La mia riflessione parte dal grave quesito che ci pone il tempo presente: se la nostra vita debba essere governata dalle pretese della globalizzazione economica, oppure se sia possibile contrastare tali pretese e in qual modo. Un minimo senso di giustizia suggerisce di contrastarle poiché si pongono all’origine dei peggiori guasti per l’umanità.Rosa Luxemburg immaginava un capitalismo che moriva per mancanza di cibo, avendo divorato l’ultimo prato di casa altrui, sul quale pascolava (esito finale di una politica di rapina).
_ Oggi {{la conquista di avamposti da parte del mercato capitalistico produce rifiuti umani non smaltibili}}, che si tenta di arginare usando come clava la giustizia penale discriminatoria (reato di clandestinità) quando non la pena di morte attraverso i “respingimenti”, diffondendo sul territorio politiche securitarie e coltivando l’ideologia del successo individuale a scapito del collettivo.

{{Questa ideologia prende di mira la solidarietà}}, nega il principio di una comune responsabilità per il benessere sociale, {{crea un mondo di consumatori }} che conducono una vita giocata sulla ricerca individuale del massimo di soddisfazione e successo personale perseguito attraverso una concorrenza spietata fra individui.

Negli ultimi venti anni {{si è costantemente scivolati da un modello di società inclusiva basata sullo Stato sociale a uno Stato giudiziario }} basato sul controllo penale e sull’esclusione di fasce sempre più ampie di popolazione anche nei paesi del cosiddetto primo mondo.

E’ l’esito della “modernizzazione” che favorisce la flessibilità in entrata e in uscita dal posto di lavoro a scapito delle garanzie di stabilità. Una flessibilità che si è tradotta in forte crescita della precarietà ovunque in Europa ma particolarmente in Italia, anche per la mancanza di un sistema di protezione adeguato e generalizzato contro la disoccupazione.

La situazione femminile risente di una penalizzazione superiore sia in termini di accesso e permanenza al lavoro sia in termini retributivi.
La flessibilità richiesta dagli assetti produttivi ha come conseguenza che non sia il lavoro ad alimentare le vite degli individui, ma che siano le vite stesse a essere messe al lavoro.

Lavoro e vita si intrecciano, la vita entra nel lavoro che impone le sue logiche costrittive dalle quali potremo tentare di liberarci solo attraverso un esercizio costante di pensiero critico. E il pensiero critico, per essere tale, esige che si metta al centro la seguente constatazione di verità: {{la forte egemonia dell’economico produce un patto sociale al ribasso attraverso il dato circolare welfare-famiglia}} che {{per le donne implica un minus di libertà e autodeterminazione}}.

Quindi, la fedeltà femminile a canoni prefissati, cui accennava Imma Barbarossa nella sua introduzione, deve essere, secondo me, rovesciata attraverso un opportuno esercizio d’infedeltà.
_ Se l’adesione femminile ai ruoli prefissati funge, come appare certo, da stampella del sistema capitalistico patriarcale, è necessario e urgente liberarsene per uscire dalla narrazione maschile della realtà, fino ad oggi dominante.

Il “se” e il “come” di questa impresa ha costituito materia di riflessione e di confronto per un gruppo di femministe, riunite presso la Libera Università delle Donne di Milano e sono in parte illustrati nel libro “{{ {L’Emancipazione malata} }}”.

E’ una {{scrittura di esperienza che deriva dalle nostre storie personali, da conto delle nostre scelte}}, della conseguente approvazione o riprovazione sociale, della responsabilità individuale che ha condotto alcune verso la cura come identità, per il sentimento di essere necessarie alla vita altrui, altre a non conformarsi alle aspettative e a rompere con questo modello.

{{Il tema inizialmente affrontato era quello della femminilizzazione della sfera pubblica}}, resistente alla necessaria modificazione radicale, ma presto lo sguardo si è focalizzato sul lavoro (produttivo e riproduttivo) che cambia.
_ Abbiamo riportato alla luce storie giocate in tempi diversi –anche passati- che però riverberano effetti sul presente cui sono connesse da fili indissolubili in una continuità evolutiva, da interrogare in profondità.

I compiti della memoria e dell’analisi si presentano a noi come strumenti di una pratica politica per la modificazione dell’esistente.
_ Nell’esperienza transnazionale dei movimenti femministi si chiarisce, ad esempio, come in molti Paesi l’erogazione costante di ammortizzatori materiali e psicologici da parte delle donne, qualsiasi sia la nobile motivazione, finisca per fornire sostegno agli assetti di potere esistenti, consentendo anche alle istituzioni internazionali cospicui risparmi negli investimenti per welfare.

{{Se la donna puntella il patriarcato famigliare e di gruppo sociale}}, se il patriarcato offre supporti –anche involontari- al capitalismo, vi è da chiedersi quali possano essere le strategie di uscita dall’ingiustizia sociale del mercato globale.

