Interventi e spunti di riflessioni nell’incontro “Tempiquieti – Le donne si incontrano parlano dell’invecchiare e della morte” svoltosi a Sasso Marconi (5-6 maggio 2012) su invito delle Donne degli Horti di Mantova e delle Donne di Poesia di Modena con la partecipazione e adesione di altri Gruppi ed Associazioni di donne.*-{{Per costruire una riflessione comune}}
_ a cura delle {{Donne degli Horti}}
_ (Doretta Baccarini, Mara Boschini, Clelia Degli Esposti, Vanna Gallini, Raffaella Molinari, Nives Panza, Patrizia Panzetta, Nella Roveri, Enrica Sgariboldi, Monica Zaccaria)

{…Mi cercai una camicia da notte nella valigia, mi lavai la faccia e le mani, mi coricai nel letto troppo ampio e troppo morbido e per un bel pezzo non riuscii a dormire. Mi svegliai presto da un sogno mattutino e udii una voce che diceva: il tempo fa ciò che è capace di fare. Passa.
Furono le prime frasi che annotai nel grosso quaderno a righe che mi ero provvidenzialmente portata, che misi sul lato stretto del lungo tavolo da pranzo e che riempii molto rapidamente degli appunti sui quali adesso mi baso. Nel frattempo il tempo passò, come il sogno mi aveva laconicamente annunciato, era ed è uno dei processi più misteriosi che conosco e che con la vecchiaia capisco sempre meno. Mi sembra un miracolo che il raggio del pensiero possa attraversare gli strati temporali sia retrospettivamente che antivenendo, e il narrare è parte di questo miracolo, perché altrimenti, senza il benefico dono del narrare, non saremmo sopravvissuti e non potremmo sopravvivere.}
_ {{(Christa Wolf}},{ La città degli angeli,} pagg. 14-15)

