Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento apparso sul numero di dicembre del trimestrale “Libero pensiero”: il progetto politico che sta dietro l’operazione riforma della scuola riguarda cittadine e cittadine e non solo addetti ai lavori ma poco se ne parla nei media.Senza nessun pubblico dibattito e nella propaganda del populismo mass-mediatico, si sta
consumando per via amministrativa la così detta “riforma” della scuola superiore. La posta in
gioco è grossa, e riguarda tutta la cittadinanza perchè a partire dalla scuola si configura il
percorso che prenderà la nostra società e il mondo in cui si troveranno a vivere le generazioni
future. Ma, il progetto politico sotteso a tutta l’operazione potrebbe essere soltanto l’immobilismo
sociale a vantaggio dei bene-nati.
_ In un silenzio indicativo e assordante della stampa, dell’intellighenzia del nostro Paese e -per
buona parte- dello stesso mondo della scuola, si sta consumando il destino di una parte consistente
del nostro sistema di istruzione. Nessuno parla dei regolamenti che vanno a costituire la trama su
cui si articolerà la cosiddetta “riforma” della scuola superiore; probabilmente quasi nessuno li ha
letti. I rari quotidiani che se ne sono occupati lo hanno fatto in maniera pedestre, approssimativa.
È un mondo da indagare, quello relativo al {{rapporto tra media e scuola}}. Perché ormai la
percezione che gran parte della scuola ha di se stessa transita attraverso i media, che tendono ad
occuparsene attraverso fotografie “ad effetto”, affidandosi allo scandalo (il bullismo, il
fannullonismo) o ai totem tecnologici (e-book, Lavagna Interattiva Multimediale), consegnando
l’argomento ad ospiti spesso reclutati dal mondo dello spettacolo, assegnando pezzi a cronisti che
hanno definitivamente dismesso la cifra dell’inchiesta o le cui scarse competenze sul mondo
scolastico impediscono di centrare i problemi nevralgici che pure investono la scuola italiana. Ai
quali il governo sta fornendo risposte sbrigative e sommarie, dilettantesche e appunto di facile
impatto mediale.

Parlare del futuro assetto della scuola superiore ad un pubblico non necessariamente esperto è
difficile. Si rischia di entrare nel tecnicismo, di non condividere il codice. Lo sforzo sarà qui quello
di {{individuare concetti ordinatori che consentano di sottolineare il progetto politico che c’è alla base
di tutta l’operazione}}. Che riguarda tanto noi insegnanti quanto qualsiasi cittadino, di qualunque età.
Perché configura il percorso che prenderà la nostra società e il mondo in cui si troveranno a vivere
le generazioni future. {{I principi e i disvalori a cui quella società farà riferimento}}. Il concetto di
cultura e di cittadinanza che la permeerà.

I regolamenti assecondano {{la deriva di disinvestimento economico e soprattutto culturale che ha
caratterizzato le politiche scolastiche negli ultimi anni}}: in sostanza, la dismissione della scuola della
Costituzione, con il suo valore intrinseco di pensiero emancipante, laico, pluralista; di strumento
dell’interesse generale; di promozione e tutela di diritti collettivi e individuali esigibili; della crescita
in termini di uguaglianza, di pari opportunità, di disconferma di destini socialmente determinati.

{{Genesi.}} L’articolo 64 della legge 133/08 (“Contenimento della spesa per il pubblico impiego,
Disposizioni in materia di organizzazione scolastica”) recita al comma 3: “per la realizzazione delle
finalità previste dal presente articolo il ministro dell’Istruzione e quello dell’Economia
predispongono un piano programmatico di interventi” e al comma 4: “per l’attuazione di quel piano
devono essere adottati entro 12 mesi “uno o più regolamenti”. Lo stesso art. 64 prevede il taglio di 8
miliardi di euro tra il 2009 e il 2011, taglio le cui vittime più clamorose sono i 140.000 tra
insegnanti e personale Ata che hanno perso o perderanno definitivamente il diritto al lavoro per il
quale si sono formati. Insomma, {{i regolamenti che stanno alterando impianto, architettura, funzione
della scuola superiore partono da un criterio di “razionalizzazione” delle spese}}. Un punto di vista
certamente originale per motivare una “riforma” di un segmento della scuola, per lo più
particolarmente problematico.

