Venezia, Ponte dell’Accademia, oggi, ore 7, 55 del mattino. Salgo i gradini mescolandomi, come al solito, a gruppi di ragazzini che stanno dirigendosi verso la vicina scuola media.

Due di questi, piccoli – forse hanno appena undici anni e frequentano la prima – proprio davanti a me discutono animatamente sulle lezioni da fare per i prossimi giorni e non concordano su alcuni compiti in programma. Quello che mi precede alla mia sinistra sbotta infine nei confronti dell’altro: «ma sei recchione?» e prosegue riconfermando la sua idea di quali siano le consegne di studio assegnate dalla professoressa di italiano.

Sobbalzo: {{“recchione”}} – già sgradevole – qui è {{usato come sinonimo di stupido, sciocco. }} Tra l’altro non è espresso in dialetto veneziano, che si sarebbe tradotto in un «ma ti xe recion?» ugualmente offensivo, certo, ma forse proveniente da una maldestra padronanza del vernacolo e da una scelta poco oculata tra altre espressioni in voga nella lingua corrente locale come «ma ti xe goldon». Tutte frasi che, va da sé, lasciano molto a desiderare sul piano dell’eleganza formale e sostanziale; inoltre abbondano di terminologia sessuale che se è deprecabile negli adulti tanto più sono fuori posto in bocca a un ragazzino.

Ma qui la lingua batte dove il dente duole, si potrebbe dire. Pronunciato in italiano con un evidente sforzo di trasposizione da un registro basso a uno ‘alto’, «recchione» assume {{una gravità e una serietà di giudizio }} che il dialetto neppure si immagina o pretende.
E così mi spavento. {{Questo slittamento semantico da sciocco a omosessuale in bocca a un ragazzino che cosa vuole dire?}}

Subito mi arresto e penso – ora lo fermo e con gentilezza gli faccio presente che cosa ha detto e gli chiedo se conosce il significato di quella sua espressione – poi mi viene il dubbio, piuttosto fondato, che stia solo ripetendo frasi ascoltate a casa, {{frasi di uso talmente corrente da usarle in automatico,}} senza innescare il cervello. E così rinuncio, sconfitta, lascio perdere – la sindrome non sparate sul pianista (il bambino, ovviamente) mi afferra e proseguo la mia strada, con l’amaro in bocca.

Adesso penso che dovevo provarci. Domani, ricapitasse, ci proverò.
Forza,{{ proviamoci tutte}}, con tatto e senza l’aria di professoresse con la matita rossa e blu, ognuna trovando il modo giusto per sé. Ma proviamoci! Noi ne sappiamo qualcosa di slittamenti semantici…