Spetta solo a una politica delle donne e a una psicanalisi dell’avvenire – la ridefinizione dei termini e del senso di una relazione complessa, contraddittoria e irriducibile ad accostamenti e suggestioni occasionali un po’ troppo disinvolti per non risultare pericolosi.In [Femminista non si può dire->http://ciaomondoyeswecan.myblog.it/archive/2011/03/14/lea-melandri-femminista-non-si-puo-dire.html], Lea Melandri, intervistata da Barbara Bertoncin, ricorda una frase pronunciata da Rossana Rossanda negli anni di fuoco del femminismo, che ben misurava la temperatura e il senso dell’essere, allora, femministe : “{Sono andate nelle lande più deserte, persino nell’inconscio}” – diceva delle donne – e a quel “{{persino}}” va dato il peso che merita.
_ A dire di un’operazione di radicale scardinamento di un ordine di pensiero costituito, obbediente a paradigmi, codici e dispositivi contrabbandati per uni-versali, a dire di una profonda rivoluzione culturale avviata dalle donne negli anni ’70.

Leggendo l’articolo, il pensiero ha preso la corsa virando, per via associativa, a un nesso plausibile fra l’enunciato di Rossanda e una celebre frase di Freud riguardante la sua invenzione, le turbolenze connesse con la “scoperta” dell’inconscio” e con il suo potere destabilizzante: “{Abbiamo portato la peste}” – scriveva – alludendo alla paura di perdita di padronanza dell’Io dovuta allo sradicamento di una ratio – quella della coscienza – a favore di un’altra – quella dell’inconscio che Zucal, nella sua lettura di Zambrano, collocherebbe probabilmente sul versante del “sacro”.
_ E ancora: “Si Superos nequeo, Acheronta movebo”: un desiderio, un progetto, una promessa, una minaccia…

Le donne, in effetti, l’Inferno l’hanno mosso – come Freud, diversamente da Freud, – anche se a legare e a scindere femminismo e psicanalisi c’è di mezzo, da sempre, un mondo di paradossi e di contraddizioni insolute che attendono di essere esplorate.
_ Già solo nominare l’ “inconscio” significa riconoscerlo non tanto sul piano dell'{esistenza} – lo statuto dell’inconscio è etico e non ontico (Lacan) e Freud ne parla soltanto in termini di “ipotesi” – ma sul piano degli effetti imprevisti e sorprendenti prodotti, a sua insaputa e suo malgrado, sul soggetto.

Il riferimento di Rossanda all’inconscio, a quel {Luogo per giungere al quale le donne avrebbero attraversato le “lande più deserte”}, è uno fra i tanti che incontriamo dislocati, qua e là, in diversi contesti discorsivi femminili e femministi antichi e nuovi in cui l’interesse e l’attenzione al rapporto fra femminismo e psicanalisi, critici o inclini alla benevolenza che siano, restano una presenza, segnata, nondimeno, da quel mondo di contraddizioni insolute.

La frequenza con cui il fenomeno si riscontra – in forme, a dire il vero, per lo più vaghe e fugaci come quando si allude un po’ troppo ottimisticamente a “un intreccio virtuoso e complesso fra la politica delle donne e la psicanalisi” (Lanfranco) o quando viene riconosciuto al femminismo il merito di aver individuato in un ordine simbolico segnato dal primato fallico la causa di certe forme di oppressione (Guaraldo) – va messa in conto a una certa “familiarità” con l’inconscio, vorrei dire a un certo grado di con-fidenza con esso, certamente più congeniale alla condizione-posizione-inclinazione femminile, al modo stesso delle donne di pensare e di pensarsi, di stare al mondo.

Significativo al riguardo e al di là delle intenzioni dell’autore – caparbiamente convinto che ad abitare Terra sia un genere unico maschile singolare – è il titolo del libro {L’uomo senza inconscio}.