{{Demagogia.}} Ci sono alcune parole che sembrano inverare defintitivamente concetti, esprimendo
in realtà semplici intenzioni (peraltro spesso a fine esclusivamente demagogico o di maniera). Ne
troveremo altre, in questa rapida carrellata della triste idea di scuola che i regolamenti convogliano.
Intanto fermiamoci su una, cara a tanti perché richiama pratiche ormai inconsuete, quelle della
democrazia. Si tratta della{{ parola “ascolto}}”. Il 18 dicembre del 2008, un anno fa circa, quando per la
prima volta l’emanazione dei regolamenti delle superiori fu bloccato, si giustificò lo stop repentino
attraverso questa formula suggestiva, che non ha avuto però alcuna ripercussione pratica nelle
successive procedure adottate dal Governo: {{l’ascolto degli interlocutori}}. Non solo, tuttavia, il mondo
della scuola è stato tenuto completamente lontano nel merito; ma anche gli organismi preposti ad
esprimere pareri obbligatori sui regolamenti -come il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione
(CNPI) e la Conferenza Unificata Stato-Regioni- sono stati ignorati, nonostante (o forse proprio
perché) le formulazioni fossero drasticamente critiche nel primo caso, sostanzialmente critiche nel
secondo. I regolamenti hanno serenamente continuato il proprio iter, senza incertezze, senza
mediazione, senza interlocuzione reale soprattutto con chi dovrà applicarli concretamente.

{{Procedure.}} In una recente nota del ministero si esplicita la necessità di svolgere le attività di
orientamento nei mesi di gennaio e febbraio: il termine delle iscrizioni viene posticipato di un mese.
Questo perché -come lo scorso anno, nel caso della scuola primaria- la circolare sulle iscrizioni
configura una situazione non iure condito, ma iure condendo. Quello che viene previsto lì è infatti
un sistema scolastico che non c’è, se è vero -come è vero- che un provvedimento diventa efficace
legge dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Nel momento in cui scrivo i regolamenti
sono ancora presso le commissioni parlamentari, devono ricevere il parere del Consiglio di Stato,
essere approvati in seconda lettura dal Consiglio dei Ministri. Solo dopo potranno essere pubblicati.
L’abuso spregiudicato del decreto legge, la fondazione della norma attraverso provvedimenti non
legislativi -come una circolare ministeriale- rappresentano una consuetudine rispetto alla quale la
società civile -complice la disinformazione dei media- non sembra voler opporre resistenza.
_ Il mondo della scuola, anche per l’assenza di qualsiasi intervento da parte della opposizione (che
ormai, oltre a non proporre alternative, ha persino rinunciato a stigmatizzare le procedure adottate),
ha deciso di non prendere in mano il proprio destino, assorbendo più o meno passivamente accuse
di fannullonismo, incursioni sulla propria autonomia, sulla libertà di insegnamento e non
interessandosi della dimensione complessiva di quanto sta avvenendo alla scuola: la preoccupazione
è per lo più esclusivamente attinente a questioni legate alle sorti personali. {{Lo stesso problema del}}{{precariato tende ad essere rimosso dalla percezione collettiva}}, dimenticando, peraltro, che esso
rappresenta -oltre a drammi individuali e un indebolimento della qualità dell’offerta scolastica- un
costo notevolissimo in termini culturali ma anche economici che si spalmerà nel tempo sulla
società.