Anche in Italia l’esperienza femminile della sfera pubblica e del mondo del lavoro è gravemente segnata dall’ingiustizia, implicita nel prevalere dell’”economia canaglia” sostenuta dal patriarcato. La priorità maschile nell’appropriazione delle risorse ha creato un’alleanza di fatto con le scelte imprenditoriali di precarizzazione della mano d’opera femminile, in seguito estesa a tutta la forza lavoro.

Le iniziative per il cambiamento messe in campo da alcune donne pensose dei livelli di democrazia partecipata, sono state contrastate dagli apparati maschili della rappresentanza, ma sono state anche troppo debolmente perseguite dalle interessate, poco sostenute dal movimento femminista nel suo complesso.
_ Pareva si trattasse d’altro e di altri, ma si trattava della sorte di tutte/i, come nell’apologo brechtiano sugli zingari.

Per la verità, vi è stato qualche tentativo di rafforzare la rappresentanza attraverso l’auto rappresentazione delle lavoratrici, si è percorsa anche la via della proposta di legge (detta dell’{agente contrattuale femminile)}, ma, di fronte agli ostacoli frapposti, non vi è stata assunzione decisa di conflittualità volta a ottenere il riconoscimento dei principi essenziali di autonomia, neppure nei confronti delle organizzazioni sindacali di appartenenza.

Era stato elaborato un complesso di regole che, in prima battuta, potevano apparire lesive degli interessi consolidati di apparati e vertici delle organizzazioni esistenti perché ne fratturavano situazioni oligopoliste in favore di una partecipazione di base, segnata dal genere.
_ In realtà, a mio parere, tale partecipazione li avrebbe probabilmente risanati e salvati da se stessi.

Nel 1998 era in discussione in Commissione alla Camera dei Deputati il testo unificato di una legge sulla rappresentanza e la democrazia nei luoghi di lavoro che avrebbe dovuto sostituire, ampliandolo, un precedente accordo interconfederale sulle rappresentanze sindacali unitarie (RSU).
_ Si era costituito un Comitato a sostegno dell’approvazione della legge cui partecipava anche un’associazione milanese composta di lavoratrici, sindacaliste, giuriste (Osservatorio sul Lavoro delle Donne) che aveva elaborato emendamenti al testo e anche una propria proposta, presentata pubblicamente prima alla Camera del Lavoro di Milano, poi alla CGIL nazionale nel dicembre 1998.

Come dicevamo nel presentarla, la nostra proposta intendeva rendere punto di forza ciò che da sempre risultava marginale:{{ l’obiettivo era di porre al centro la condizione di vita di lavoratrici e lavoratori}}, donne e uomini in carne e ossa, {{per radicare i conflitti e la contrattazione nella loro differente esperienza di vita}}.

Nelle lotte sindacali avevamo potuto constatare che spesso molte donne ricercavano una modalità relazionale e pendolare della rappresentanza (dalla rappresentante alla rappresentata, dal luogo del conflitto al luogo della mediazione) e ne erano, però, impedite dal sistema maschile di assunzione a-dialettica della potestà rappresentativa e, infatti, raramente si verificava in corso d’opera un percorso che autorizzasse, dopo un opportuno confronto nel merito, che il rappresentante assumesse determinati contenuti (e non altri) nel concludere accordi.

Quindi, {{in luogo di una generica clausola antidiscriminatoria, avevamo articolato due ipotesi}}: la {{creazione di una lista autonoma di candidate}}, presentate da una percentuale significativa di addette/i all’unità produttiva, oppure, in caso di lista unica, {{una composizione bisessuata per cui le candidate e i candidati fossero proiezione percentuale della presenza di donne e uomini nella base elettorale}}.

Questa ipotesi non prevedeva quote riservate, ma, al contrario, era intesa ad attribuire eguale possibilità di partecipazione ai due generi, eliminando note situazioni di monopolio per cui su una base elettorale costituita in maggioranza da lavoratrici venivano formate liste che prevedevano una forte prevalenza di candidati, con il risultato di una totalità (o quasi) di eletti maschi.

{{La nostra proposta era intesa a valorizzare la responsabilità sociale e politica di soggetti differenti}}, capaci di ampliare i punti di vista, articolando progetti frutto di esperienze esistenziali differenziate.
_ L’ipotesi non ha avuto corso non solo a causa delle resistenze opposte dal monolitico mondo maschile, ma anche perché {{è mancato da parte femminile un conflitto aperto ed efficace}}, volto a conseguire il diritto a rappresentare direttamente, al di fuori della mediazione altrui imposta come necessaria, i propri bisogni e desideri.
Troppe donne hanno ceduto alla cooptazione in dosi omeopatiche, troppe altre hanno semplicemente ceduto.

