Premesso che “il femminismo non è semplicemente un movimento del secolo scorso, ma un contenuto politico e relazionale ancora da svolgere”, questo piccolo libro di quarantacinque pagine si offre come “uno strumento di conoscenza leggero, facile da usare, breve da leggere, in grado di dare un po’ di informazione a chi, come le giovani donne che non hanno avuto madri o zie femministe, ne senta il bisogno”. Bene, l’intento è ottimo, ma facciamo attenzione all’avvertenza preliminare dell’autrice: dice che il percorso narrato  appartiene alla sua personale esperienza, e necessariamente non può essere neutrale. Si può osservare che il problema, qui, non è contrapporre la ricostruzione  in chiave soggettiva  a un impossibile criterio di neutralità. Piuttosto, bisognerebbe chiedersi se ciò che viene riportato  è convincente in quanto  storia condivisa. Soprattutto per il femminismo degli anni Settanta, la Società italiana delle storiche ha individuato fragilità che ne fanno una storia ancora da scrivere, nonostante le molte ricerche già fatte. E anche Anna Rossi Doria nel suo Dare forma al silenzio (Viella, 2007)  ha posto domande a cui dovrebbe rispondere “quella storia del femminismo che ancora ci manca ”.

Forse tra i motivi di fondo di questa mancanza di una storia veramente condivisa c’è  il rapporto non risolto tra femminismo e politica,  che ci portiamo dietro da quando la critica della politica portata avanti dal femminismo in quegli anni è  entrata in crisi.  Quello degli anni Settanta è stato, secondo Rossi Doria,  un fenomeno di massa, non solo sociale e culturale, ma anche e soprattutto politico, tanto da far pensare addirittura a una “rarissima stagione di felicità pubblica”. Nuovi rapporti tra donne  trasformavano la coscienza e la vita, a migliaia si lottava per un cambiamento generale della società. Poi, al crescere delle conflittualità tra gruppi, e in un contesto sempre più nemico (movimenti del ’77, terrorismo, riflusso nel privato), ha preso piede la rappresentazione del femminismo come un percorso teorico di piccoli gruppi o di singole pensatrici, sia pure grandi. Il libro di Lia Migale riflette questa tendenza, che si è sviluppata negli anni scartando parti vitali della nostra storia, radicate proprio negli anni Settanta.

In definitiva, si sono operate censure su una serie di esperienza difficili da ripensare, forse anche per la profondità dei nodi che parte del movimento aveva toccato . Trovo che questo sia evidente nel libro di Lia Migale, soprattutto nel  capitolo su “Aborto libero gratuito e assistito”, completato da una scheda tutta centrata sull’iniziativa del Partito Radicale per la regolamentazione dell’aborto. E’ certo che  l’arresto nel 1975 del segretario del PR Spadaccia, della segretaria del CISA (Centro informazione su sterilizzazione e aborto) Adele Faccio e della militante radicale Emma Bonino, furono uno  scossone determinante per la scena politica e per i mezzi di comunicazione. Ma non fu soltanto questo a mobilitare le migliaia di donne scese in piazza per le manifestazioni del 1975 e del 1976. Come ha ricordato Beatrice Pisa, il Partito Radicale interpretava solo in piccola parte le istanze del variegato movimento delle donne (Donne negli anni Settanta. Voci, esperienze, lotte, a cura di Beatrice Pisa e Stefania Boscato,  Franco Angeli 2012). Il MLD esprimeva un femminismo laico e libertario, cresciuto con l’occupazione di Via del Governo Vecchio  di cui era stato protagonista  (2 ottobre 1976). E fu un gruppo  MLD ad aprire

al Governo Vecchio un consultorio di self help. La battaglia sull’aborto era vissuta come esigenza di totale autodeterminazione delle donne; esperienze condivise con tante altre portano “non solo a un bisogno di spazi autonomi dal partito, ma anche dal CISA, la cui pratica abortiva viene giudicata non sufficientemente attenta al momento di presa di coscienza di ogni donna rispetto al proprio corpo e alla propria sessualità” (Pisa e Boscato, p. 21). L’autovisita, l’aborto organizzato clandestinamente in case private erano esperienze nuove e dirompenti, con un significato politico enorme: “L’incontro con il corpo e l’utero femminile, nel consultorio self help e nella pratica dell’aborto, fu l’incontro con il nostro corpo: non più scisse fra ruolo politico e vissuto personale “ (L. Ingargiola, M. Cucchi citate da Pisa e Boscato, p.32).

