lanzaAngela Lanza parla del suo libro La storia di uno è la storia di tutti pubblicato dall’editore Iacobelli. Sono interviste e storie di vita di migranti sbarcati a Lampedusa dal 2003 fino al grande naufragio del 3 ottobre 2013  dove persero la vita oltre 400 persone. L’esperienza della psichiatra Enza Malatino ci fa conoscere racconti di egiziani, tunisini, palestinesi, tutti diversi ma di eguale disperazione e dolore

Angela Lanza

La forma di questo mio libro è una contaminazione, per metà racconto e per metà analisi perché la scelta di una forma e l’abbandono dell’altra non avrebbe retto l’emozione né il desiderio di pubblicare tempestivamente il racconto di quei fatti: tutto è stato fatto in 6 mesi e per questo devo molto alla Iacobelli per avere dato tempestivamente forma a questo mio forte desiderio.

Desiderio nato anche dalla voglia di dare voce e forma a un’altra donna riconoscendone lo spessore e il valore, la dott.ssa Enza Malatino: da lei ho avuto notizie vere su quanto è accaduto perché i fatti raccapriccianti di cui è difficile trovare parole passano sopra le nostre menti: alla tv tutti quei corpi diventano oggetti confusi, distanti, inavvicinabili. Invece l’incontro con E. Malatino, organizzato alcuni giorni dopo da amiche di “mezzo cielo”, è stato fulminante, lì sono stata sbattuta in una realtà i cui aggettivi sono superflui. E’ stato come svegliarsi e non potere rimanere a guardare. Il mio desiderio di non fare passare questi fatti sotto silenzio come tanti altri è stato immediato: una scintilla è passata da Enza a me e mi ha costretta a scrivere.E ho cominciato dopo un incontro in cui ci siamo raccontate a vicenda le nostre vite. Perché di vite umane si tratta, delle nostre che raccontiamo e delle loro di cui raccontiamo.

E quindi, scrivendo, ho preso su di me la responsabilità dei miei sentimenti e delle mie emozioni anziché confrontarmi con altri libri e competere con altri saggi. Così mi sono accorta di avere fatto esplodere un sentimento che era nascosto: l’amore per l’Africa. L’Africa mi appartiene per i ricordi di un modo di vivere mutuato da un’infanzia in una famiglia di cugini/e che era più simile a una tribù, dove si mangiava e si dormiva indifferentemente in casa di una o dell’altra zia durante i 4 mesi estivi e in parte anche dopo. Ho quindi vissuto in una situazione familiare in cui la maternità era condivisa. E, lavorando a questo libro, ho ritrovato un senso di comunità che mi appartiene e di cui riconosco anche il negativo. Mi riconoscevo con gente oppressa da una parte dell’umanità che opprime anche me come donna.

In Africa si allevano i bambini in modo da ottenerne l’identificazione con il gruppo. Per esempio si mangia tutti nello stesso piatto e si fanno molte altre cose che servano a rafforzare questo sentimento di corpo unico, o comunque di possibilità di scambio profondo con il corpo dell’altro. Nell’immigrazione, invece, si fa esperienza di un corpo diverso da quello degli altri e della rappresentazione che se n’era fatta fino a quel momento. E’ uno schoc! Si scopre un tempo misurabile e calcolabile. Si scopre l’individuazione del proprio corpo – utile al lavoro e sede delle funzioni biologiche – non si può più condividere e si soffre davanti a usi capaci di separare e dividere.

Di conseguenza l’immigrato ha ancora di più la sensazione di essere costantemente sorvegliato come si sorveglia un corpo estraneo. Ed è privo di mezzi culturali per prendere possesso di questa individuazione. Che si riassume in questo: “Quello che era possibile ieri non è più possibile oggi! prima c’era un ordine adesso niente ha senso!” Questo è valido per gli immigrati di prima generazione i quali soffrono nel vedere il cambiamento nei loro giovani che però resta sempre parziale e quindi spesso con altre sofferenze.

Dico questo perché con il racconto di Enza anche a me è successo e mi sono per es. immedesimata nella donna di Lampedusa che si è sentita svuotata quando sono partiti gli ultimi tunisini (che avevano “invaso” l’isola dopo la cosiddetta primavera) tanto da piangere alle sue parole: E adesso, lei diceva a Enza confessando di non riuscire più a dormire, mi chiedo: dove sono, cosa fanno? Perché eravamo diecimila anime su quest’isola e adesso loro sono partiti e noi siamo rimasti svuotati!” Era il mio un pianto di vicinanza a lei, il mio corpo, come il suo, ricordava quello che si sente dopo il parto quando un qualcosa vivente e vicina si stacca e va nel mondo e tu senti il grande peso dello svuotamento che porta solitudine.