{{1.
Nella Roveri per Donne degli Horti}}
_ Sono diverse le fonti a cui abbiamo attinto per costruire la riflessione comune (quella che ci fa usare il noi per cominciare) sull’invecchiare: libri, saggi, memorie, pagine sparse, suggestioni e impressioni colte nel tempo degli incontri e dei racconti.
_ Prendiamo in prestito, come punto da cui partire, il metodo e le idee di {{Gianni Celati}} quando realizza video che ritraggono situazioni di pianura, di provincia, quella che Celati definisce “categoria dello spirito” e che noi Donne degli Horti abitiamo. È più facile, da questa angolazione, sottrarsi alle definizioni, perché il paesaggio è tanto sfumato e ha confini tanto incerti da non avanzare alcuna pretesa, neppure di cernita o di classificazione. È forse anche più facile stare al presente e accettare, nella teoria delle cose che accadono e passano (idee, storie, fantasie…), quello che Celati chiama il “disponibile quotidiano”, che accade intorno e può essere colto se ci si abbandona al poco, al semplice, al particolare, il più disperso nella “pianura”, sfumato e irrisolto. Disporsi a questa osservazione orienta nell’affidarsi al tempo, allontana dalla strategia delle aspettative, della tensione verso il futuro, del nuovo che incombe, dell’affinamento e complicazione della cultura.
_ Lì si situa la diversa modalità con cui l’ “età in più” ci avvicina alle cose, per indurci ad uno sguardo lungo, fermo, che le faccia restare un po’ di più con noi e ci consenta di avvertire proprio il ritmo del passare, il suo tempo, l’attesa che sottende un presente ineludibile, un tempo senza inganni, carico di desiderio e perseverante nell’attenzione.
_ {{Jean Amery}} ({Rivolta e rassegnazione: sull’invecchiare}) definisce la persona vecchia come ospite di altri tempi, straniera alla contemporaneità e con difficoltà ad orientarsi in essa. Per questo diventa “scandalo dell’anacronismo” ({{Mary Russo}}, {Aging and the scandal of anachronism}) l’invecchiare e ogni sforzo tende a rimuovere questo processo, attraverso restauri e rinnovamenti, trasformazioni e riciclaggi, delle case, delle facce, delle cose.
Forse si tratta di reimparare, con la stessa percezione della “novità” che caratterizza l’imparare da bambine, a guardare il mondo come è davvero, nelle sue pieghe riposte e laterali e non solo per dire che c’è del bello nell’età della fine.
_ {{Diana Athill}} ({Da qualche parte verso la fine}) racconta, a ottantanove anni, i passi d’attesa e di sosta che finalmente può concedersi, dopo una vita spesa ad un lavoro di grande responsabilità in una importante casa editrice. Per lei non si tratta soltanto del riacquisito gusto di cose piccole e quotidiane, ma della scoperta del piacere della scrittura che le arriva sotto la duplice veste della sorpresa e della leggerezza: scrivere a ottant’anni, senza coinvolgimenti profondi, all’insegna piuttosto del divertimento. Lo stesso a cui ci invita {{Marirì Martinengo}}, in un articolo di aprile per la Libreria delle Donne di Milano: “La vecchiaia impone un restringimento nell’azione, ma si può osservare che è età compiutamente umana perché richiede dipendenza e relazioni. Il sapersi limitate spinge a pensare orizzonti altri, a cercare oltre…”.
E narrare è vitale per stare nel gusto delle vicende e delle relazioni, quelle che portano una pacificata consapevolezza e, insieme, lo scarto amaro tra le aspettative (“quando sarò tranquilla, dopo gli impegni, il lavoro, la casa, i figli…”) e la constatazione che tuttavia qualcosa non succede, i programmi comuni non sempre si realizzano e si definiscono invece, con sempre maggior precisione, strade singolari.
_ Ma c’è ancora un passaggio che si presenta come possibile oggetto di una riflessione e, al contempo, stabilisce la differenza tra la riflessione sulla vecchiaia e quella sull’invecchiare. Lo prendiamo da {{Ivana Ceresa}}:
{Che sia l’ora da che invecchio, di non veder più definita me donna come si alternano a fare dizionari ed enciclopedie…di non essere più inglobata nella storia dell’uomo, di nascere a mio nome e di mettere io stessa al mondo il mondo? … Uscire per invecchiamento dalla “doppia temporalità” (quella cosmica del calendario lunare che governa con cadenza mensile il corpo femminile e quella storica/maschile cui la vita della donna è finalizzata) offre al popolo delle donne in ogni sua individualità la chance forse più alta, l’alea più interessante e temeraria: invece di accettare la promozione del “cuore d’uomo”, cioè l’omologazione definitiva che mi vuol riassorbire e rilanciare nell’orbita maschile, potrei, chissà, conseguire “un cuore di donna” (un cuore intero?), non più denotabile come di moglie né madre né amante; né vergine, né vedova, né prostituta; non figlia, né sorella e neppure suocera; un capovolgimento/superamento dei ruoli assegnatimi, che ne cancelli i nomi e mi consegni a un amare totalmente apofatico, a “un amore senza nome”. }

