La negazione della soggettività e dell’autodeterminazione delle donne è il filo rosso che lega i recenti attacchi alla legge 194 e il modo in cui viene affrontato il tema della violenza sessista.L’8 marzo scorso una manifestazione di donne e lesbiche ha rumorosamente portato in giro per le vie di Roma la convinzione che la violenza sessista abbia molte facce. Molte più facce di quelle tutto sommato tranquillizzanti – perché altre, lontane, episodiche – che ci rimandano il dibattito politico e i media. Alla base di quella manifestazione, e della riflessione di tante femministe, stava e sta la convinzione che {{il cuore della violenza sessuata sia nelle relazioni tra uomini e donne}}, che questa non sia solamente quella fisica, né solamente quella di un singolo uomo su una singola donna, ma soprattutto l’idea che la violenza sulle donne sia come minimo {{autorizzata}}, se non proprio generata, da {{un sistema che in mille forme nega la soggettività e la capacità di autodeterminazione delle donne, facendone corpi docili e quindi appropriabili}}.

È per questa ragione che c’è {{un filo rosso}} che unisce la rabbia per i continui attacchi all’autodeterminazione delle donne – declinati ultimamente nel dibattito sulla revisione o sul “superamento” della legge 194 – a quella per la crociata mediatico-politica sulla sicurezza, in particolare sulla sicurezza delle donne. Su quest’ultimo argomento la prima sensazione è la spontanea indignazione per l’uso strumentale che si fa del tema della violenza contro le donne per giustificare una serie di {{provvedimenti tanto razzisti}} – l’individuazione di “categorie pericolose” avviene in molti casi su supposte basi “etnico-razziale” – {{quanto inutili e ridicoli}}.

È ormai noto a tutti/e, lo si è ripetuto fino all’esaurimento, che la violenza contro le donne è attuata principalmente da uomini vicini: mariti, compagni, padri. È chiaro dunque che la ricerca di “categorie pericolose” è impossibile:{{ il cuore della violenza sta nei rapporti tra uomini e donne, è alle fondamenta della società}}.

Questo mette in luce, però, un secondo problema, e ben più grave. Lo spostamento del problema della violenza sulle donne {{“fuori da sé}}”, implicito nell’idea di trattare il tema come una questione di ordine pubblico, è non solo{{ mistificante}}, ma anche {{pericoloso.}}

La {{logica securitaria}} torna ancora una volta a tentare di convincerci che la violenza sulle donne è opera di mostri – possibilmente pazzi, poveri e immigrati – perché questo permette di non rimettere in discussione la società, e anzi di accrescere la logica della “tutela”, che significa ancora una volta non riconoscimento della soggettività e della capacità di scelta delle donne. E il mantenimento dello status quo implica la difesa esclusivamente di chi in esso è integrato (le prostitute, per esempio, non sono anche loro donne? O si devono difendere solamente le prostitute che “fanno le brave” e “svolgono la propria funzione” lontano dagli occhi?).

A questa logica è inoltre sottesa l’idea che l’unica sicurezza sia nella conservazione di quest’ordine (nella tutela del “decoro”, termine ormai liberamente sostituibile a “sicurezza”): chi lo sfida con la propria autonomia o, addirittura, osa proporne la trasformazione, è un nemico, o meglio un nemica, e deve essere normalizzato/a.

{{La ribellione contro gli attacchi alla 194 – o la rabbia per la mancata abrogazione della legge 40 – non è distinta da tutto questo}}. Sostenere che le donne non possano decidere se portare o meno a termine una gravidanza (senza qui avventurarci a parlare della necessità di ridiscutere la sessualità) significa farne simbolicamente e praticamente dei {{corpi docili alla “propria funzione”}} (questa, sì, “decorosa”), corpi pubblici e quindi liberamente appropriabili. Significa sostenere che le donne non possano (per naturale incapacità?) decidere del proprio corpo, figuriamoci delle “Vita”. Il problema della violenza sulle donne non può essere affrontato senza mettere in discussione quest’idea, continuamente ribadita anche da quelle istituzioni, maschili nelle forme e nei fatti, che ci vorrebbero “tutelare”, ma continuamente la ribadiscono.

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