“Oltre il confine” sarà il filo conduttore della nuova edizione del Salone del Libro. Un tema scelto in virtù di quanto detta l’attualità, in ossequio a quella che è la direzione che il mondo occidentale sta prendendo e nel rispetto del ruolo che la cultura può avere nel rapportarsi con queste tematiche.

Oltre a ricordare un romanzo molto amato, e a introdurre l’approfondimento sul paese ospite, Oltre il confine dà sin troppo l’idea del mondo in cui viviamo per non tenerne conto. Un mondo in cui, fino a qualche decennio fa, molti confini sembravano sul punto di svanire e oggi invece si moltiplicano. Un mondo in cui fino a qualche tempo fa i muri sembravano voler cadere giù, e oggi si torna a volerli costruire. Sull’idea di confine, di frontiera, sull’idea di muro contrapposta a quella di ponte, si ragionerà molto durante questo Salone

Il tema del confine sarà interpretato e approfondito in molti modi, poiché molteplici sono i significati che può acquisire. Il Salone si assume la responsabilità di affrontare un tema tanto delicato in un momento tanto cruciale, rispondendo così a testa alta alle sfide che penderanno sul capo di una edizione che sarà sotto l’attenzione di tutti:

Al salone del libro si parlerà  di «Confini», di «Frontiere», perché confine e frontiera sono parole chiave del nostro tempo. In tutto il mondo le frontiere si moltiplicano. Fino ad ora abbiamo parlato di Stati Uniti. Ma in Europa, ad esempio, è stato l’anno della Brexit. Ci sono poi i confini attraversati dai grandi flussi migratori, da chi scappa da guerre e dittature e carestie. E ci sono poi anche altri tipi di frontiere e di confini. Fratture economiche (siamo un mondo economicamente sempre più disuguale), fratture culturali, religiose, sociali, di genere… Al Salone si parlerà di tutto questo.

Oltre il confine del libro v’è la tecnologia: il tema è stato più volte affrontato negli anni passati, quando ebook e crossmedialità hanno raccolto le attenzioni di utenti sempre più pronti a colmare la propria sete di cultura utilizzando fonti varie e disparate. Anche quest’anno la tecnologia sarà al centro dell’attenzione del Salone poiché proprio attraverso la tecnologia le persone si pongono  oggi il dilemma su cosa sta diventando e cosa intende diventare: «Il buono o il cattivo uso di scienza e tecnologia determinerà, sta determinando buona parte della nostra libertà e del nostro benessere».


Fra le molte iniziative in programma – come segnala AfaBeta2 – torna ancora una volta il ciclo di incontri sulla traduzione “L’autore invisibile” a cura di Ilide Carmignani. In calendario, tra l’altro, un dialogo tra la scrittrice tedesca Jenny Erpenbeck (il cui ultimo libro, Voci del verbo andare, è da poco uscito per Sellerio) e la sua traduttrice italiana Ada Vigliani, di cui presentiamo qui un breve diario di lavoro.

Ho incontrato per la prima volta Jenny Erpenbeck nel giugno dello scorso anno a Straelen, una cittadina del Land Nord Reno Vestafalia al confine con l’Olanda. Eravamo ospiti, lei e tutti i traduttori del suo ultimo libro Gehen, Ging, Gegangen (Voci del verbo andare nell’edizione italiana edita da Sellerio), del Collegio Europeo dei Traduttori, nato alla fine degli anni Settanta con l’intento di promuovere la traduzione.

Tra le più interessanti iniziative del Collegio ci sono i seminari residenziali di quattro giorni, nel corso dei quali traduttori di varie nazionalità si confrontano fra loro e con l’autore del libro che stanno traducendo. Un confronto a tutto campo sul testo, pagina dopo pagina, riga dopo riga, per discutere non solo problemi testuali, ma anche extra testuali: com’è nato il libro, come lavora l’autore, quali sono i suoi interessi, le sue letture.