{{2. Adesso la parola a tre voci singolari}}

{{Vanna Gallini}}
_ Non mi sarei soffermata in questo tempo sulla parola “invecchiare” senza la
sollecitazione delle mie amiche. Perché? mi sono chiesta. Eppure la mia età
anagrafica è solo di qualche anno inferiore alla loro. Eppure sto vivendo la
gioia della “nonnità”…Allora dove sta la differenza? Buona parte
della mia giornata è occupata dal lavoro, insegno da quarant’anni eppure non
vogliono mandarmi in pensione e ancora mi interrogo: “Il tempo che mi spetta
sarà il tempo coatto?” Dopo aver amato il mio lavoro non ho affatto
l’intenzione di vivere una sorta di “resa” e sto mettendo in campo alcune
strategie che mi permettono di fare “passi indietro” che chiamerò “passi della
salvaguardia di sè”.
_ I desideri nel frattempo si fanno avanti con una certa
prepotenza. Dopo aver visto il documentario “case sparse” mi sono ricordata di
un sogno che ha visualizzato un momento di passaggio molto significativo della
mia vita. Avevo lasciato alle mie spalle una casa in rovina e davanti a me
c’era una grande strada imbiancata di neve che attraversava la pianura. Poi un
incontro, un abbraccio, un cielo che roteava sopra la mia testa. Proprio in
quel periodo è iniziata l’esperienza della “Sororità” strada che sto tutt’ora
percorrendo con numerose sorelle, alcune delle quali qui presenti. La pianura
del sogno è il paesaggio che nella realtà abito e mi appartiene per il senso di
infinitudine che evoca e che oggi mi sollecita ad allontanare le aspettative e
a vivere invece le “attese”.
_ Secondo {{Celati}} le aspettative servono a “ingannare
il tempo”. L’attesa è invece la sensazione di un presente ineludibile, di un
tempo che non può essere ingannato. L’attesa è una “sosta nel paesaggio”.
L’attesa che mi riguarda è un richiamo a sostare presso il paesaggio dell’anima
per meglio focalizzare l’incontro con la realtà che viene avanti ed entrare
nella densità del tempo. Un tempo che contemporaneamente si dilata nel suo
divenire. Nulla è dato per scontato e ancora una volta è “l’impreparazione” di cui parla {{Luisa Muraro}} a farsi avanti?

{{Clelia Degli Esposti}}
_ Quando ho creduto di raggiungere la pienezza della vita, in cui il tempo non mi bastava per leggere, scrivere, fare, per fermarmi un attimo e posare lo sguardo, allora, dopo quel picco, quasi all’improvviso, ho cominciato a sentire di invecchiare. Sì perchè, secondo me, si invecchia consapevolmente o inconsapevolmente, naturalmente, nel corpo e nella mente, ma si invecchia veramente quando questo evento arriva al sentire profondo.
_ Non c’è una età canonica, a me è accaduto quando l’esistente si è fatto grande e in esso ho cominciato a perdermi con sguardo mutato. Opacità, ombre, malinconie senza ragione e poi ebrezze improvvise, ma senza più gioie profonde: c’è sempre una attesa in questi sentimenti contrastanti, una attesa indefinita, senza aspettative, senza costruzione di progetti . Non c’è più nulla da tempo che aderisce al mio profondo, ma una leggera schizofrenia mi lascia inquieta, sospesa. Come percorrere questa strada da donna libera? Non è ancora tempo per me di uscire da tutti i ruoli: dal lavoro sì e questa è stata una rivoluzione; ma nei ruoli familiari sono ancora incastrata e ancora mi si chiedono risposte. Come ho sempre fatto, cerco una distanza, difendo quel nocciolo profondo di me stessa, opponendo anche silenzi. Invecchiando è più facile: c’è un luogo per me, il mio deserto, abitato dalle relazioni femminili e dal loro riconoscimento, cui l’accesso oggi è facilitato dalla perdita di ruoli importanti o per lo meno riconosciuti tali da questo contesto sociale.
_ Sono meno importante, conto meno e allora posso avere il tempo per contare di più per me, per fare fino in fondo quel cammino di spoliazione e di vuoto, per arrivare al “niente che sono” (cito da Carla Lonzi).
_ Mi aiuta il mio quotidiano: nella luce del mattino, che posso godere senza frette, orari, coincidenze, le cose mi vengono incontro ed io le amo come fossero animate. Le vedo per la prima volta nei loro particolari: la cucina, le pietre dell’aia, il micio che ormai ha il pelo bianco attorno agli occhi; questi muri cambiano, si scolorano e le imposte hanno qualche scheggia sconnessa e la credenza ha la porta che non si chiude più bene, ma sono il mio paesaggio, sono dentro la mia testa e il mio cuore. Sono le mie “macerie”, le rovine della mia storia. E così comprendo che è lo sguardo a segnare il mio tempo che scorre, accompagnato dal desiderio che il paesaggio domestico resti così, testimone del suo passaggio. Quando una foto sul comò, un pizzo sul tavolo, una sedia nella mia stanza vengono spostati, provo fastidio: non è una questione di ordine, né di abitudine: è la mia memoria che non voglio dare in pasto al nuovo, comunque esso si manifesti. Scrive J{{ohn Berger}}, commentando dei documentari di Gianni Celati, che per l’uomo moderno la vecchiaia, la malattia, sono una specie di scandalo; e tutto ciò che crolla per vecchiaia, dalle case alle facce, deve essere sottoposto ad una forma di restauro cosmetico. C’è da chiedersi, continua {{Celati}}, se tutto ciò non sia un tremendo rifiuto del mondo che si espande con la produzione di immagini spettacolari di consumo, senza più margine. Ancora Celati: nelle pianure delle province americane, o nella savana africana o nella valle padana traversata come un deserto d’anime, c’è una ebrezza della dispersione che diventa qualcosa di positivo. Ti accorgi di poter amare il mondo con tutto il suo “disponibile quotidiano”, così com’è, per quello che è e non per come dovrebbe essere.
_ Cosa c’è di più banale di un tavolo da cucina, con una tovaglia provenzale gialla e un piatto di frutta (vera) nel mezzo? E’ il mio tavolo, dove pranzo e ceno, dove bevo il caffè con le mie amiche, dove sto scrivendo questi fogli. Ed è per me una scoperta, una presenza piena e vibrante, Dice {{Carla Lonzi }} nel suo diario, {Taci}, anzi parla, di essere proprio matura per queste scoperte! “In fondo, cito da Annarosa Buttarelli, il godimento della presenza delle cose comuni disegna una specie di paradosso: l’ottenimento del “niente che è me stessa”, ottenimento che però dà come sovrappiù la capacità di gioire della scoperta delle cose comuni del mondo”.
_ Guardare il mio mondo domestico così come è, mentre il tempo lo attraversa, nella minuzia e insignificanza dei suoi particolari, nel loro decadere, eppure nella gioia che essi sanno restituire: ecco il mio invecchiare.

