Decenni di frequentazione dei luoghi di incontro, dei gruppi e delle scritture femminili e femministe hanno finito per riempirmi la testa di parole vecchie che assumono nuovi significati. E anche, di vecchi significati che si attaccano a parole nuove. Così è cominciato a svilupparsi quel ronzio fastidioso nella testa che mi tormenta da un po’ di tempo a questa parte, e negli ultimi anni sembra esser diventato un frastuono assai molesto. Cerco di spiegarmi.

Ogni volta che infilo questo o quel termine nella conversazione, o lo ascolto pronunciato da altre, mi rendo conto che probabilmente stiamo dicendo cose diverse; forse ho perso la capacità di esprimermi correttamente. Alcune parole italiane sembrano aver subìto una deformazione impropria che le rende oscure, poiché appena vengono pronunciate da qualcuna, le altre cominciano ad agitarsi e a protestare, come di fronte a un suono stridente; il gesso che si spezza sulla lavagna e provoca un sussulto.

Può forse oggi qualcuna buttare lì con noncuranza, mentre parla o scrive: “differenza”, “genere”, “donna”, “femminismo”, “emancipazione”, “queer”, “pubblico”, “privato”, “corpo”, “sesso”, “sessualità”; ma anche: “uguaglianza”, “materno”, “parità”, “libertà”, “isteria”, “simbolico”, “maschile”, [e molte altre che vi risparmio per il momento]? Può illudersi che tutte quelle che ascoltano (o leggono) intenderanno proprio la stessa cosa (o cosa assai affine) di chi l’ha pronunciata; come se ascoltassero o leggessero: “gatto”, “caffè”, “cucchiaio”, “melanzana”? Certo che no.

E vi pare possibile che, al fine di evitare smarrimenti improvvisi, e perfino malesseri e mancamenti, prendiamo la decisione di andare in giro con una borsa piena di vocabolari e lessici aggiornati, da consultare freneticamente ogni volta che parliamo (o anche pensiamo), onde evitare di essere scambiate per ignoranti o non aggiornate, o peggio – irrimediabilmente escluse dal discorso che conta?
Anche questa non sembra una buona soluzione.

D’altra parte, si corre il rischio di sprofondare in un universo babelico che condannerà a un terribile isolamento ciascuna di noi. O anche peggio di così: forse finiremo per poter parlare solo con uomini. Ma non quelli sensibilizzati dal femminismo, i mansueti e affettuosi cuccioli con cui conviviamo e usciamo ogni tanto, bensì quelli di un tempo. Sì, proprio loro, i vecchi maschilisti inveterati, bastardi, autoritari e volgari; quelli che guardano soprattutto le tette e il culo, e velocemente il viso per controllare l’età. Che sollievo incontrarli: almeno con loro ci si intende subito; li si interpella con le vecchie parole che per fortuna non erano state dimenticate e prudentemente avevamo tenuto sempre in serbo, e ci sentiamo subito tranquille, contente di aver fatto il nostro dovere, soddisfatte per essere state capite benissimo.
_ Indietro, però, non si torna facilmente; né lo vogliamo.

Viene in mente quel meraviglioso capitolo di Rabelais in cui, nel suo viaggio per mare, Pantagruele arriva in un luogo dove le parole si sono congelate, e come perline colorate, “dopo essersi un po’ scaldate nelle nostre mani, fondevano come neve, e allora le sentivamo realmente; ma non le intendevamo, perché erano in lingua barbarica.” [cap. 56].
_ Forse dovremmo metter mano a scolpire una nuova pietra di Rosetta.