Voci del verbo andare racconta l’odissea dei profughi originari dell’Africa subsahariana, arrivati a Berlino attraverso la Libia, la traversata sulle carrette del mare, l’approdo a Lampedusa, il soggiorno nei centri italiani di prima accoglienza. I profughi non narrano la loro storia in prima persona – non sarei mai riuscita a trovare le parole giuste, ci ha detto la Erpenbeck –, bensì attraverso il racconto di un professore emerito di filologia classica, un berlinese della ex DDR che, in pensione da qualche settimana, vedovo da alcuni anni e ancor sempre spaesato nella nuova Germania unificata, si interessa alle vicende di questi uomini ben più spaesati di lui, e con pazienza e umanità li interroga, li ascolta, li soccorre.

Essi sono gli alter ego dei richiedenti asilo, molto spesso ragazzi appena maggiorenni, che la stessa Jenny Erpenbeck – anche lei berlinese dell’Est, poco più che ventenne alla Caduta del Muro – ha conosciuto e aiutato durante i lunghi mesi in cui loro vite erano sospese tra la speranza del permesso di soggiorno e la concreta minaccia dell’espulsione. È con il carico anche materiale di queste sue esperienze che la scrittrice è arrivata a Straelen: con cartelle piene di fotografie, disegni, audio, video di quelli che lei chiama “i miei Africani”, da mostrare ai traduttori perché potessero percepire concretamente lo sfondo del suo lavoro.

Voci del verbo andare è il quarto libro di Jenny Erpenbeck che esce in Italia e, fin dal primo romanzo pubblicato da Zandonai nel 2011, ho potuto dialogare via mail con l’autrice che si è sempre rivelata molto disponibile a illuminare gli angoli che erano o mi parevano oscuri e a soddisfare in generale le mie curiosità. Più tardi ho anche avuto modo di lavorare in parallelo con alcuni colleghi stranieri, ad esempio con la traduttrice americana e soprattutto con quella olandese: occasione per riflettere sulla ricchezza, mescolanza e contrappunto di registri e lessici specialistici (giurisprudenza e giardinaggio, tecnica delle costruzioni e medicina, fisica delle particelle e linguistica e molto altro ancora) che caratterizzano la scrittura della Erpenbeck.

Ma incontrare di persona i colleghi e soprattutto la scrittrice è naturalmente un’esperienza molto più intensa: oltre alle otto ore giornaliere intorno a un grande tavolo, il discorso continuava nelle pause, durante i pranzi e i momenti liberi. E così, a cena, tra una zuppa di verdura e un arrosto con cavoli rossi, si è parlato dell’attenzione da riservare al Leitmotiv – una frase, una descrizione che compaiono identiche per caratterizzare un determinato personaggio; oppure davanti a una tazza di caffè con ottimi dolci (torte, biscotti, cioccolatini) che il Collegio generosamente offriva, abbiamo commentato la difficoltà di tradurre il titolo del libro, in modo da mantenere l’allusione alla grammatica (i profughi seguivano un corso di tedesco), al loro eterno andare e anche alla polifonia creata delle loro voci; una difficoltà per superare la quale Jenny Erpenbeck ci è venuta in aiuto sottoponendoci il lungo elenco dei titoli provvisori che lei stessa aveva ideato per il suo romanzo.

E non solo: abbiamo analizzato con l’autrice il linguaggio dei profughi – frasi in tedesco, in italiano, in inglese -, generalmente corretto nel lessico, molto semplice ed essenziale nella sintassi; abbiamo riflettuto sull’importanza delle righe saltate in una pagina scritta, dove i vuoti e i pieni contribuiscono a creare il testo, così come di suoni e silenzi è fatta la musica; ci siamo interrogati sull’origine e sul ruolo delle numerose citazioni di testi classici (Omero, Esiodo, Erodoto, Ovidio, Tito Livio) e su come restituirle con la stessa naturalezza che hanno nell’originale, in quanto la cultura – sosteneva l’autrice – non è qualcosa di elitario, bensì di “naturale come la vita”. Avremmo potuto continuare a parlare ben oltre i quattro giorni del nostro seminario e non a caso, partendo, ci siamo augurati che Jenny Erpenbeck scrivesse presto un nuovo libro così da poter tornare a Straelen per riprendere il discorso interrotto.