{{3. Raffaella Montanari Cappi}}

Ho aperto una porta tra due giardini

Verrai dal pioppo argentato
_ nell’esultanza del gesto
_ a brani a brezza a dato
_ di scioltezza verde verde
_ vedrai, il testo non si perde
_ la sostanza è dell’agguato
_ (In {{Alberto Cappi}}, {Visitazioni}, 2002)

Lui la vide, che era nel giardino
_ Lei lo vede, che era nel giardino

Una mattina di giugno in cui era troppo presto
_ Per svegliarmi ma troppo tardi per riprendere sonno,
_ Devo uscire nel verde che è colmo
_ Di ricordi, e mi seguono con lo sguardo.
_ Non si vedono, si fondono completamente
_ Al paesaggio, perfetti camaleonti.
_ Sono così vicini che li sento respirare
_ Benché il canto degli uccelli dia stupore.
_ {{ Tomas Tranströmer }}(In {{Franco Buffoni,}} {Songs of Spring}. {Quaderno di traduzioni,} 1999)

-{{Pensare insieme modalità nuove di vivere una diversa stagione della vita}}
_ Intervento di {{Teresa Rabitti}}

Quando assieme a Sosi abbiamo espresso al gruppo l’esigenza di riflettere assieme sull’invecchiare e sul morire in quanto ci sembrava un tema vicino alle nostre esigenze (data l’età di alcune di noi), un tema più volte sfiorato nelle conversazioni , ma mai approfondito, abbiamo ricevuto un rifiuto deciso. Le amiche del gruppo, quasi tutte, credo non si sentano vecchie o non avevano voglia di pensarci, tanto meno riflettere sul morire; la morte, come si sa riguarda sempre gli altri… Dopo un iniziale rifiuto in realtà assieme abbiamo letto alcuni brani dal testo di {{Piazza}}, “{L’età in più}“, abbiamo per due incontri discusso partendo dalle nostre esperienze, ma si è deciso di partecipare al convegno di Sasso Marconi individualmente. Ecco perché interveniamo con testi individuali, anche se qui oggi ci sono altre donne del {{Gruppo 7 –donne per la Pace di Mantova}}: Mimma. Anna e Marzia.