Nessuna donna dei Consigli di fabbrica (o azienda) o dei Coordinamenti femminili sindacali, neppure nell’avanzata esperienza unitaria della Federazione Metalmeccanica, ha saputo contestare ai dirigenti uomini la loro pretesa di essere considerati i titolari di una rappresentanza generale inautentica poiché, nella materialità dell’esperienza, non è dato vedere un soggetto generale messo al lavoro, mentre si vedono, invece, donne e uomini messi al lavoro con esiti lavorativi ed esistenziali assai differenziati.

Questo si potrebbe definire il misfatto della divisione sessuale del lavoro: {{utilizzare le donne come lavoratrici ultraflessibili, come riserva di mano d’opera precaria}}, utile per rompere la compattezza della classe e {{conseguire poi lo scopo di rendere tutti ultraflessili e precari}}.

Realtà cui fa da sfondo la frantumazione dovuta al lavoro di cura e relazionale che le donne svolgono, come si è detto, in funzione di ammortizzatori, sospinte da logiche patriarcali introiettate come desideri irresistibili riconosciuti e gratificati da un’approvazione sociale, per così dire, bipartisan.

{{
E’ pensabile rivendicare la cura come valore culturale valido per tutti, un valore sociale e non privato, secondo il suggerimento di alcune? }}

Soprattutto, ha senso nella società attuale che esige cambiamenti radicali o non esita piuttosto in un accontentarsi, donne e uomini delle classi subalterne, del classico piatto di lenticchie in luogo della primogenitura?

Interrogativi che dovrebbero impegnare la riflessione degli spiriti critici dei due sessi perché è decisamente un piatto di lenticchie quello che la maggioranza degli esseri umani riceve oggi, se lo riceve.
_ Come ho già detto, secondo me solo un più radicale esercizio d’infedeltà ai valori dominanti potrebbe salvarci.

Assistiamo, infatti, al {{diffondersi della tendenziale gratuità del lavoro}}: stage in aziende, prestazioni giornalistiche, per la moda, nelle Università, poco o nulla retribuite.
_ Contemporaneamente, tutti i lavoratori subiscono l’appropriazione complessiva del loro corpo nel corpo d’impresa, {{la bioeconomia vive e si sviluppa confiscando quasi ogni loro tempo di vita}}.

A questo punto mi sembra chiara la necessità di scuotere la cornice obbligante dell’esistente, di contrastarla collettivamente, di porre riparo al danno sociale che consegue alla dispersione nell’individualismo, di dare risposte adeguate ai gravi problemi di giustizia sociale e di tenuta democratica.
_ E’, appunto, gran tempo di mettere a tema quali vie di uscita possiamo sperimentare.

Questa la mia ipotesi preferita: {{che si possa ripartire con un’analisi e una pratica politica che mettono al centro i soggetti reali}}, i bisogni e i desideri diversamente incarnati in donne e uomini, {{evitando di incapsulare ogni potenzialità nel soggetto unico maschile}}, in tal modo creando situazioni facilmente preda, per motivi strutturali, degli eccessi del potere e delle prevaricazioni di soggetti sovra ordinati.

Una misura per potenziare i conflitti valorizzando i soggetti, una {{pratica di democrazia che inizia con l’eliminazione della divisione sessista dei lavori fra donne e uomini}}, che elimina la illibertà materiale ed emotiva delle donne nel privato, così ridefinendo anche la sfera pubblica, rimuovendo ingiustificati e svalorizzanti monopoli maschili.

{{Ciò pone in termini inediti il problema del welfare}}, consente una battaglia per la redistribuzione che non sia parziale –delle sole donne- ma che coinvolga anche le donne a partire dalla loro precisa esperienza esistenziale.

{{Si devono trovare nuove forme redistributive}}, chiamate in causa dal farsi rendita del profitto, forme di sostegno all’intermittenza del lavoro: il bioreddito, moneta con cui vengono remunerate qualità viventi immesse nella produzione di beni e servizi.

{{Uno strumento che non è pensato come assistenziale}}, ma come potenziale detonatore di conflitti che oggi risultano sopiti dalla necessità di spendersi solo e completamente in attività lavorative qualsiasi, purché procurino un redito di sopravivenza.

L’articolazione degli obiettivi e l’alleanza fra soggetti diversi che li condividono e li perseguono potrà forse sanare la scissione prodotta dal capitalismo oggi trionfante fra condizioni materiali e coscienza.
_ Diceva Albert Luthuli, cofondatore e dirigente dell’African National Congress: “quando le donne cominciano a partecipare attivamente alla lotta, nessun potere al mondo può impedire di conquistare la libertà prima della morte” (pensiero riferito da Nelson Mandela in “Lungo cammino verso la libertà).

– La scuola di Politica del Forum delle donne del Prc si è svolta a Palinuro nei giorni 3/5 settembre 2010 edè stata dedicata al tema “[Soggetti S/confinati – Per una critica dei confini identitari->http://www.rifondazione.it/forumdonne/?p=800]”