A raccontarci, invece, di una “familiarità” femminile con l’inconscio, è la disponibilità delle donne a confrontarsi con l’esperienza psicanalitica, incomparabilmente maggiore rispetto alle resistenze riscontrabili nei maschi per i quali i luoghi privilegiati di “sublimazione” delle loro tensioni sembrano essere gli squallidi viali di periferia. Investire sulle prostituite assegnando loro ruoli immaginari appartenenti ad altre/i e sbobinare storie di alcove infelici mescolate ad ansie quotidiane, risulta talvolta per gli uomini persino più importante di una prestazione sessuale – lautamente pagata senza consumo.

Si fa strada il sospetto che la prostituzione rappresenti per gli uomini la cura di genere maschio a loro più congeniale, una cura a misura di un uomo senza inconscio – appunto. A prendere corpo, è l’ipotesi che l’assenza conclamata dei maschi dai luoghi tradizionali della “cura”, sia strettamente collegata all’ abuso di questo “psicofarmaco” alternativo e normalmente utilizzato per sedare angosce, combattere depressioni, allontanare insopportabili vissuti d’ impotenza.

Sta di fatto che quando c’è di mezzo l’inconscio, vale sempre la pena di ripercorrere le vie solo parzialmente indagate e forse utili a ri-pensare, nell’attuale, il rapporto fra psicanalisi e femminismo, due esperienze diverse ma non incompatibili, tra cui Juliet Mitchell provò a stabilire una connessione in tempi già lontani, all’interno di un quadro sociale e politico assai diverso, con la pubblicazione di un suo libro dedicato all’argomento.

Basta voltarsi un po’ indietro, per comprendere che senza una certa familiarità e con-fidenza delle donne con l’inconscio, la pratica dell’autocoscienza diffusasi negli anni ’70 non avrebbe mai visto la luce, non avrebbe mai promosso la formazione di gruppi esclusivamente femminili, non avrebbe mai trasformato quei luoghi d’incontro in un’ opportunità per avviare, una forma di “terapia” centrata sul “partire da sé”.

Le virgolette riferite all’aspetto terapeutico, sono d’obbligo se si tiene conto del fatto che moltissime donne che frequentavano quei gruppi, lacerate dagli esiti inevitabilmente destabilizzanti dell’esperienza dell’autocoscienza, continuarono i loro percorsi affidandosi, per portarli a termine, alla competenza dei “professionisti della psiche” che si andavano già moltiplicando sul mercato.

Ebbene, in una prospettiva di ricerca di senso e di significato di questo trasferimento (transfert) di molte donne dai gruppi di autocoscienza al setting psicanalitico – un passaggio non indolore da un’esperienza a un’altra – potremmo chiederci che cosa ne sia stato delle giuste aspirazioni rivendicate da quelle donne dopo anni di “cure” psicanalitiche fondate su teorie scritte da uomini il cui impianto fallocratico rende di per sé discutibile e quanto improbabile ogni pretesa di “cura” e di “guarigione” per entrambe i sessi.

Quale che sia stato l’esito finale derivante dal genere di “cure” loro prestate, a dissipare ogni equivoco sull’ autocoscienza cui aspiravano i gruppi femministi, sulla sua incompatibilità e distanza dall’autocoscienza di matrice hegheliana e dalla dialettica servo-padrone di stampo maschile, è sufficiente ripercorrere alcuni passaggi del libro di Carla Lonzi Sputiamo su Hegel.

Eppure, sempre a proposito del rapporto fra psicanalisi e femminismo, se è vero che la maggior familiarità delle donne con l’inconscio è una caratteristica femminile – confermata, peraltro, dalla stessa psicanalisi che per voce dei suoi adepti si riconosce debitrice della propria nascita “all’isteria”, una sofferenza, un tempo, tipicamente femminile – resta tuttavia improbabile che senza una ricerca rigorosa che scavi nel nesso fra pratica dell’ autocoscienza e pratica psicanalitica, fra femminismo e psicanalisi approfondendone affinità e differenze, tale nesso possa uscire dalla palude della genericità in un momento storico in cui, mai forse come ora, se ne avverte l’urgenza.