Il mio intervento più che una riflessione compiuta è una proposta, vuole essere una offerta di temi su cui pensare assieme; un modo per chiarire a me e al gruppo perché sono qui e quali sono le motivazioni della mia scelta.

Ho vissuto la stagione del femminismo da persona ‘grande’, non ero più studentessa, ero sposata e avevo una figlia. Il femminismo per me è stato soprattutto la pratica della relazione fra donne, la stagione della riflessione collettiva, del racconto delle singole esperienze; è stata la scoperta dell’autocoscienza, delle letture in gruppo, del collettivo per gestire una trasmissione alla radio locale. In quel periodo e anche per qualche anno dopo in verità, abbiamo elaborato e vissuto collettivamente, e senza volere enfatizzare, non ci sentivamo sole. Ero e mi sentivo parte di un movimento, ora in realtà non so quanto di questa sensazione piacevole dipendesse dall’essere allora giovane, di sentire di avere un futuro e di percepire molta forza dentro.

Ora desidererei tornare a pensare assieme per esorcizzare il vuoto che a volte percepiamo, per inventarci una modalità di vivere questa nuova e diversa stagione della vita con consapevolezza. Questa è un’età difficile, come lo sono state altre, con specificità da cogliere, da esplorare. Non mi illudo troppo, sono consapevole del fatto che ognuna di noi patisce e patirà il suo percorso di vita gran parte in solitudine, come il destino, la fortuna e poco altro permetteranno.

Capisco, per quanto mi riguarda, che le scelte estreme e libere alla Thelma e Louise mi sono estranee. Loro scelgono di finire assieme perché inseguite dalla vita e dagli uomini; erano giovani, belle, non ammalate, hanno scelto la libertà: siamo in pieno mito femminista. Proprio perché non mi identifico in Thelma e Louise, devo vivere questo spazio di vita con la consapevolezza del tempo che passa, delle gioie possibili, delle limitazioni che il corpo mi imporrà, quando si farà sentire.

Oggi, che anagraficamente posso essere considerata anziana, alla soglia della quarta età, non mi sento vecchia nell’animo. Un amico diceva che l’importante era invecchiare ‘dentro’. Tempo fa non capivo bene cosa volesse dire ‘invecchiare dentro’, ora sto sperimentando che non so invecchiare dentro: conservo infatti col passare degli anni, desideri, curiosità, bisogni, passioni di quando il corpo era giovane e il futuro ancora da scrivere .

Ciò significa che devo riuscire a cogliere i lievi spostamenti del mio animo, i segni del cambiamento interiore. Quelli del corpo sono evidenti, mi\ci vengono imposti con violenza dal corpo stesso e non puoi fare altro che accettarli, prenderne atto cercare qualche aggiustamento, ma non ti puoi sottrarre.

Sono i cambiamenti dell’animo che voglio spiare, il modo di affrontare la quotidianità, lo spazio della mia casa, il rapporto con il cibo, i viaggi, le letture, l’ansia e la preoccupazione per quelli che amo; di questi cambiamenti vorrei parlare, questi vorrei condividere.

Da alcuni giorni su TV 7 sento insistente la pubblicità del nuovo programma di Saviano e Fazio, accompagnata dalla canzone di De Andrè, che non conoscevo, e che ripete “Quello che non ho, è quello che non mi manca”. Magari fosse così, mi viene subito da dire, ma la curiosità mi ha portato a cercare l’intera canzone e un verso dice .”Quello che non ho è un treno arrugginito che mi riporti indietro da dove son partito”.

Mi è venuto da chiedermi cosa non ho più data l’età, cosa mi manca e cosa ho ancora, che cosa voglio ancora.