{{Impianto culturale}}. L’idea di scuola che ogni governo ha rappresenta un’idea di società. La
scuola Gelmini-Tremonti-Brunetta risponde ad una logica profondamente conservatrice, che rifiuta
qualsiasi confronto con la complessità e la diversità che sono le cifre costitutive del nostro tempo.
Ma, d’altra parte, l’unico senso realmente culturale che dall’architettura configurata dai regolamenti
si può cogliere (considerate le premesse precedenti) è quello di rafforzare una divaricazione
profonda su base sociale tra nati bene e parti deboli della società. Di rinvigorire parole d’ordine di
stampo autoritario e demagogico, che occhieggiano a un bisogno di sicurezze cui una parte
dell’elettorato sembra anelare e che hanno trovato in facili semplificazioni come il voto numerico, il
maestro unico, il voto in condotta e persino il grembiulino i propri simboli rassicuranti. Di ribadire
un antisessantottismo isterico e strumentale, cavallo di battaglia di chi di fatto rifiuta una
dimensione realmente inclusiva dal punto di vista socio-culturale della scuola pubblica.
_ {{L’assetto proposto}} è costituito apparentemente da 12 licei, 11 istituti tecnici e 6 professionali. È
indubbio che sia l’istruzione tecnica che quella professionale sono state negli scorsi anni frazionate
talvolta in maniera eccessiva. Ma la “semplificazione” in sé -un altro dei totem linguistici- non
necessariamente rappresenta una risorsa culturalmente significativa. Da un punto di vista teorico,
l’impressione è che -per fornire risposte efficaci- il sistema dovrebbe essere piuttosto
“complessificato”. La {{semplificazione}}, infatti, penalizza soprattutto le parti più deboli e fragili del
sistema. Quelle in cui occorre la massima disponibilità ad accogliere esigenze, istanze, bisogni.
Nella semplificazione si sanno muovere bene solo coloro che hanno elementi esterni cui fare
riferimento. La semplificazione è omeostasi, rigidità, impermeabilità. Non si può pensare, ad
esempio, di fornire risposte ad un problema come la dispersione scolastica semplificando. Da un
punto di vista pratico, poi, molti indirizzi -specie nel settore dell’istruzione tecnico-professionalerispondevano
a specifiche esigenze e vocazioni territoriali che ora -in base ai nuovi ordinamentiverranno
totalmente ignorate. Fatto ancor più grave, se si pensa che la consistente quota di
flessibilità prevista dal III anno per quel segmento dell’istruzione superiore verrà gestita non
secondo i criteri previsti dall’autonomia, ma riempita da una serie di subindirizzi definiti a livello
nazionale.

{{Taumaturgia delle parole}}. Tutta l’operazione si è svolta puntando dunque sul concetto di
semplificazione e razionalizzazione. Sono state sciorinate cifre -nazionali e internazionali- spesso in
termini addirittura indignati, che raccontavano il fallimento della scuola italiana, la sua inefficacia,
la necessità di intervenire per porre fine a sprechi, dissipazioni, oneri inutili. Hanno insistito in via
preliminare sul numero esuberante degli indirizzi, sulla necessità di sfrondare dal sistema quelli non
necessari. Di fatto l’impressione (solo quella, dal momento che ancora nulla è definito) è che
l’architettura che si configura non si discosterà di molto da quella precedente in termini di
declinazione di indirizzi e sottoindirizzi.
_ La premessa d’obbligo è che il vigente (sì, ancora vigente) sistema di istruzione superiore non è
certamente il migliore dei mondi possibili. Da tempo si avverte da più parti la necessità di porre
mano a questo segmento, in un vuoto generale di propositività, a dire il vero. Il pericolo che fosse
proprio questa destra per gran parte incolta a mettere mano alla revisione dell’architettura scolastica
è stato propiziato dalla definitiva rinuncia ad ogni forma di elaborazione da parte di una sinistra che
pure in questo settore ha segnato in passato tappe fondamentali in termini di progresso e di crescita.
L’egemonia -oltre che politica, culturale (sic!)- sembra definitivamente essere passata a chi ha
numeri in Parlamento e arroganza sufficiente per mettere mano ad un settore così complesso del
Welfare con una approssimazione e una spregiudicatezza a dir poco sconcertanti. Il CNPI ha
sottolineato più volte -definendo il proprio parere- la discrasia totale tra le affermazioni contenute
nei regolamenti e la loro fattibilità. Alcune di queste incoerenze rappresentano gli indicatori più
significativi del modo in cui la cosiddetta riforma della scuola superiore trovi motivi, ragioni,
finalità molto lontani dal concetto di scuola della Costituzione.
_ L’impressione è che la fretta e l’implacabilità con cui si sta procedendo siano motivate dalla
necessità di licenziare un contenitore vuoto nel quale verranno a mano a mano inseriti contenuti, a
colpi di decreti a posteriori, dopo la chiusura delle iscrizioni. E che assolvano all’obiettivo
prioritario: quello di ridurre la scuola pubblica italiana a capitolo di risparmio nel bilancio
nazionale.