L’espansione del movimento per la salute delle donne e la pratica del self help, diversa da città a città, aveva origine nella volontà di liberare la gestione della salute e del proprio corpo da un potere medico oppressivo, dominio del maschile più becero. Nascevano per questo i consultori autogestiti. “I gruppi di self help segnarono… un momento molto importante che attraversò la parte più consapevole del Movimento per la salute; ci rese molto più forti di prima e rese parimenti possibile l’incontro, poi, su una giusta lunghezza d’onda, con le donne che venivano al consultorio. Fu una pratica condivisa che rappresentò  una sorta di viaggio iniziatico ai ‘recessi oscuri’ dei nostri corpi, una ‘discesa agli inferi’  guidata  solo dalla fiducia che riponevamo l’una nell’altra…” (Luciana Percovich, La coscienza nel corpo, Franco Angeli 2005, pp. 55-56). La presa di coscienza ancorata al corpo diventava “arma politica nel processo di liberazione femminile”: come nella storia del Gruppo femminista per la salute della donna di Roma, e nei collettivi di quartiere  Magliana e Appio Tuscolano (Paola Stelliferi, Il  femminismo a Roma negli Settanta. Percorsi, esperienze e memorie dei collettivi di quartiere”, Bononia University Press, 2015). Le implicazioni politiche di queste esperienze sono state descritte anche da Maud Anne Bracke, in Women and the Reinvention of the Political.Feminism in Italy, 1968-1988, Routledge 2014)

In parallelo alle attività di alcuni consultori, nacquero dei nuclei clandestini che praticavano l’aborto nell’ambito del movimento. Il nucleo del collettivo di San Lorenzo, che si era formato intorno a Simonetta Tosi, si collegò ad altri dei quartieri romani di Magliana, Appio Tuscolano, Primavalle.  Con il varo dei consultori pubblici e l’approvazione della legge 194, sembrò aprirsi la possibilità di trasferire dentro le strutture pubbliche le esperienze dei gruppi per la medicina delle donne: la pratica del fare diventava spinta a negoziare con la politica (Fiamma Lussana, Il movimento femminista in Italia. Esperienze, storie, memorie, Carocci 2012,  p.181 ss). C’è chi ricorda oggi il clima di allora: “Si delinea quindi un cammino di liberazione e di scoperta di sé percorso insieme alle altre, contando su un’energia che si alimentava dello spirito collettivo e della fiducia nella relazione paritaria , reciproca e sincera con le altre” (Paola Stelliferi, Il femminismo a Roma.., capitolo III, “Alcuni percorsi della/e  memoria/e”, p.183). In seguito gli spazi autogestiti avrebbero  dovuto fare i conti con realtà difficili, entrando in crisi, ma in quel periodo nei  centri per la salute della donna si è sperimentato qualcosa di veramente nuovo: “Rimane la ricchezza straordinaria di una pratica che ha aperto un orizzonte nuovo a migliaia di donne, che le ha finalmente messe in contatto con se stesse, col proprio corpo,  con la propria sessualità, che ha lenito la sofferenza dell’aborto e rimosso in molti casi le sue cause” (Clara Jourdan (Insieme contro. Esperienze di consultori femministi, La Salamandra 1976).

Simonetta Tosi si è spesa senza risparmio nella relazione con le altre e nel rapporto con le istituzioni: Il consultorio era il luogo della pratica, dell’apprendimento, della condivisione di informazioni ricavate dalla lettura critica dei dati scientifici e dei protocolli medici. Ed era questo che dava forza a  lei e alle sue compagne nell’agire per il cambiamento dentro le istituzioni. In un confronto con Luciana Viviani, durante un dibattito sui consultori  organizzato alla Sapienza nel 1977,  Simonetta  sostenne proprio questo dicendo:

“…Il consultorio deve essere delle donne e solo per le donne e questo significa un rapporto completamente diverso da quello che le leggi prevedono, per esempio, che il medico sia scelto dalle donne che stanno nel consultorio… Nei consultori gestiti dalle femministe, da noi,  insieme alle donne, si è richiesta, quasi imposta, un tipo di visita ginecologica completamente diversa da quella tradizionale… Pretendiamo che il medico spieghi esattamente ciò che fa durante la visita; facciamo anche la visita collettiva. Questo consiste nel mettersi come soggetti tra altri soggetti donne…..Questa riumanizzazione della medicina che si è completamente persa…non è prevista in nessuna proposta di legge”(F. Lussana, Il movimento femminista in Italia…p.190).

Autodeterminazione anche all’interno delle istituzioni, controllo dal basso…Simonetta ha proseguito l’impegno con le compagne, fino alla sua morte nel 1984. La rete di relazioni tra donne che era riuscita a costruire poteva essere considerata un modello anche per il futuro.  Ma gli spazi conquistati dal movimento con tanto entusiasmo mostravano punti deboli, già presenti nel corso dell’attuazione delle leggi. Anche perché alla fine degli anni Settanta la lotta collettiva stava venendo meno, e con essa il protagonismo politico delle donne organizzate. Da allora, c’è stata una carenza di parole su questa fase. Scrive Paola Stelliferi: “Ritengo…che sia un carico di sofferenze ancora vive e attuali a imbrigliare la parola su un periodo in cui, non di rado, si consumarono dolorose rotture anche all’interno dei collettivi femministi” (Il femminismo a Roma, p. 197). La stagione successiva del femminismo ha preso la strada della separazione tra pratiche  e iniziative culturali, con il corpo sempre più alla ribalta ma, per dirla con Barbara Duden, è  corpo come luogo pubblico. Non è casuale che ci sia oggi, tra le più giovani, chi cerca le tracce di quella lontana presa di coscienza che partiva dal corpo. (Aprile 2017)