Non mi dilungo su ciò che non ho più: non ho più una relazione di coppia e non ho più ‘una famiglia piena’, ma mi piace pensare che non sono sola, Faccio mio la riflessione che “La solitudine non è vivere da sola, la solitudine non c’è quando sai che qualcuno ti pensa”

Vi propongo alcune frasi problematiche che mi hanno fatto pensare, frasi che in questi mesi ho raccolto leggendo alcuni testi, sulle quali vorrei riflettere assieme. Non riporto le autrici perché in realtà le ho in parte elaborate, mescolate, estrapolate dal contesto. Ogni riflessione potrebbe essere un punto di partenza per cominciare a comunicare e condividere pensieri ed esperienze personali.

Noi che abbiamo fatto percorsi diversi, abbiamo una possibilità di vivere la vecchiaia in modo diverso dalle nostre madri? Come?

E’ il momento di mettere ordine o di accettare il disordine della propria vita ?

A volte mi sento distaccata da ciò che mi ruota attorno come se avessi già dato, come se fosse venuto il tempo in cui devo pensare a me e a rilassarmi senza lasciarmi coinvolgere troppo, come un tempo.

Mi sento più libera, posso dire quello che penso, liberamente; ho anche voglia di trasgressione.

Ho bisogno di normalità, temo le trasgressioni i cambiamenti, rifiuto istintivamente le novità che il mondo mi offre, troppa fatica adeguarsi inseguire il mondo. E poi perché?

-{{Sull’invecchiare (ma non sul morire) }}
_ Intervento di {{Annarosa Baratta}}

Un vecchio saggio, che cito di riporto e dunque non conosco, pare dicesse che vecchiaia è quando non si è più padroni del proprio viso. Aggiungerei anche del proprio corpo, con i suoi deficit sensoriali, le plissettature della sua pelle e l’atonicità dei suoi muscoli, la sua mancata rispondenza alla volontà, alla richiesta di prestazioni che pure gli sono state proprie: non so più correre, ma nemmeno muovermi con scioltezza, con armonia, con tempismo… e il mio viso poi?

{{Norberto Bobbio}} fisserebbe una data d’inizio alla vecchiaia, gli 80 anni, o almeno la fissa per sé, tenendo conto che ha smesso di insegnare a 75. Io ne ho 78: forse che sono sulla dirittura d’arrivo? sarà bene che cominci a pensarci, io, non gli altri, che lo sanno già e si preoccupano che non cada perché mi romperei irrimediabilmente. Ti ricordi del femore famoso, della frattura inesorabile in tutti gli anziani che conoscevi, il predittore infausto di un precipitevole declino? Bene, adesso il rischio è mio. Mio? No, non toglietemi la bicicletta! Mi anchiloserei prima, inutilmente prima… gli ultimi anni da tartaruga, persa la mia allegra sanità?

Ho provato a spiare la mia vecchiaia, che ancora non mi spaventa abbastanza: è vero, le guance si incavano, le labbra si asciugano, le palpebre si slabbrano, gli occhi si fanno acquosi, le venuzze ramificano; e la cute rosa del cranio occhieggia fra i capelli che si ammosciano e si dividono. Eppure, benché in famiglia le denunci spesso con una puntigliosità che può apparire masochista, queste evenienze non mi angustiano. Non intralciano le mie giornate. Rispondono a una consapevolezza ‘estetica’, un po’ autoironica, un po’ rassegnata, a cui mi sembrerebbe poco lucido, diminuente, rinunciare.

“Il problema è che bisognerebbe invecchiare dentro”, diceva in tempi non sospetti un vecchio amico – lo stesso di Teresa -, saggio a sua volta per paradossi. Allora forse sono invecchiata dentro, e questo mi impedisce le smanie, mi consente la calma abitudinarietà dei miei giorni: dimenticati “le furie e gli sdegni” (fatta salva qualche accensione improvvisa), affezionata agli angoli della mia casa, a gesti che si ripetono uguali (alla mia mano che la mattina gira la farfallina del gas e apre la giornata), accetto una vita rallentata, un po’ neghittosa, con qualche punta d’ansia, in un tempo che passa spudoratamente veloce, che non ancora riconosco incalzante; accetto di essere me stessa a questa età: perché – dice {{Marina Piazza}} – si è solo quello che si è: disordinata e dispersiva, dunque, perché distratta e smemorata: o un po’ svampita, a piacere. Qualche volta mi piace pure sembrarlo.