E’ questo un libro di parte nel senso che è scritto da un punto di vista strettamente femminile. L’angolatura da cui guardo è quella di un recupero delle affinità e di una condanna della violenza e quindi della guerra per il semplice fatto che la forza fisica non è una cifra femminile per arrivare al potere. Invece il corpo maschile chiuso alle vicende della vita non trova spesso altro modo per risolvere i problemi che la sopraffazione e la guerra.

Nelle interviste che ho fatto a donne africane non sono stata io ad insistere sulla loro vita di bambine: è venuto spontaneo parlare della loro vita nel villaggio, del rapporto con i nonni, del desiderio di libertà (dice Isoke: “quando vivevo al villaggio mi sentivo libera perché non ero entrata ancora nel mondo del consumismo e del desiderio!”) e soprattutto del senso di comunità. Così trovando tante affinità mentre scrivevo ho sentito che bisognava recuperare le somiglianze come donne attraverso i sentimenti e gi intrecci familiari. La trasmissione dei valori sociali era arrivata per me come per loro per via maschile mentre il desiderio di libertà era stato lo stesso.

Si emigra da un luogo ma anche da una parte di se che diventa fragile. Le donne sono delle costanti emigrate da una parte di loro stesse che sono costrette a deformare o mimetizzare. Per questo la storia di Yodith è emblematica perché ha tentato in tutti i modi di non migrare dalle sue 3 nazionalità.

Quindi il mio desiderio è stato quello di avvicinare l’Africa sub-sahariana a noi e viceversa: un continente che a molti sembra più lontano della luna e invece ha una grande capacità di trattenere ancora alcuni modi di vivere da cui noi ci siamo allontanati. Il senso di comunità che viene fuori anche dall’intervista a Fathà.

Dicevo prima: il senso di comunità. Comunità forte ha dimostrato di essere anche la gente di Lampedusa che si è stretta attorno ai morti del 3 ottobre cercando di farli seppellire nell’isola mentre il governo..che faceva il governo mentre la gente andava con gli striscioni a chiedere che i corpi dei naufraghi li si lasciasse sull’isola?

I Lampedusani scrivevano: “Non accettiamo che li portate via. Questi morti sono i nostri morti” Invece i morti sono stati distribuiti in vari cimiteri della Sicilia quasi di nascosto e i parenti dovevano cercarli. Come dice anche Fathà, superstite del terribile naufragio del 2003: “Avrebbero dovuto onorare quella tragedia e fare un cimitero per tutti a Lampedusa, invece non c’è stata volontà politica di lasciare memoria!”

Ed è proprio su questo sradicamento della memoria che si possono impiantare comportamenti e leggi colonialiste. Così da Lampedusa li hanno trasferiti a Porto Empedocle, lì li hanno smistati, non davano informazioni obbligando la gente esausta a peregrinazioni infinite.

Ma come poteva un governo che per lo sbarco dei tunisini due anni prima aveva lasciato più di 7000 persone allo sbaraglio per creare il “caso Lampedusa”, rispondere con senso etico al naufragio del 3 ottobre?

In Sicilia ci sono molti amici/e e compagni/e che si battono per una vita politica e sociale diversa. Deve restare memoria di quanto fanno per il bene comune. E’ stato lo stesso desiderio che mi ha fatto scrivere “Ho fame di giustizia” la lotta delle donne del digiuno dopo la morte di Borsellino e “Sono stata Orsa a Brauron” sulle lotte delle donne contadine per le occupazioni dei feudi dopo la seconda guerra mondiale, che costrinse in massa i contadini al grande esodo del secolo scorso.

 Divulgare La Carte di Lampedusa che non è una proposta di legge ma un wok in progress da cui partire per una civile convivenza fra i popoli.

La nuova geografia politica che si vuole disegnare è basata su percorsi di esclusione della mobilità. Mentre la Carta è contro il nuovo schiavismo funzionale alle politiche economiche che tocca anche i nostri figli e nipoti. Parla di un diritto dal basso e, mettendo al primo posto le persone contro la nuova colonizzazione, disegna un’altra ipotesi di Europa.

Deve però ancora accogliere al suo interno uno sguardo di genere che è soltanto accennato. Manca per esempio un discorso sulla tratta: il corpo della donna non irrompe sulla scena politica così come dovrebbe essere e quindi la Carta rispecchia i rapporti di forza che ci sono nella nostra società a tutti i livelli. Non ha un ripensamento vero. Una società che legifera sul corpo delle donne in assenza delle donne stesse lo fa perché la presenza delle donne stravolgerebbe tutti i canoni adottati fino ad ora. Fa però molta impressione che di questo non siano consapevoli molti uomini della sinistra e democratici.

Che cos’è il raccontare per una comunità? La comunità “Italia” per es. tace del tutto sul nostro massiccio esodo dalle campagne dopo la sconfitta dei contadini negli anni ’50, e anche sul nostro passato di nazione che ha fatto guerre di conquista in Africa. Se ne parla? Non fa parte della nostra storia comune di conseguenza tutto quello che riguarda questi fatti non esiste.Lo stesso è per il singolo: se tu togli a una persona il tessuto della sua storia la persona non è più niente!

