MEDITERRANEA newsletter UDI Catania 02.08.19
In Israele, 2019 – una poetessa, la sua avvocata, i tribunali e tanti giornalisti
Dareen Tatour, poetessa palestinese

Nel 2015 Dareen Tatour (37 anni) di Nazareth, ha pubblicato su Facebook una poesia (“Resisti popolo mio, resisti”) per la quale è stata accusata di incitamento alla violenza dalle autorità israeliane.

A maggio di quest’anno 2019, dopo circa quattro anni, il Tribunale distrettuale di Nazareth ha stabilito che la poesia non costituiva incitamento alla violenza e all’odio.

In questo luglio 2019 la Pubblica Accusa ha presentato una richiesta formale di appello contro la decisione del tribunale di Nazareth e contesta anche di considerare/riconoscere Dareen come “poetessa‟.

Ancora in questo luglio l’avvocata che difende Dareen, Gaby Lasky, ha presentato le motivazioni difensive davanti alla Corte Suprema.

In questi lunghi anni dalla prima denuncia Dareen è stata arrestata nell’ottobre 2015, ha trascorso tre mesi in carcere, poi è stata posta agli arresti domiciliari, dal gennaio 2016.
Gli arresti domiciliari hanno previsto varie restrizioni: le è stata imposta come residenza la casa del fratello, in un quartiere periferico di Tel Aviv, e solo dopo una lunga battaglia legale si è potuta spostare nella casa dei genitori dove vive, vicino a Nazareth.
Le è stato vietato l’uso del computer, sono stati inibiti i collegamenti internet a lei e famiglia.
Per mesi ha dovuto portare alla caviglia un sensore di sorveglianza a distanza.

Con il sostegno della sua avvocata e di molti attivisti israeliani impegnati sul terreno delle questioni sociali e politiche nel Paese e nei Territori Palestinesi (Local Call, Activestills ecc.), Dareen commenta: “La presentazione dell’appello contro la sentenza del tribunale di Nazareth che mi ha assolta, è per loro una questione di principio. Non vogliono che una donna palestinese “sconfigga” lo Stato. Vogliono spaventare le persone, per questo mi
riportano in tribunale”.

Da un articolo di Oren Ziv (Activestills), pubblicato il 18 luglio 2019

Mediterranea a cura carlapecis@tiscali.it
La redazione di “Local Call”

 

 

 

 

 

Dareen e la sua avvocata, Gaby Lasky a Nazareth

L’Israele di Noa Rabin – newsletter UDI Catania 29.07.19

Ricordiamo perfettamente e con commozione l’ultimo saluto della nipote Noa, allora diciottenne, al nonno,il premier israeliano Ytzhak Rabin, assassinato il 4 novembre 1995 al termine di una grande manifestazione per la pace nella piazza di Tel Aviv che oggi porta il suo nome, per mano di un giovane israeliano estremista di destra.

La notizia è che Noa Rabin ha deciso di impegnarsi in politica nel nuovo partito, Israel Democratic, fondato dall’ex premier laburista Ehud Barak, in previsione delle elezioni del 17 settembre prossimo che eleggeranno i 120 membri della Knesset. 

Riportiamo qui di seguito alcuni brani dell’articolo di Umberto De Giovannangeli (“Noa Rabin: mi candido contro una destra che imprigiona Israele”, 27 luglio 2019).  E’ un articolo bello e utile perché ci ricorda i tratti essenziali del problema, irrisolto e drammatico, di una “pace giusta in Palestina”. 

A spingerla ad entrare in un campo, quello della politica, che non è mai stato il suo, è innanzitutto la preoccupazione della deriva estremista, fondamentalista della destra israeliana, una deriva che, dice Noa ad HuffPost, “sta producendo lacerazioni gravissime nella società israeliana, e rischia di travolgere le stesse basi della convivenza democratica. Di fronte a questa degenerazione non è possibile restare a guardare. Questa radicalizzazione va fermata e ognuno è chiamato a fare la propria parte. I nostri figli non devono crescere in un clima avvelenato dall’odio. Conosco da molto, molto vicino gli effetti dell’odio”. La politica, intesa come partiti, aveva bussato più volte alla sua porta. Ma Noa aveva sempre rifiutato un impegno diretto, in prima fila, magari con un seggio garantito alla Knesset (il Parlamento israeliano). Altri erano e restano i suoi interessi, ha avuto sempre una passione per il giornalismo e la comunicazione, e poi c’era sempre il timore che più che alle sue idee, coloro che bussavano alla sua porta erano interessati “ad una Rabin”.