Ma l’accettarmi per quello che sono (alla fine per essere proprio vecchia forse mi restano ancora due anni di buono…) non impedisce nostalgie, non impedisce di sbattere il “tappeto dei ricordi”, che non è ancora smunto (lasciateci “il gusto del rimpianto”, direbbe {{Dylan Thomas}}). Non mi pare però di vivere nel passato, come qualche volta mi rimprovera mia figlia: è vero, “io sono quello che ho vissuto, amato, pensato…io sono i miei ricordi” ({{Bobbio}}); ma anche se mi pare che non ci sia più spazio soggettivo per l’inaspettato, se talvolta vorrei con tutta l’anima l’immobilità dell’esistente, se tendo a crogiolarmi in quello che so già, che mi dà conferme e mi impedisce l’ansia del nuovo, per il quale temo di non essere più attrezzata; anche se il senso di inadeguatezza si è ulteriormente radicato, non più solo psicologico ma ormai anche fisico, anche se è più facile che tergiversi e che scantoni, nonostante tutto questo, insomma, credo che le curiosità che mi rimangono, la disponibilità da scolara agli incontri, mi consentano ancora una vitalità non drammaticamente diversa da quella di un tempo: come se la vecchiaia non fosse una caduta (anche se cado spesso…), ma la tranquilla continuità della mia vita. Così che, per opposto, è ‘senilità’ la parola che sento del tutto estranea: non so se per irrimediabile superficialità o perché ho ancora qualcuno che ha bisogno di me; e qualcuno che, nei momenti di impotenza, mi ha accudito consentendomi la leggerezza. Certo anche perché ho il privilegio di amiche molto più giovani, affettuosamente presenti, che mi impediscono la tristezza della solitudine.

Tutto questo però non impedisce che agli occhi di chi ti è vicino i tuoi 78 anni, che da scriteriata ancora non avverti nella loro pesantezza anagrafica, abbiano bisogno di preoccupata tutela: e allora sì che la vecchiaia che pensi ‘a venire’ ti spaventa: nel suo aspetto di perdita di autonomia, di perdita della libertà di decidere. Voglio rimanere libera, padrona di me. E allora perché non riaccarezzare la vecchia ipotesi spavalda, e romantica, della mia giovinezza, l’anello che nasconde il veleno…? Ma che complicazione oggi sarebbe per il mio scarso senso pratico! Oggi – di fronte alla “porta che si chiude” ({{Pozzi}})- nessuno vuol più prendere accordi con me; nemmeno io, ‘alla fine’.
In realtà non indugio sul pensiero della morte: so, con indifferente freddezza (indifferente?), che devo metterla nel conto, che il calcolo delle probabilità non mi è più favorevole, che i margini che mi rimangono sono stretti; ma non avverto ancora il turbamento della fatalità imminente.
Insomma, non ci penso.

-{{Tempiquieti: spunti di riflessione}}

{{La giovinezza chiama la vecchiaia}}
_ Anche tu hai visto il sole, un uccello di fuoco,
_ avanzare sulle nuvole nel cielo dorato,
_ hai conosciuto l’invidia dell’uomo e le sue fragili passioni,
_ hai amato e perduto.
_ Tu, che sei vecchio, hai amato e perduto come me
_ tutto quello che è bello ma nato per morire,
_ hai tracciato i tuoi segni nell’incalzante gelo.
_ E hai passeggiato di notte sulle colline,
_ ti sei scoperto il capo sotto il cielo vivo,
_ a mezzogiorno hai camminato nella luce,
_ assaporando la mia stessa gioia.
_ Ci separano anni, ma non conta: la govinezza
_ chiama la vecchiaia attraverso gli anni stanchi:
_ “Che hai trovato – le grida – che hai cercato?
_ “quello che tu hai trovato – risponde la vecchiaia lacrimando –
_ quello che tu hai cercato”.
_ {{Dylan Thomas}},{ Poesie inedite e altri scritti}, a cura di A. Marianni, Einaudi, Torino 1980, pag.73