Per questo insisto sull’importanza del raccontare la propria storia. E quindi da questo riprendere l’importanza della comunità che si basa su un intreccio di storie.

Isoke per esempio dice: “Il rapporto con la scrittura è stato attraverso mio nonno, lui curava con le erbe e raccontava storie e io ho continuato scrivendo la mia e quella delle ragazze costrette in Italia alla prostituzione!”.

Le donne che hanno dovuto affrontare questi viaggi rischiosi sono battagliere ma la nostalgia di un loro essere donne che ricordano anche “altro” è sempre presente.

Il racconto di sé – soprattutto dei superstiti dopo l’esperienza di questi viaggi – è un’esperienza di nascita rinnovata per potere dire “ci sono ancora” e gli altri che ascoltano si trasformano e da specchi opachi man mano si schiariscono e rivivono il loro vissuto doloroso nelle parole dell’altro.

Quando per un fatto raccapricciante avvenuto durante un naufragio, a un testimone è stato proibito di parlare da alcuni dei suoi compagni, è successo che solo quando ne ha potuto parlare ad Enza si è sbloccata la sua tensione. Per non rischiare di morire di nuovo alla fine ha dovuto parlare e raccontare tutto quello a cui aveva assistito.

 Ma se il parlare ha questa risonanza catartica, tacere invece implica una serie di conseguenze devastanti.

Tacciono la loro sofferenza quelli che arrivano da noi verso quelli che sono rimasti, continuando ad alimentare una speranza di accoglienza che gli sarà negata. Ma fuggono da situazioni disperate oppure sono giovani e vogliono condividere il sogno dei dominatori – perché la nostra nei loro confronti è anche una colonizzazione di anime che si alimenta di illusione.

Solo quando arrivano molti di loro capiranno cosa significa la condizione di “vivente morto”.

Così l’Europa si rafforza dall’indebolimento dell’Africa mentre l’Africa come dicono Isoke e Yodith potrebbe farcela da sola “Se le famiglie non ce la fanno più- dice Isoke- che manifestino e scendano in piazza contro il governo! Non possono pensare di risolvere i loro problemi mandano le figlie in Italia a fare le prostitute!”.E invece conviene a troppi che l’Africa resti in questa situazione di perenne malato, bisognoso di assistenza ed è così che il nuovo colonialismo impera e costringe l’immigrato a restare pietrificato nel momento dell’arrivo e per fare questo i governi devono costruire un pensiero di stato che si impernia sulla costruzione dell’Altro come nemico reale o potenziale e la prima discriminazione avviene attraverso il linguaggio; quindi gli immigrati diventano clandestini, extracomunitari, minacciosi e potenzialmente criminali. Lo stato ha bisogno di fissarli in una identità interiorizzante.

Spesso quando scrivo un libro cerco un punto di vista terzo da cui potere avere un’altra angolatura. Mi è capitato per “Orsa a Brauron” e anche adesso per Lampedusa. E’ attraverso gli scritti di Weil che ho incontrato il vivente morto. “Gli uomini di potere – dice Weil nel bellissimo “Venezia salva” – costringono gli altri a sognare i loro sogni e le armi rendono il sogno più forte della realtà, dallo stupore e la paura che ne nascono nasce la sottomissione. Il vinto vive il sogno del vincitore e la libertà, la possibilità di scegliere gli sembrerà l’unica cosa irreale. Così vengono distrutte le comunità, quell’ambiente umano di cui non siamo consapevoli come non lo siamo dell’aria che respiriamo”

Per Weil la città è intesa come comunità dove spazio, tempo, memoria si intrecciano costruite da generazioni e generazioni che riflettono passioni e sentimenti: questa è la sua bellezza e la sua etica e Weil ricorda la ferita dei Greci cantata dall’Iliade:

“C’è un peccato originale dalla cui coscienza non rimossa sarebbe sorto nei greci il sentimento della miseria umana e questo peccato originale è la distruzione di Troia”

Dove la forza condiziona il nostro modo di essere nella realtà non c’è posto né per la giustizia né per la bellezza!

Ma oggi il vincitore mentre distrugge la comunità del vinto perde a poco a poco il senso della sua stessa comunità perché si fa condurre dalla forza e dalle politiche economiche. Così gli immigrati sono i vinti di una guerra che non cessa mai. Hanno perduto o stanno per perdere il senso di comunità e non possono essere inseriti in un’altra – la nostra – che sta perdendo il suo stesso senso. Essendo, la nostra pseudo -comunità, già attrice di una terza guerra mondiale agita in luoghi lontani che adesso si stanno rivelando anche essere molto vicini, fa fatica a trovare un senso nuovo.