{{Incertezza del diritti}}. Diritti inalienabili, come quello al lavoro e quello allo studio, sono un
optional: il piano di confluenza dei nuovi indirizzi risponde a logiche automatiche di conversione, e
non ad un’oculata programmazione territoriale dell’offerta formativa. Le scuole dovranno
programmare e organizzare la propria proposta educativa dopo la conclusione delle iscrizioni.
Rimangono tuttora sospesi alcuni nodi non indifferenti: il testo parla di un coinvolgimento delle
classi I e II (anche delle III e delle IV per quanto riguarda la revisione degli orari al tecnico),
sebbene voci insistenti limitino l’intervento alle I classi. Elemento non di poco conto: oltre al
potenziale coinvolgimento di alunni che hanno iniziato il primo anno con un determinato
ordinamento e si vedrebbero catapultati improvvisamente, all’inizio del prossimo anno scolastico,
in una realtà differente, c’è il problema della valutazione in tempi incongrui del soprannumero negli
organici. Analogamente, come si è detto, gli ampi spazi di flessibilità previsti per il II biennio
dell’istituto tecnico verrano occupati da subindirizzi e opzioni determinati a livello nazionale che
non sono declinati nei regolamenti e andrebbero a costituire una “sorpresa” da scoprire in corso
d’opera per quanti si iscrivessero quest’anno.

{{Tempo scuola}}. Il riordino delle superiori – avendo come premessa il taglio di posti di lavoro –
limita drasticamente il tempo scuola. Tutti i licei (tranne l’artistico) verranno ricondotti a 27 ore
settimanali al biennio. Tutte le sperimentazioni sono di fatto annullate. Colpisce la capacità di chi ci
governa di andare ad incidere -come avevano fatto nella scuola primaria nel caso team-maestro
unico- sui luoghi di esercizio della collegialità. Questa prerogativa, piuttosto ignorata nella scuola
superiore, trova uno spazio maggiore proprio nelle sperimentazioni. Di contro, sbandierano alcune
novità: ad esempio, lo studio della lingua inglese al classico per 5 anni. Riferendosi solo agli
ordinamenti tradizionali -che in realtà ormai sono applicati da una parte minima dei licei- fingono
di non sapere, ad esempio, che l’80% delle sperimentazioni attualmente vigenti in quel liceo
riguardano proprio questa possibilità. O che il 55% dei licei scientifici sono PNI (Piano Nazionale
Informatica) e il 23% sperimentano il bilinguismo. L’istruzione tecnica e professionale passa poi
dalle 36 alle 32 ore settimanali.