Ora, però, quei timori sono stati spazzati via dalla convinzione che “Israele è davvero ad un bivio” e che le elezioni del 17 settembre “sono un passaggio cruciale nella storia del mio Paese, possono segnarne il futuro, soprattutto delle giovani generazioni”. Noa Rohtman ha due figli, Omer e Alona, e il futuro delle ragazze e dei ragazzi d’Israele ritorna continuamente nelle sue considerazioni sull’impegno politico che si è assunto. Se la posta in gioco il 17 settembre è così alta, l’impegno politico è una via obbligata, una sorta di dovere civico, chiamarsene fuori, annota Noa, rappresenta una fuga dalle responsabilità individuali e collettive. “Non possiamo restare seduti, aspettando che qualcun altro faccia il lavoro per noi, questo è il dovere della mia generazione”, sottolinea con forza. Noa non vuole ergersi a depositaria dell’eredità politica di Yitzhak Rabin, da questo ne rifugge con altrettanta forza, ma al tempo stesso avverte che i valori, i principi, le battaglie che nonno Yitzhak aveva portato avanti, “non fanno parte del passato ma sono quanto mai attuali e possono rafforzare una visione alternativa a quella di cui Netanyahu e la destra radicalizzata sono portatori, sula pace, l’identità nazionale, la giustizia sociale, i diritti delle minoranze”.

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Noa non vuole riaprire vecchie ferite che il tempo non ha cancellato, ma non può fare a meno di ricordare la campagna d’odio alimentata da Netanyahu e dal Likud contro quel primo ministro che alla Casa Bianca, quello storico 13 settembre del 1993, aveva stretto la mano dell’”Assassino di Ebrei”, il leader dell’Olp, Yasser Arafat. In quelle manifestazioni Rabin era accusato di essere un “traditore”, di aver capitolato al “capo dei terroristi” palestinesi, firmando gli accordi di Oslo-Washington; quegli accordi che, tuonava allora Netanyahu, aprivano la strada alla realizzazione dello Stato terrorista palestinese. Nella sua memoria restano indelebili le caricature di suo nonno con la kefiah palestinese o in divisa da SS che riempivano le pubblicazioni dei giornali dell’estrema destra e le manifestazioni del Likud: “E’ in quel clima d’odio – ricorda Noa – che è maturato l’assassinio di Yitzhak Rabin”.

Non coltivare l’odio non significa dimenticare. Perché senza memoria non c’è futuro. L’Israele di Noa è quello legato agli ideali originari del pionierismo sionista, un Israele laico, plurale, che non discrimina le minoranze etniche o religiose, nel quale la religione non si fa politica e Stato. Nel ventesimo anniversario della morte di Rabin, aveva detto in una intervista a 24newstv/ fr: “Il problema è che siamo guidati dalla filosofia dell’ebreo perseguitato invece che dalla morale del Sabra, libero dalle nevrosi della Diaspora e prodotto di un’idea di sionismo pratica e efficace. L’obiettivo del sionismo” ha detto “non era la creazione di un terzo Tempio, ma di un modello sociale. Sembra che un’epoca sia finita e che questa conclusione sia stata determinata dal peccato originale: l’assassinio di mio nonno. Per ragioni molto superficiali basate sul suo nome, questo omicidio è stato paragonato alla Kedat Itzhak,il sacrificio di Isacco. Ed è un errore. Piuttosto, parlando di Torah, lo paragonerei all’assassinio di Abele per mano di Caino. Due interpretazioni opposte”.

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A ben vedere, sono i due sentimenti che l’hanno portata a scendere in campo. Il dolore per un Paese che “rischia di vedere ipotecato il suo futuro da una destra che ha fatto dell’estremismo la sua cifra identitaria, il fondamento della sua azione di governo”. E la speranza “per un cambiamento che ritengo possibile e non solo necessario”.