Relazione introduttiva al seminario “Il lavoro culturale e politico delle donne per una nuova civiltà delle relaizoni”, organizzato dall’Udi romana La Goccia a Roma nella Casa internazionale delle donne il 15 settembre 2011.Questo Seminario , come è stato detto, è parte di un progetto ampio ed articolato che porta il titolo {“L’Unità delle donne. Centocinquanta anni di lavoro femminile in Italia”}.

Noi dell’Udi Romana “La Goccia” abbiamo scelto di prendere in esame quel particolare tipo di lavoro che molte donne italiane hanno affrontato, rischiando anche la vita, per uscire da una condizione di oppressione e violenza e mettere al mondo una nuova civiltà.

La civiltà umana, come è noto, ha inizio nel {{passaggio tra l’oralità e la scrittura, tra preistoria e storia}} e porta i segni evidenti di un esito violento del conflitto tra i sessi risolto in una asimmetria che regolerà le relazioni tra donne e uomini per millenni.
Il potere femminile di generare che aveva dato vita a lungo al culto della Dea Madre, testimoniato in tutta l’area del Mediterraneo da numerosissimi reperti archeologici, viene ridimensionato drasticamente a vantaggio di un principio ordinatore e creatore che assume sembianze e simbologie maschili.

E’ dunque {{sull’ordine simbolico del Padr}}e che si strutturano le prime grandi civiltà: superiorità maschile e inferiorità femminile assunti come dati naturali e immodificabili giustificano l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica e strutturano il dominio maschile in ogni ambito della vita e del sapere. Un sapere che nasce da questa esperienza contrappositiva, generatrice di una modalità binaria e gerarchica del pensiero e della conoscenza: uomo/donna, mente/corpo, spirito/materia, cultura/natura, pubblico/privato…(il filosofo {{Roberto Esposito }} parla di “vecchie dicotomie che hanno strutturato il sapere moderno).

Questa radice maschile della civiltà umana porta in sé {{il disconoscimento e la violenza}} come modalità di rapporto non solo con le donne e il femminile, ma con ogni alterità e secondo molte/i studiose/i apre le porte a fondamentalismo, razzismo, totalitarismo, guerra.

{{Le donne hanno solo subito? Sono state palesemente complici? Hanno reagito? }} Questa è una storia ancora quasi tutta da scrivere e tutta da tramandare; tante storiche sono da anni in prima linea per interrompere finalmente la tradizione monosessuata della storiografia ufficiale che ancora pervade le istituzioni scolastiche, i partiti, giornali.

Noi stasera ci soffermiamo a riflettere prendendo in esame solo {{l’arco temporale oggetto di questo seminario, i 150 anni dell’unità d’Italia.}}
Ripercorrere gli ultimi 150 anni assumendo come chiave di lettura il lungo impegno delle donne italiane per affermare e costruire una nuova civiltà delle relazioni, sposta l’attenzione e il discorso dall’ambito soggettivo dei diritti a quello intersoggettivo, relazionale, con implicazioni molto interessanti sul piano pratico e teorico.

Ricostruire {{l’esperienza storica delle donne }} come un faticoso cammino per la conquista dei diritti sociali e politici, per l’affermazione del valore della propria differente soggettività è senz’altro una operazione che risponde alla verità dei fatti storici, ma non dice tutta la verità e rischia, questa esperienza, di essere letta –come finora è accaduto- come “questione femminile”, dunque problema che riguarda esclusivamente un solo genere.

Al contrario le donne, non tutte, ma non poche, ponendosi come {{soggetti nella loro interezza di corpo-mente-sentimenti}}, nel rivendicare per sé autodeterminazione e libertà, hanno prodotto crepe sempre più profonde nel sistema di dominio degli uomini e li stanno costringendo a guardare la parte oscura della nostra civiltà e a fare i conti con un altro punto di vista, un altro modo di vedere non solo l’altro genere, ma anche e soprattutto sé stessi e la loro esperienza storica e personale. Li stanno portando a riflettere non solo sulla loro presunta superiorità, ma anche sul carico di violenza su cui si struttura ancora oggi la mascolinità, sulla pericolosità sociale e politica del modello maschile tradizionale, sulla miseria del potere come regolatore principale dei rapporti privati e politici: un vero e proprio lavoro per portare una inedita civiltà nei legami affettivi e sociali.

Dunque è questo il primo risultato che ci fornisce la chiave di lettura che abbiamo scelto: la vicenda dell’emancipazione prima e quella del neofemminismo dopo, da questione femminile assume i contorni netti e la compiutezza di una questione pienamente umana che riguarda perciò tutte e tutti.

Nel ripensare a questi ultimi 150 anni, mi sembra utile proporre alla vostra attenzione alcuni aspetti che ritengo particolarmente significativi.