{{Esercizi di stile.}} Tra il dire e il fare…, recita un vecchio adagio. Saltando qua e là tra i
regolamenti emergono alcuni fulgidi esempi del modo rigoroso e professionale con cui sono stati
elaborati. Alla quota di flessibilità del 20% per i licei sarebbe destinato un contingente di organico
per “potenziare gli insegnamenti obbligatori, fermi restando gli obiettivi finanziari art.64 della legge
133/08”: vale a dire -se è chiaro quanto è stato affermato in precedenza- nulla. Per la “didattica
laboratoriale”, questa formula suggestiva e promettente, citatissima e persino declinata nelle sue
finalità (“ricostruzione, integrazione e conservazione delle conoscenze; Osservazione e scoperta di
aspetti culturali; Strutture sintattiche e logiche delle materie di insegnamento “) non è prevista
alcuna risorsa. E l’ambiguità con il concetto di “laboratorio” è palpabile. Ore di laboratorio che -a
loro volta- vengono tagliate del 30% nei tecnici: disconoscendo totalmente quanto affermato dalla
commissione De Toni che ne aveva fatto elemento “strategico”. Insegnamento di una materia in
lingua straniera, cittadinanza e Costituzione (con tutti i rischi relativi alla canalizzazione di una
“pedagogia di Stato”), liceo musicale sono evidentemente insegnamenti e progetti che si attiveranno
senza prevedere alcuno stanziamento: del tutto assenti, infatti, le previsioni di spesa e la fattibilità
reale.
Ma l’elemento stilisticamente più significativo, profondamente rivelatore di un’idea
dell’istruzione classista e asfittica, si evidenzia nella sezione dedicata ai “{{profili” culturali}}. I profili
del liceo hanno l’obiettivo di “fornire ai giovani gli strumenti culturali e metodologici per una
comprensione approfondita della realtà”; mentre quelli dell’istruzione non liceale sono descritti e
organizzati riferendosi a “risultati di apprendimento declinati in competenze spendibili”. Ed è
evidente -nella sottolineatura della anacronistica {{divaricazione tra “sapere” e “saper fare”-}} un
impianto che sconfessa definitivamente la possibilità che la scuola rappresenti realmente uno
strumento volto a “rimuovere gli ostacoli”, come recita la nostra Costituzione. Quella divaricazione
rappresenta l’immobilità di un sistema sociale che si vuole mantenere tale. La scuola, “ascensore
sociale” nelle intenzioni dei costituenti e nelle pratiche della scuola democratica di una felice
stagione ormai lontana, diventa addirittura lo strumento attraverso il quale il sistema sociale
immobilizza se stesso. Basta dare uno sguardo ai dati sulla dispersione, sulla dissipazione culturale,
sul ritardo. Basta valutare le provenienze socio-culturali di chi frequenta il liceo e di chi gli altri
settori della scuola superiore per comprendere come il nostro Paese abbia definitivamente
rinunciato al concetto di cultura emancipante.

{{
Biennio divaricato.}} È nel modo in cui i regolamenti conformano il biennio che si concretizzano
soprattutto la triste scuola Gelmini e la sconfitta -occorre dirlo forte e chiaro- delle politiche
scolastiche di chi l’ha preceduta. La nuova scuola superiore della Gelmini cancella qualsiasi
possibilità di biennio unitario. Non esistono chance di passaggio tra liceo e istruzione tecnica e
professionale, e neppure tra liceo e liceo. La scelta viene non solo canalizzata precocemente
(l’obbligo scolastico, come vedremo, è un’altra delle promesse definitivamente tradite), ma viene
immobilizzata attraverso l’annullamento persino di quelle “passerelle” che avevano costituito la
demagogica trovata della Moratti, traducendosi sempre e solo in passaggi dall’istruzione liceale a
quella non liceale, mai viceversa. Concentrando e confinando così nel canale dell’istruzione tecnicoprofessionale
la parte più critica dell’utenza scolastica. Dal prossimo anno nemmeno questo sarà
possibile: i fantasiosi curricola (con insegnamenti e classi di concorso definite eterogeneamente)
che sono stati declinati per i bienni bloccano a priori lo spostamento. E depotenziano un’idea forte,
democratica e inclusiva -un biennio articolato su quote e tipi di discipline obbligatorie e una quota
di indirizzo -che avrebbe potuto consentire un processo di elaborazione del mondo della scuola
sull’acquisizione di conoscenze e competenze comuni e omologhe per tutti i ragazzi di 15 anni, la
definizione di competenze trasversali, un profilo di uscita comune dal biennio che licenziasse,
qualunque ne fosse il destino (lavorativo o di studio) cittadini consapevoli, colti, critici, attrezzati in
maniera analoga ad affrontare attraverso gli strumenti offerti dalle discipline e la mediazione del
dialogo educativo gli impegni futuri. Nonostante questa drastica scelta, nei regolamenti – coerentemente con la pratica della taumaturgia della parola – si continua ad alludere alla
“valorizzazione degli intrecci tra gli assi culturali nel biennio”. Un’altra formula suggestiva, ma di
nulla praticabilità. Non esistono risorse aggiuntive destinate a questo scopo. Inoltre, in presenza di
tanti bienni differenti l’uno dall’altro, che non si parlano o che non possono parlarsi, articolandosi su
alfabeti dissimili, si accompagna il tramonto del progetto che il centro-sinistra ha proposto nella
scorsa legislatura in termini così blandi e poco convinti da preparare la strada a quanto in tempi
record stanno facendo Gelmini e i suoi.

