“Storie di guappi e femminielli” è un saggio/non-saggio dell’autrice Monica Florio dedicato a due figure dell’universo culturale tradizionale napoletano, i “guappi” e i “femminielli”.

Preliminarmente va detto che, seppure l’oggetto della ricerca e l’universo culturale esplorato si possano ascrivere a quell’insieme di tradizioni, usi, atteggiamenti che costituiscono la “napoletanità”, in questo libro non c’è folclore ma lo studio documentato di due fenomeni antropologici e culturali.

L’ho definito saggio/non saggio perché accanto a una struttura articolata, all’apparato di note e alla bibliografia, che ne fanno un saggio, il libro è percorso da una corrente di racconto, con escursioni nella letteratura, nell’arte, nel teatro, nel cinema e anche nella televisione che ne rendono agevole la lettura e più facilmente stimolano riflessioni su alcuni temi quanto mai attuali, ad esempio sulla violenza nelle relazioni uomo/donna nel caso del guappo, o sul non binarismo e sui ruoli sociali nel caso del femminiello.

Sono fonti giornalistiche, musicali, teatrali, letterarie quelle che Monica Florio utilizza per ricostruire le due figure, entrambe espressione “di una sottocultura che, sotto la spinta globalizzante, si è ormai estinta”, dice l’autrice. Le due figure hanno in comune l’appartenenza alla Napoli del passato, e in particolare al microcosmo costituito dalla “cultura del vicolo”, ma anche altre caratteristiche: “Guappi e femminielli esprimono il loro modo di essere attraverso una gestualità enfatica e un abbigliamento vistoso. Sono legati da un sentimento religioso, talvolta anche genuino come quello dei femminielli che prendono parte al pellegrinaggio della Candelora, che avviene il 2 febbraio di ogni anno presso il santuario di Montevergine nei dintorni di Avellino.”

La differenza fondamentale tra guappi e femminielli è nel giudizio sulla loro sopravvivenza nella contemporaneità. Il guappo, che nel vicolo assolveva a un ruolo ben preciso – “colui che si ritaglia l’ultima parola nei conflitti riguardanti l’onore e i rapporti fra i sessi” – è stato storicamente assorbito dalla malavita organizzata, divenendo a tutti gli effetti un camorrista, anche se è sbagliato confondere le due figure. I femminielli, invece, quasi non si trovano più nei vicoli, che invece esistono ancora, e si sono spostati nelle campagne delle zone vesuviane e avellinesi; anche i loro riti, come lo spusarizio masculino e la figliata ancora sopravvivono. Rileva, Monica Florio, che gli studi più recenti di natura sociologica o antropologica ne sanciscono l’estinzione; tuttavia, l’autrice resta convinta che in realtà una vera scomparsa dei femminielli sia impossibile: “è legittimo chiedersi come sia possibile che i femminielli stiano scomparendo se sono sempre stati rilevati in tutte le epoche e culture conosciute. Una tipologia umana non si estingue perché cambia il regime sociale, al massimo si può trasformare o travestire. Col passaggio dalla comunità (il vicolo) alla collettività, il femminiello si distingue come un caso di resistenza all’attuale omologazione socio-culturale.”

È utile, per chi si interroga sul genere e sull’identità sessuale ripercorrere la storia e la cultura dei femminielli. Bisogna, però, spogliarsi da certi pregiudizi. Ad esempio, qualcuno/a pensa che la cultura dei femminielli sia l’antecedente storico del movimento trans, o che la loro accettazione/integrazione nella comunità del vicolo rappresenti il segno della natura tollerante della città di Napoli, tolleranza da intendersi anche come apertura a una visione libera dell’identità di genere. Non è così, e nel libro di Monica Florio si trovano spunti di riflessione importanti.

Molti femminielli, in passato ma ancora oggi, si sono dichiarati contrari a operazioni chirurgiche di transizione al sesso femminile. Nell’universo del “vicolo”, i femminielli sono stati da sempre assegnati ad attività femminili, come la cura dei bambini piccoli o le faccende domestiche. La storia dei femminielli, insomma, è tutta dentro la cultura patriarcale che assegna ruoli sociali definiti in base al sesso e privilegia, tra i due sessi, quello maschile. Dice Florio: “Il femminiello non è mai stato percepito come una minaccia dal suo ambiente perché non ha tolto potere all’uomo né messo in discussione la società di stampo patriarcale/maschilista.”

Fare dei femminielli l’anticipazione storica della liberazione dalla costrizione all’identità sessuale binaria è dunque un azzardo, così come lo è ritenere che l’economia del vicolo sia una forma di resistenza (per questo da preservare) alle spinte globalizzanti e omologanti della contemporaneità: è e resta miseria, assenza di opportunità, illegalità o contiguità con l’illegalità.

Monica Florio, Storie di guappi e femminielli, Guida editori, 2020