Una seconda ragione – trasversale – per farlo, è la presenza in Italia di un certo numero di gruppi di autocoscienza fondati e frequentati unicamente da maschi, ai cui sviluppi bisognerebbe guardare con attenzione soprattutto alla luce di alcune note critiche suggerite da Lonzi sul rapporto fra psicanalisi e femminismo in cui donne e uomini sono implicate/i.
_ Le luci e le ombre che incontriamo, diversamente distribuite, in alcuni enunciati di Lonzi in cui femminismo e psicanalisi appaiono talmente incompatibili e contrapposti che l’uno può prendere tranquillamente il posto dell’altra, possono servici da guida per avvicinarci al problema:

{Il femminismo, per la donna, prende il posto della psicanalisi per l’uomo. In quest’ultima l’uomo trova i motivi che rendono inattaccabile e scientifica la sua supremazia (…), nel femminismo la donna trovato la coscienza collettiva femminile che elabora i temi della sua liberazione}. (C. Lonzi, Sputiamo su Hegel, p. 72)

Semplificando: se il femminismo e la pratica di autocoscienza sono necessari alla liberazione della donna, la psicanalisi serve agli uomini (ammesso che se ne servano) a rafforzare la loro supremazia.
_ Se ne conclude implicitamente che, per ragioni diverse, la psicanalisi resta, per entrambe i sessi, una pratica poco raccomandabile ma con una differenza sostanziale: mentre per le donne il femminismo rappresenterebbe una sana alternativa alla psicanalisi, la sola mossa saggia e raccomandabile per gli uomini, consisterebbe nel rifiuto di sottoporsi a una pratica capace di renderli peggiori, se possibile, di quello che sono.
_ C’è autocoscienza e autocoscienza – spiega Lonzi – riprendendo e precisando la distinzione tra psicanalisi e femminismo:

{L’autocoscienza femminista differisce da ogni altra forma di autocoscienza, in particolare da quella proposta dalla psicoanalisi, perché riporta il problema della dipendenza personale all’interno della specie femminile come specie essa stessa dipendente. Accorgersi che ogni aggancio al mondo maschile è il vero ostacolo alla propria liberazione fa scattare la coscienza di sé fra donne (…) E’ in questo passaggio che viene fuori la possibilità dell’azione creativa femminista: è nell’affermare se stessa, senza garantirsi la comprensione dell’uomo, che la donna raggiunge quello stadio di libertà che fa decadere il mito della coppia per quanto aveva di tensione verso un essere da cui dipende il proprio destino}. (Ibid., p. 119)

Lonzi diffida – e come darle torto? – della psicanalisi.
_ A non convincerla è l’idea, illusoria, che la dipendenza della donna dall’uomo – un ostacolo alle sue potenzialità creative – possa trovare una felice soluzione attraverso l’individualismo promosso e fomentato dal setting piuttosto che all’interno di un quadro storico, antropologico, sociale e politico più ampio, in cui tale dipendenza – riconducibile a quella, più generale, della specie femminile in quanto tale – rientra a pieno titolo.

La visione di Lonzi è dunque una visione d’insieme, il suo sguardo non coglie solo l’albero ma abbraccia l’intera foresta di cui l’albero è parte (Benvenuto). Eppure, se è proprio questo approccio al problema a permetterle di vedere con lucidità i limiti di una “cura” dalla dipendenza affidata esclusivamente alla pratica individuale del setting, viene spontaneo domandarsi che cosa le abbia impedito di vedere, con altrettanta lucidità, il limite insito nella pratica dell’autocoscienza che il consistente numero di donne passate alla psicanalisi lasciava intravedere.

Se il passaggio dall’esperienza dei gruppi di autocoscienza al setting psicanalitico abbia poi facilitato le donne nel percorso di liberazione iniziato o abbia finito per sedare, ostruire o deviare il loro desiderio indirizzandolo verso altre mete, è una questione importante e delicata la cui risposta è indecidibile ma la prudenza, pur necessaria in questi casi, non rende meno lecito domandarsi in quale modo – o a quale prezzo – delle donne aliene da ogni compromesso, siano riuscite a conciliare una pratica autogestita di liberazione dall’oppressione maschile, con una pratica ispirata da una teoria di stampo fallocentrico notoriamente impermeabile alla discriminazione e alla violenza di genere.

