Elena Bein Ricco della Commissione studi della Federazione delle Chiese evangeliche, ha scritto sulla laicità alcune pagine di grande chiarezza nel libro” Dall’Islam in Europa all’Islam europeo” (a cura di Mostafa El Ayoubi e Claudio Paravati ed. Carocci 2018). Nel suo intervento (“Libertà religiosa e laicità”) l’autrice sostiene che ora gli stati si trovano di fronte alla varietà delle credenze nei confronti delle quali si devono posizionare come garanti della libera convivenza tra tutte le fedi e le concezioni del mondo. Ma sussiste il pericolo che questo pluralismo degeneri in neo tribalismo, in quanto ormai siamo in piena ossessione identitaria. È bene allora avere presente che la tutela della libertà religiosa, e il riconoscimento delle differenze, non avviene in un vuoto giuridico esistendo una Carta costituzionale “che rappresenta quella cornice normativa di diritti, doveri e leggi obbliganti per tutt*, entro la quale si colloca ogni componente della società”. Detto così suona bene e chiaro. In realtà ci muoviamo in un terreno minato che, ovviamente, nessuno vuole attraversare temendo di restarci impantanato.

Qualche tempo fa un esponente italiano della Consulta Islamica, dopo la legge sulle unioni civili, sostenne che si dovrebbe procedere anche al riconoscimento della poligamia perché, a suo parere, si tratta di diritti civili per altre minoranze.

Nella calura dell’estate il sindaco di Milano in un’intervista a un quotidiano, ha spiegato che gli italiani hanno paura degli immigrati africani, ma non di tutti gli altri che, a suo parere, si sono ben integrati. Infatti a sinistra, di solito, s’intende per integrazione la sistemazione economica degli immigrati.

La Stampa (18.9.2018) ha pubblicato un articolo di Karima Moual intitolato: “Noi ragazze musulmane cresciute a pane e botte”. Seguono interviste a ragazze le quali raccontano di essere costrette a scegliere una doppia vita per non subire violenze in famiglia, ovviamente da parte di padri e fratelli. Qualcuna vuole sperare di trovare un marito amico e complice, cosa che ritiene difficile, anzi un miracolo “considerando come veniamo educati tra maschi e femmine”. Ogni tanto i giornali pubblicano di ragazze soprattutto pakistane che invocano aiuto dal Paese di origine dove sono state portate con la forza per sottrarle all’ “occidentalizzazione” o, addirittura, per sposarle a qualcuno. È un sommerso che riguarda anche altre comunità come gli indiani di religione Sikh.

In una discussione su facebook a proposito della proposta di legge del leghista Pillon volta a cambiare le norme per l’affido congiunto dei figli, un musulmano ha criticato tutto l’impianto del diritto di famiglia in nome della visione islamica: “Fino a quando i figli non saranno affidati al padre ci saranno solo problemi per tutti. Il padre si prende cura dei suoi figli sotto ogni aspetto quando è lui che decide, se invece viene messo da parte e diventa genitore di serie b oltre tutto viene ricattato come fa la mafia: se vuoi vedere i tuoi figli devi pagare allora non esiste più nessuna collaborazione in nessun senso. Questa è la natura di ogni individuo normale. Questo è l’Islam la religione dell’unico Dio il Creatore di tutto ciò che esiste incluso l’uomo e la donna. dalla propria natura non si può fuggire infatti anche chi non conosce l’Islam e non è malato ragiona così.”.

L’associazione ANIM dei musulmani italiani ha avanzato, tra le altre, la richiesta del riconoscimento di scuole paritarie. Ora, scuole paritarie ne ha anche la Chiesa Cattolica, quindi si tratterebbe di estendere un diritto già riconosciuto al culto maggioritario.  I musulmani potrebbero così evitare di darsi da fare per un’educazione casalinga capace di neutralizzare l’infausta formazione laica, come scrive su Fb una mamma: “L’educazione parte dalla famiglia, si insegna già da casa ai figli come comportarsi, si evita di mandarli all’asilo in tenera età in modo tale che non assorbono ciò che le insegnanti cercano di inculcare (come festa di natale, Halloween, San Valentino ecc..). Quando entrano nelle scuole a classi miste i bambini musulmani, se sono forti nella loro fede, non saranno toccati da ciò che hanno attorno perché già hanno delle basi solide. Purtroppo, anche tra le famiglie musulmane esiste questo lassismo e per loro non sussiste il problema di stare in classi miste e fare attività che li spingono a mescolarsi tra loro, che poi mi sa che le maestre lo fanno apposta; in questi anni poi ci hanno messo anche la psicologa…mah. Le questioni ereditarie? Noi seguiamo il corano, non stiamo ad ascoltare quello che l’ordinamento italiano dice. Poi prima di morire in Italia ce ne vuole. In sha Allah moriremo tutti e le questioni ereditarie saranno solo un problema dei vivi.”

