Nazzarena Ferraro racconta la propria esperienza. Dopo la laurea in Scienze Politiche ad indirizzo Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Diritto Internazionale presso l’Università La Sapienza di Roma: corsi di specializzazione in materia di diritti umani, giustizia penale internazionale e cooperazione internazionale; volontariato e collaborazioni gratuite per alcune organizzazioni non governative in Italia, Turchia e Sahara occidentale. Ora il lavoro in ONUCI (Opération des Nations Unies en Côte d’Ivoire)

{{Dall’Italia all’estero in un ruolo impegnativo: come nasce l’interesse per le questioni inerenti il diritto internazionale?}}

Ho sempre seguito con particolare interesse le varie tipologie di intervento e di « partecipazione » della comunità internazionale ai processi di sviluppo sia economico che istituzionale e democratico dei Paesi in crisi o in guerra. Per tali ragioni i miei interessi si sono orientati verso le problematiche dei «failed states» delle «amministrazioni internazionali di territori» e verso i Tribunali Speciali Internazionali aventi il mandato di giudicare le persone riconosciute responsabili di gravi violazioni dei diritti umani.

{{Paesi da scoprire e differenti culture da affrontare: le difficoltà sono tante.}}

Le esperienze di lavoro con organizzazioni non governative e con organizzazioni internazionali richiedono molto impegno, pazienza e forza di volontà necessarie per vivere in Paesi in via di sviluppo e in stato costante di “crisi” sia da un punto di vista economico che da un punto di vista politico e istituzionale. Un’altra difficoltà è rappresentata dalla « mobilità » che caratterizza il lavoro nelle organizzazioni internazionali, quindi il fatto stesso di spostarsi spesso da una realtà all’altra. Le maggiori difficoltà pratiche sono, invece, legate sia al clima molto freddo o molto caldo sia alla necessità di abituarsi a lavorare e comunicare essenzialmente tramite una lingua veicolare, l’inglese o il francese, che spesso non rappresentano né la propria lingua materna né la lingua materna della popolazione.

{{Quanto si resta coinvolti dalla realtà “altra”?}}

Nel mio lavoro di inchiesta sulle violazioni dei diritti umani è molto importante sapere osservare e ascoltare gli altri ed essere pronti a recarsi anche in luoghi difficili come le prigioni, gli ospedali e le località isolate e remote dove spesso si verificano degli abusi dei diritti degli individui e dei gruppi, commessi da entità governative, autorità parallele di fatto, movimenti di ribellione. È altrettanto importante, però, non lasciarsi coinvolgere personalmente dalle problematiche che caratterizzano la condizione delle categorie vulnerabili a favore delle quali si opera e non lasciare che la realtà in cui si opera prenda il sopravvento. Bisogna, in definitiva, cercare di mantenere una visione per quanto più possibile distaccata e professionale di ogni problema e condizione umana o societaria. Il rischio, per molti funzionari e operatori umanitari, è di sviluppare la cosiddetta “sindrome del prigioniero”, ovvero solidarizzare eccessivamente, perdendo di vista la propria obiettività e la propria missione.

{{In cosa consiste il Suo lavoro, quali i tempi e gli impegni della giornata-tipo?}}

Attualmente lavoro in seno ad un progetto di valutazione del sistema giudiziario e delle opzioni di giustizia transizionale. La giornata di lavoro è molto lunga poiché si tratta di incontrare gli attori del sistema giudiziario locale e i vari interlocutori delle organizzazioni internazionali e delle organizzazioni non governative impegnate nel settore della cooperazione tecnica per la riforma del settore della giustizia e il rafforzamento della capacita nazionali in materia di protezione dei diritti dell’uomo nell’amministrazione della giustizia. In generale, quando si lavora nel campo dei diritti umani, soprattutto nelle « operazioni sul campo » la disponibilità deve essere quasi di sette giorni su sette proprio per poter intervenire rapidamente attraverso la cosiddetta « diplomazia dei diritti dell’uomo » in situazioni che presentano delle minacce reali o potenziali per la vita, la sicurezza e l’integrità fisica di un individuo o di un gruppo vulnerabile nell’ambito della popolazione assistita.

{{In quali Paesi ha lavorato finora e quale di tali realtà ha inciso più profondamente sulla Sua forma mentis?}}

Nei Balcani ho lavorato in Kosovo, Serbia ed ex-repubblica yugoslava di Macedonia (FYROM); in Africa ho lavorato in Costa d’Avorio, Tanzania, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo. Le varie realtà del continente africano hanno sicuramente inciso sulla mia visione del mondo e sulla mia comprensione dell’umanità in generale. Molte delle questioni che nella cultura e nella società occidentali rivestono un’importanza fondamentale, sono banalizzate e vissute con estrema semplicità in Paesi poveri caratterizzati da crisi militari e umanitarie che durano da anni e qualche volta decenni. In alcune realtà africane che ho avuto modo di conoscere, ogni avvenimento, anche quello più drammatico finisce per essere accettato e interiorizzato all’interno della società. Tale atteggiamento non significa necessariamente indifferenza o rassegnazione, ma può anche essere visto come espressione della capacità di vivere giorno per giorno, dell’istinto di sopravvivenza o della gioia di vivere.

{{Tante ragazze provano, sempre più prepotente, il bisogno di misurarsi con esperienze
di servizio civile in aree disagiate del globo. Quali consigli offrirebbe
loro?}}

Il consiglio è semplicemente di misurarsi con tali esperienze seguendo le proprie inclinazioni e convinzioni. Ho incontrato molti giovani che hanno intrapreso periodi più o meno lunghi di volontariato nel settore dell’assistenza medica o sanitaria o nel settore umanitario, per esempio alle vittime dei conflitti, rifugiati e popolazioni profughe. Tali esperienze non devono necessariamente portare a decidere di intraprendere un’attività professionale in tali settori. Si tratta comunque di esperienze che possono essere importanti dal punto di vista umano. Non bisogna mai dimenticare di tenere i piedi per terra e, quindi, occorre restare comunque ancorati alle proprie convinzioni e ai propri valori. Si può riuscire ad aiutare gli altri soltanto restando in armonia con se stessi e con il proprio mondo. Alcune esperienze nei Paesi in via di sviluppo possono rivelarsi traumatizzanti per alcune persone, soprattutto quando si lavora nei Paesi in guerra. Quindi, consiglio di fare un passo alla volta e di misurarsi gradualmente con realtà nuove alle quali non si è preparati.

{{Da donna, aver intrapreso tale lavoro ha comportato rinunce rilevanti?}}

Si, certamente. Lavorando nei Paesi in via di sviluppo, una delle difficoltà maggiori è proprio la mobilità: quindi il fatto di non riuscire a conservare una casa, una residenza fissa, trovarsi in continuazione a fare e disfare valigie. Un’altra rinuncia importante è quella di trovarsi in contesti dove la libertà di movimento personale è fortemente limitata da fattori legati alla sicurezza e al fatto di avere molta visibilità in quanto “straniero”. Ecco perché durante i miei frequenti soggiorni in Europa la cosa che apprezzo di più è camminare a piedi, cosa che nei Paesi in cui ho lavorato finora è possibile soltanto in pochissimi luoghi.