{{Delfina Piantanide}}, madre di {{Anna Maria Mozzoni}}, parlava alla figlia di due Risorgimenti uniti tra loro: quello per la liberazione dal “dominio straniero” e l’altro per la liberazione “dal comune pregiudizio che alla donna interdice il libero pensiero”.

Ma, come scrive la storica {{Annarita Buttafuoco}}, “Lo stato italiano nacque sotto un segno politico moderato e le speranze di una nazione ispirata ai principi della democrazia, per i quali anche numerose donne avevano combattuto, si erano ben presto rivelate vane.”

Si era appena formato infatti il primo Parlamento italiano quando le donne lombarde promossero una Petizione perché non fosse esteso a tutto il Paese il Codice Albertino, ma fossero riconosciuti alle donne almeno i diritti previsti dal Codice austriaco, come la facoltà di amministrare autonomamente i propri beni. Chiedevano anche l’abolizione della tutela maritale. Queste nostre antenate avviavano così un processo, iniziato per la verità già nel secolo precedente, che porterà solo nel 1975 in Italia ad un nuovo diritto di famiglia che elimina, per legge, la figura del capo famiglia e le sue prepotenze, comprese la violenza fisica nei confronti di moglie e figli. Prima solo “l’abuso dei mezzi di correzione” poteva essere punito. Per la violenza sessuale all’interno delle mura domestiche bisognerà aspettare ancora molti anni perché possa essere considerata reato pensabile e punibile.

Questa era la famiglia patriarcale, luogo al di fuori della legge e del rispetto, dove l’affetto, l’amore, quando c’erano, erano strettamente intrecciati al possesso e allo sfruttamento da parte del padre/marito/fratello. Ancora oggi i vari tipi di famiglia portano spesso i segni di questa storia millenaria: ne sono testimonianza le 112 donne uccise in Italia nel 2008, le 119 nel 2009 e le 127 uccise nel 2010, vittime di mariti e fidanzati, conviventi e amanti che non accettano il “libero pensiero” delle donne e il loro desiderio/necessità di separarsi e andare altrove. Questo dimostra che ancora c’è da lavorare perché le leggi non bastano e occorre trovare gli strumenti giusti per cambiare alla radice la cultura e le coscienze.

Ma torno alla {{donna come soggetto di libero pensiero}}. Il libero pensiero mal sopporta di abitare un corpo che libero non è, ostaggio di leggi che lo definiscono proprietà degli uomini. E’ stata dura e lunga la strada che ha portato a considerare solo negli anni novanta la violenza sessuale un reato contro la persona: nel codice Rocco allora in vigore lo stupro era considerato reato contro la morale e l’incesto violento punibile solo se dava pubblico scandalo! (la vittima spariva e nella scena processuale veniva spesso trasformata in unica responsabile ).

L’{habeas corpus}, concetto alla base della civiltà giuridica non valeva per le donne, non vale neanche oggi secondo molti, come risulta evidente dal dibattito sull’interruzione volontaria di gravidanza.

{{Luce Irigaray}}, filosofa di formazione psicanalitica parla di “una dimensione sessuata, lasciata finora senza civiltà e senza etica” e afferma “Noi non conosciamo ancora la salvezza individuale e collettiva di cui l’amore è portatore.” Infatti l’amore all’interno di un rapporto di potere soffoca, muore. Nella nostra cultura è sentimento carico di equivoci, stretto ancora tra l’idealizzazione (il sogno d’amore) e una realtà che lo rende sovente prossimo all’odio, alla violenza e con essi confuso (si violenta e si uccide per…troppo amore).

Uno dei più grandi equivoci legati all’amore è senza dubbio presente nel legame primario madre-figlia/o. Non a caso la madre oblativa, che rinuncia alla sua vita per i figli e il marito, modello obbligatorio per millenni, è stata oggetto di riflessione e di analisi da parte di molte donne, grazie anche alla pratica dell’autocoscienza negli anni settanta e ottanta. L’esperienza del materno è terreno difficile da decifrare, disseminato di ricatti e sensi di colpa: se non sei oblativa non sei una buona madre, se non sacrifichi tutto per i figli e per il marito non ami abbastanza, sei egoista. Ancora oggi, che un maggior numero di donne lavora e non può come in passato essere a disposizione illimitata, risulta difficile sottrarsi a quel modello, almeno dentro di sé.