La libertà di culto e la questione dell’identità sono separabili?  Pare di no. Nell’esercizio della libertà religiosa, per i musulmani, ci stanno anche le norme e i precetti dettati dalla Sharia.

Non mangiare cibi proibiti e coprire il corpo per le donne, entra facilmente nei diritti alla libertà di espressione sotto varie forme. Ma quando, in nome della religione, si chiede anche il diritto al niqab che una legge dello stato proibisce come il casco da moto, ecc., perché occulta il volto impedendone il riconoscimento, la faccenda si complica. Se i musulmani chiedessero l’applicazione della legge coranica per l’eredità, che discrimina le donne, in nome della libertà religiosa, del pluralismo, della multiculturalità, ci troveremmo a dover decidere se ammettere o no i tribunali musulmani come alcuni Paesi europei hanno già concesso. E che ne sarebbe della laicità dello stato? E della Costituzione, art.3?  Ovvero: sono integrati i pakistani con i loro negozi di frutta, e i matrimoni forzati delle femmine? Lo stato deve limitarsi a intervenire quando emerge pubblicamente qualche caso di ragazza scomparsa o richiedente aiuto dal Pakistan dove è stata deportata? Insomma, non ha tutti i torti Elena Bein Ricco a ipotizzare una deriva verso un pluralismo che potrebbe virare in tribalismo da una parte e dall’altra, in nome delle identità religiose o presunte tradizioni culturali.

Elena Bei Ricco citando il tribalismo, evidenzia anche i conseguenti conflitti. Se una comunità, sia pure nella sua varietà etnica, si dimostra sempre critica e, in difesa per differenziarsi – rispetto a leggi e costumi degli autoctoni- spinge una parte di questi a invocare un’identità collettiva presuntivamente omogenea e ugualmente su basi religiose.  È il caso della Lega che dal dio rupestre del fiume Po è passata alla contrapposta difesa identitaria del cristianesimo brandendo la croce e il rosario.

Franco Cardini, nel libro citato (“L’Islam in Europa tra passato e presente”) si lancia in una strana difesa del velo islamico appropriandosi del pensiero unico che circola tra i musulmani e le musulmane. Oggi, scrive, “nel libero e felice Occidente”, una ragazza o una donna “è obbligata all’impudicizia, condannata all’impudicizia. La libertà di mostrarsi e di scoprirsi è andata mutandosi in obbligo. “E allora, continua il confronto con una musulmana che indossa con dignitosa modestia il suo hijab non può farci riflettere? Potrebbe rappresentare non già un ‘caso ‘ di ‘repressione’ e di ‘regressione’ bensì di alta e autentica libertà?”.

Il professore non sa che la donna musulmana non mette il velo per ribellarsi al presunto modello obbligatorio occidentale? Lo racconta bene Marisa Iannucci, italiana musulmana (“Il velo tra obbligo e divieto. E la libertà delle donne?” o.c.). Il velo è un precetto coranico e un forte segno identitario. E’ uno stile di vita “improntato al pudore e alla riservatezza” tra i sessi e riferito a un sistema di valori “proprio dell’Islam”. La sua pratica è un atto di devozione verso Dio. Un obbligo per chi professa l’Islam. Portare le minigonne, scoprire d’estate le spalle, non è, invece un obbligo religioso. Fa parte della moda che è una variante culturale soggetta a mutamenti. Le ragazze che raccontano (nell’articolo citato), di uscire di casa velate e di mettere la minigonna che un’amica compiacente ha portato nello zaino, svelano i dettami rigidi di comunità che marcano il corpo femminile per testimoniare la differenziazione dalla comunità autoctona. Come è sempre stato. La conclusione è che la  politica poco è interessata a capire e riflettere culturalmente.

Pubblicato anche su Italialaica.it