Che cosa non ha funzionato o non poteva funzionare nei gruppi femminili di autocoscienza per rendere quel passaggio per molte donne obbligato? Quali ne sono stati gli esiti? E, ancora, quali potrebbero essere gli scenari futuri per i partecipanti ai gruppi maschili di autocoscienza attualmente esistenti, tenendo conto del fatto che il processo di trasferimento di molte donne dalla pratica dell’ autocoscienza al setting psicanalitico era avvenuto e maturato proprio all’interno dei gruppi caratterizzati dalla pratica del “partire da sé” cui gli uomini si sono successivamente ispirati?

Credo che il punto debole dell’ impostazione di Lonzi – sia l’opposizione duale fra femminismo o psicanalisi – e la sottovalutazione delle profonde ragioni del trasferimento di molte donne da una pratica all’altra – suggerisca una revisione di tale impostazione altrimenti riformulabile: Quale psicanalisi? Quale femminismo?

Se la prima domanda allude alla necessità di un radicale ripensamento della teoria e della pratica psicanalitica in un’ottica di genere – in assenza del quale parlare di un rapporto fra psicanalisi e femminismo sarebbe del tutto infondato – la seconda è decisiva per avviare un’analisi e un confronto a tutto campo su ciò che oggi rimane del femminismo e sulle strade da prendere.

Queste strade non possono più essere quelle della rimozione, della non consapevolezza, del misconoscimento e della mancata elaborazione, da parte di molte donne, dell’azione della pulsione distruttiva che abita e inconsciamente lavora anche all’interno dei gruppi femminili-femministi.

Non c’è Evento, neppure la grande Manifestazione del 13 Febbraio Se non ora quando? che abbia il potere reale – non magico, non fantasmatico – di colmare il vuoto di un deficit elaborativo relativo al riconoscimento della presenza e dell’azione distruttiva della Todestrieb il cui potere negativo consiste nel far morire sul nascere ogni nuovo inizio trasformandolo in un inizio precluso in partenza. C’è dunque molto lavoro da fare.

Femminismo e psicanalisi lungi dall’ essere due esperienze incompatibili, sono nati per nutrirsi e arricchirsi a vicenda anche se i {100 racconti di donne} curato da Ritanna Armeni – in cui non c’è (e non per caso) un solo contributo di psicanaliste – ci raccontano della grande distanza da colmare tra queste due esperienze, pena la perdita, per entrambe, di un valore aggiunto in termini di contributo alla trasformazione sociale.

Inutile dire che la riduzione di tale distanza esige, in via preliminare, la riduzione della distanza della psicanalisi e del femminismo da se stessi e il ritrovamento della carica rivoluzionaria insita nelle loro rispettive origini. La prima, inventata da un uomo, (grazie?) al disagio delle sue pazienti “isteriche”e tradizionalmente affidata nella mani di fondatori di “scuole” votati alla trasmissione di genealogie paterne; il secondo, nato da una giusta, sana e radicale ribellione femminile contro lo strapotere patriarcale ma pericolosamente soggetto a meccanismi di tipo mimetico-identificatorio e spesso dipendente, suo malgrado, da paradigmi di potere interiorizzati ereditati dal mondo maschile.

Se la politica delle donne, la psicanalisi e il loro intreccio perpetuassero, nei loro rispettivi ambiti, questo modello, non saremmo di fronte a un intreccio “virtuoso” o “complesso” ma soltanto a un sodalizio schiavo e complice al tempo stesso e una volta di troppo, di quella logica del “medesimo” (Irigaray) che tanta parte ha avuto nella cancellazione simbolica della metà del genere umano.

Spetta solo a una politica delle donne e a una psicanalisi dell’avvenire – così mi piace fantasticare sul futuro di quest’ultima, come qualcuno ebbe a pensare il futuro della filosofia – impegnate, da ambiti e prospettive diverse, a trovare insieme una via d’uscita alla follia dei patriarchi – la ridefinizione dei termini e del senso di una relazione complessa, contraddittoria e irriducibile ad accostamenti e suggestioni occasionali un po’ troppo disinvolti per non risultare pericolosi.