{{La porta che si chiude}} (testo tràdito)
_ Tu lo vedi, sorella; io sono stanca –
_ come il pilastro d’un cancello angusto
_ diga nel tempo all’irruente fuga
_ d’una folla rinchiusa.
_ Oh, le parole prigioniere
_ che battono, battono
_ furiosamente
_ alla porta dell’anima
_ e la porta dell’anima
_ che a palmo a palmo
_ spietatamente
_ si chiude!
_ Ed ogni giorno il varco si stringe
_ Ed ogni giorno l’assalto è più duro.
_ E l’ultimo giorno –
_ Io lo so –
_ l’ultimo giorno,
_ quando un’unica lama di luce
_ pioverà dall’estremo spiraglio
_ dentro la tenebra,
_ allora sarà l’urto tremendo,
_ l’urlo mortale
_ delle parole non nate
_ verso l’ultimo sogno di sole.
_ E poi,
_ dietro la porrta per sempre chiusa, sarà la notte intera, la frescura,
_ il silenzio.
_ E poi con le labbra serrate,
_ con gli occhi aperti
_ sull’arcano cielo dell’ombra,
_ sarà
_ – tu lo sai –
_ la pace.
_ ({{Antonia Pozzi,}} {La vita sognata}, Scheiwiller, Milano 198)

{{Lady Lazarus}}
_ Morire
_ è un’arte, come ogni altra cosa.
_ {{(Silvia Plath}}, {Lady Lazarus e altre poesie,} Lo specchio, Mondadori 1976, pag.27)

{{Prima di morte}}
_ Scompare ogni puntiglio
_ viene meno
_ il punto da ribattere
_ svanisce nell’aria
_ sprofonda nel terreno
_ e faggio pioppo tiglio
_ tutta l’erba è un fascio
_ un odoroso fieno.
_ ({{Bartolo Cattafi}}, {Chiromanzia d’inverno}, Mondadori 1983, pag.57)

{{Paura seconda}}
_ Niente ha di spavento
_ la voce che chiama me
_ proprio me
_ dalla strada sotto casa
_ in un’ora di notte:
_ è un breve risveglio di vento,
_ una pioggia fuggiasca.
_ Nel dire il mio nome non enumera
_ i miei torti, non mi rinfaccia il passato.
_ Con dolcezza (Vittorio,
_ Vittorio) mi disarma, arma
_ contro me stesso me.
_ ({{Vittorio Sereni}}, {Stella variabile,} Garzanti 1981, pag.72)

{{*Hanno partecipato all’incontro di Sasso Marconi donne dei gruppi:
_ Donne degli horti – Mantova
_ Gruppo 7 – donne per la pace – Mantova
_ Donne di poesia – Modena
_ Gruppo Marija Gimbutas – Sasso Marconi
_ Gruppo ’98 Poesia – Bologna

Hanno aderito all’iniziativa le Associazioni di donne:
_ Anassim – Bologna
_ Armonie – Bologna
_ Casa delle donne per non subire violenza – Bologna
_ Intrecci – rete di associazioni di donne migranti e di donne native e straniere nella Regione Emilia Romagna
_ Tavola delle donne sulla violenza e sulla sicurezza nella città – Bologna
_ UDI – Bologna}}

{ndr} {immagine}: “Primavera” di {{Octavia Monaco}} in [cartesensibili->http://cartesensibili.wordpress.com/2012/04/29/avviso-tempiquieti-v-ravagli-incontro-a-sasso-marconi/]