichiarano tali, ma che hanno storie di “autonomia” politica che possono costituire una garanzia.
Riparliamone dopo il 25 febbraio.