{{Pseudo obbligo scolastico}}. Il primo atto del ministro Moratti fu la cancellazione dell’obbligo
scolastico innalzato a 15 anni da Berlinguer. Si sostituì -attraverso una manipolazione di concetti
che ha espresso nel tempo tutta la propria pericolosità- la formula diritto/dovere, che prevedeva
l’assolvimento dell’obbligo di “istruzione” (e non più scolastico, con un’abile gimkana semantica)
anche nei percorsi e progetti triennali, esternalizzando la prerogativa anche alle agenzie della
formazione professionale. La Finanziaria 2007 e Fioroni vincolarono a un criterio di transitorietà di
3 anni tale possibilità, dopo i quali l’obbligo sarebbe tornato ad essere competenza esclusiva del
sistema di istruzione statale. Inutile sottolineare che i tentennamenti erano dovuti alla necessità di
mantenere in vita un sistema economico -costituito dalle agenzie formative- su cui trasversalmente
permanevano interessi. E la proroga fu fatale. Nel luglio 2008, con un emendamento al decreto 112,
i percorsi triennali uscivano dalla sperimentalità per diventare definitivi: in essi è possibile
assolvere l’obbligo, nonostante il dettato costituzionale preveda l’assolvimento nel solo sistema di
istruzione che comprende le scuole statali e paritarie. Un’opportunità di crescita, di democrazia, di
cultura sprecata tra gli sguardi indifferenti di una società e di un mondo della scuola che non hanno
mai riconosciuto realmente questa funzione all’innalzamento dell’obbligo scolastico. Per chi, come
me, fa riferimento alla scuola militante e ha avuto l’opportunità di partecipare a iniziative, convegni,
audizioni, risulta evidente il gap tra dibattito teorico e reale coinvolgimento della scuola, che
sembra aver rinunciato (non del tutto immotivatamente, considerata l’assenza della politica) ad
assumersi in prima persona l’interesse di partecipare al dibattito e all’elaborazione. Si tratta di un
paradosso che può in parte spiegare la rassegnata inerzia che sta caratterizzando questi mesi
precedenti all’approvazione dei regolamenti.

{{Frantumazione del sistema scolastico nazionale}}. Il mandato costituzionale della scuola si fonda
su un principio di unitarietà. Si tratta di un elemento che garantisce i cittadini italiani sia sulla base
di alcuni assunti inviolabili (art. 3, ad esempio) sia sulla base degli effetti che la sua applicazione
produce in termini di possibilità, opportunità, di interpretazione autentica e di garanzie soggettive e
collettive. Si pensi, ad esempio, agli effetti sulla spendibilità del titolo di studio. La rottura di questo
principio è evidente soprattutto nell’ambito dell’istruzione professionale, ma non solo. Con la
revisione del titolo V e la titolarità delle regioni di questo segmento della scuola superiore, si
configurerà un sistema scolastico a geografia variabile, dove la massima variabilità toccherà il
segmento più debole, cioè quello dell’istruzione professionale. E del resto la sperimentazione già in
atto dallo scorso anno scolastico nella regione Lombardia parla chiaro rispetto alle differenti
declinazioni che esso potrà avere sul territorio nazionale, con ricadute non indifferenti non solo sui
diritti immediatamente esigibili, come il diritto allo studio, ma sulla spendibilità del titolo in uscita e
sulle conseguenze a livello europeo che l’eterogeneità potrà determinare. D’altro canto, la scelta
stessa di procedere al riordino dell’istruzione tecnica prima di quella professionale ha dichiarato una
volontà di spostare ulteriormente in posizione residuale la seconda, non individuando nella
valorizzazione dell’interazione tra i due settori un elemento di fortificazione del sistema. C’è inoltre
da sottolineare (art. 8 del regolamento) la mancanza al momento attuale di “specifiche intese tra
Miur, Economia e Regioni per la sperimentazione di nuovi modelli organizzativi e la gestione degli
istituti professionali, anche in relazione all’erogazione dell’offerta formativa”. {{Come si farà a far
partire il progetto il 1 settembre del 2010?}} Il titolo di uscita è erogato solo alla fine dei 5 anni del
percorso, salvo accordi con le regioni. Anche l’articolazione del segmento si prospetta come
variabile: a un’articolazione 2+2+1 può sostituirsi un 2+1+1+1 in regime di sussidiarietà per il
rilascio di qualifiche professionali, di cui non esiste però un repertorio nazionale. La quota di
flessibilità nei professionali (40% al V anno) rischia di tradursi in 17 ore settimanali di vera scuola,
con percorsi non addestrativi.