Ma sarebbe bene sapere cosa rappresenta e cosa nasconde questa figura potentissima del nostro mondo emotivo: in verità {{la madre oblativa è la radice più tenace del Patriarcato,}} senza di lei non esisterebbero né un padre-padrone né un figlio che si aspetta da ogni donna abnegazione e rinuncia totale di sé. Questa figura si regge su due sentimenti negativi: da un lato l’egoismo della figlia/o nel volere la madre tutta per sé, dall’altro il bisogno di potere della madre nel lasciarla/o nella dipendenza oltre il tempo della necessità. Quanto lavoro, nelle nostre vite private, in questi ultimi decenni e quanto lavoro c’è ancora da fare per dare a questo legame un altro senso: solo una madre libera, che si presenta nella sua integrità e verità, nei suoi desideri e libertà, è in grado di dare verità e libertà. Ma gli stereotipi sono duri a morire.

Nell’ultimo suo libro “{Ave Mary}” {{Michela Murgia}}, scrittrice cattolica, descrive magistralmente come la Chiesa ha utilizzato, forzando le sacre scritture, la figura di Maria per fornire un modello femminile di grande carica emotiva e coercitiva. La Chiesa ovviamente, come ricorda la stessa autrice, non ha inventato la sottomissione della donna, ha solo continuato e consolidato la precedente tradizione patriarcale.

Come accennavo prima, {{ci sono uomini, ancora pochi in verità}}, che hanno inteso la libertà femminile come una preziosa occasione di crescita personale e riconoscono il debito che hanno nei confronti delle donne del movimento di emancipazione e del neofemminismo. Penso ad Associazioni come “Maschile Plurale” o “Uomini in cammino” di Pinerolo: questi uomini ci dicono che stanno imparando il valore della tenerezza e riescono a riconoscere e accettare senza vergogna la propria fragilità come componente ineliminabile dell’esistenza, di ogni esistenza. E molti di loro stanno scoprendo la bellezza di essere realmente padri, la capacità di accudire i figli e scoprire quanto c’è da imparare in questa attività di cura, un valore e nello stesso tempo un sapere essenziale per la vita, e dunque necessario alla politica, indispensabile per governare bene una comunità.

Questo è secondo me uno degli esiti più clamorosi e inediti della libertà che le donne hanno conquistato per sé attraverso soprattutto l’autonomia dei loro movimenti politici e la produzione di nuovi saperi. Se diventerà senso comune, consapevolezza diffusa, cambierà radicalmente la struttura della società e il simbolico che la sorregge.

E’ una nuova civiltà che sta faticosamente, forse troppo lentamente affermandosi, certamente minoritaria, con molti intoppi ed ostacoli, ambiguità e ambivalenze. Ancora molto è il lavoro da fare, molte le resistenze non solo da parte maschile. Quante donne sono in grado di rinunciare a trasformare in dominio il potere di seduzione o il potere materno? Quante riescono a vincere la disistima di sé che impone loro una misoginia presente nel processo di crescita culturale che offre la nostra “civile” società attraverso la scuola, le varie confessioni religiose, i mezzi di informazione e formazione?

La vera scommessa per donne e uomini è andare al di là degli stereotipi tradizionali, {{maschere che distorcono il senso della sessuazione}} e rendono impossibile l’incontro libero tra soggetti nella verità di quello che si è, fuori da ogni gerarchia e pregiudizio. E’ la scommessa dell’alterità sessuale vissuta non come minaccia da ordinare in termini di potere e prepotenza, ma come preziosa occasione di crescita e di arricchimento, punto di partenza per un modello di comportamento di fronte a qualsiasi altra differenza in cui si articola l’umanità: etnica, religiosa, politica, culturale, fisica e di orientamento sessuale. Una scommessa da fare e da vincere insieme se vogliamo costruire un mondo meno violento, una società più giusta, una vita più felice per tutte/i.

La civiltà, come la democrazia, è in primo luogo una pratica umana, segnata perciò dall’imperfezione, è lo specchio di comportamenti e attività di soggetti in un movimento evolutivo di approssimazione sempre a rischio di arresto e di perdita (ricordiamo cosa è stato il ‘900 e i suoi orrori!).

{{
Negli ultimi anni c’è stato un peggioramento evidente}} rispetto al desiderio di cambiamento di cui molte donne sono state portatrici convinte. Penso al mondo del lavoro e alla sua organizzazione e disumanizzazione, alla politica istituzionale e alle sue logiche, all’incompiutezza della nostra democrazia, alla violenza che arriva fino al femminicidio…..Per non parlare dell’uso/abuso del corpo femminile, oggetto privilegiato e degradato di un consumismo compulsivo, veicolato dal messaggio pubblicitario e figlio di un modello di sviluppo insensato che ha travolto tutti e tutte, trasformandoci da cittadine/i in consumatrici e consumatori, troppo spesso clienti obbedienti e solleciti.

Il titolo di questo seminario vuole perciò indicare da un lato con orgoglio{{ un percorso e un processo non ancora compiuto}} e dall’altro segnalare {{la persistenza di un desiderio}}: vedere e vivere un nuovo modo di stare al mondo, una nuova civiltà nelle relazioni umane, un nuovo modello di società..