{{Privatizzazione vs autonomia.}} Il riordino dei cicli prevede la costituzione di un comitato
“tecnico-scientifico” nei tecnici e professionali costituto pariteticamente da docenti e da
rappresentanti di aziende e professioni; comitato solo “scientifico” – noblesse oblige- nei licei, che
evidentemente non devono in alcun modo intaccare il proprio pedigree con ibridazioni contaminate
da ciò che viene percepito come inferiore, la tecnica, il saper fare. Tra le prerogative del comitato ci
sarà quella di organizzare le aree di indirizzo e la flessibilità oraria. È esplicitamente contemplata la
possibilità di ricorrere a esperti esterni delle aziende per materie tecniche e tecnico-pratiche. Per
quanti si preoccupavano della sorte del disegno di legge Aprea, la{{ ratio di smantellamento degli
organi collegiali}} e di apertura senza riserve della scuola dello Stato non solo all’interlocuzione, ma
all’ingerenza pesante dell’esterno è parcellizzata in interventi che fanno capo ad altri provvedimenti.
Uno è, appunto, l’istituzione del comitato (tecnico)scientifico, i cui rischi di sovrapposizione con il
collegio docenti e i dipartimenti sono evidenti. E il Dpr 275/99 che norma l’autonomia scolastica?.
Quanto questo governo abbia a cuore l’autonomia scolastica nella sua interpretazione meno
mercantilistica e più culturale è evidente da molte delle cose che sono state dette in precedenza. In
questo contesto -soprattutto nell’istruzione tecnica e professionale- il diktat di correlare
esclusivamente alle esigenze delle aziende il ruolo formativo ed educativo della scuola (che avranno
evidentemente il proprio incentivo a esercitare un’egemonia direttiva, specie negli ambiti di
maggiore sviluppo e dove le Regioni daranno maggiore carta bianca) non appare una
preoccupazione fuori luogo.

{{Una domanda, infine}}. L’ultima revisione delle classi di concorso ha richiesto 5 anni. Quella
attuale, motivata dalla necessità di contrarre e aliena da qualunque progettualità culturale, sarà
partorita in tempi utili per far partire il riordino, non solo senza ascolto, ma senza alcun tipo di
rispetto per i tempi di determinazione di organici, mobilità, ecc.
Le competenze in uscita degli studenti non sono declinate in alcun modo, probabilmente nella
consapevolezza che comporre dei profili unitari risulterebbe impossibile, considerato il farraginoso
ed eterogeneo puzzle che sono riusciti a configurare.

{{I tagli non riguardano solo l’architettura dei segmenti del sistema scolastico e i posti di lavoro}}, ma
la sicurezza degli edifici, l’integrazione dei migranti, la lotta alla dispersione scolastica, il sostegno
alla didattica e molti altri elementi qualificanti. Questi punti si aggiungono ai precedenti a
configurare un quadro di violazioni, abusi, illegittimità, improvvisazione, dilettantismo, cialtroneria
e una assoluta mancanza di considerazione per il diritto allo studio e per il diritto dei docenti ad un
lavoro culturalmente ed eticamente significativo. Ce n’è abbastanza per tentare di scuoterci
dall’inerzia e praticare un consapevole e democratico esercizio della disobbedienza?