Riportiamo di seguito, dal resoconto stenografico della seduta dell’Assemblea del Senato del 29 ottobre, la dichiarazione di voto dell’onorevole Anna Finocchiaro (Pd) sul decreto Gelmini. “[…] forse la migliore definizione di questo complesso di interventi sulla scuola e sull’università l’ha data la presidente di Confindustria, la dottoressa Marcegaglia, che ha detto che questa non è una riforma ma un taglio. {{Esattamente: si taglia}}. Una disposizione destinata esplicitamente al contenimento della spesa pubblica (l’articolo 64, comma 6, ma anche l’articolo 67, destinato all’università, della legge n. 133): una norma ideata sulla scorta di un’esigenza contabile diventa, direi per precipitato, riforma.

{{Qualcuno ci aveva lavorato prima?}} Non ci pare. Si erano riuniti didatti, psicopedagogisti, insegnanti, presidi, direttori didattici, docenti universitari e rettori per discutere della riforma necessaria della scuola e dell’università italiana? Si sono convocate le Regioni, gli enti locali, i sindacati? No. Si è sentito il parere del Consiglio superiore della pubblica istruzione? Non pare. Otto anni di sperimentazione per il modulo, nel passato non toccato dalla ministra Moratti? Roba vecchia.

Colpisce la relazione del provvedimento, {{il modo con cui viene non giustificato un cambiamento così radicale introdotto nella scuola elementare}}, la sesta al mondo, secondo le classifiche redatte dalle agenzie internazionali. Chi l’ha detto che debba essere così? Il ministro Gelmini. E perché? Perché il ministro Tremonti ha deciso di tagliare proprio sulla scuola, proprio sulla scuola elementare. E chi ha deciso che l’università, la scuola, il sapere, la formazione e l’apprendimento non sono una priorità per un Paese in difficoltà? Chi ha deciso che per superare la crisi non bisogna, come avviene altrove nel mondo, anche nei Paesi emergenti, puntare sull’intelligenza, sui talenti, sul sapere, sulla competizione di ciò che si sa, di quello che si vale? Nessuno. Erano ragionamenti troppo complessi se si doveva approvare una manovra in nove minuti e mezzo.

D’altra parte, a che serviva? Tanto agli italiani si ammanniva il grembiulino, il sette in condotta e il maestro del libro “Cuore” e questo sarebbe bastato ad ammansirli: saranno tutti contenti, vedrete, finisce lì. Non è andata così, ministro Gelmini, non è andata esattamente così.

Quello che colpisce di queste giornate complesse, difficili e talvolta anche aspre, è questo {{disprezzo per le ragioni degli altri,}} questo «non cale». Chi protesta, chi non è d’accordo è disinformato, strumentalizzato, facinoroso, o è, come dice il presidente Gasparri, un cretino in malafede.
Mi colloco spontaneamente nella categoria, anzi tutto il mio Gruppo:{{ tutti cretini in malafede!}} E bugiardi anche, sì, anche fascio-comunisti. Mentre là fuori, ovunque, nelle scuole e nelle università, ci sono non solo studenti, ma anche tanti docenti, tanti studiosi. Mi ha colpito molto
l’atteggiamento dei 500 matematici a congresso la scorsa settimana qui a Roma. Matematici, si figuri: non pericolosi eversivi, ma gente con la testa tra le nuvole, che ragiona con i numeri e che fa tornare i conti. Manon quelli che lei intende, non quelli che intende il ministro Tremonti. Tutta gente che chiede più scuola, non meno scuola; più sapere, non meno sapere; più ricerca, non meno ricerca.

E poi c’è{{ il suo silenzio}}, ministro Gelmini, me lo lasci dire, indifferente, opaco, ma anche così esplicito. Ieri in quest’Aula lei è stata incalzata dai nostri colleghi, ripetutamente le sono state poste alcune domande dal senatore Rusconi, dalla senatrice Garavaglia, dalla senatrice Soliani. Sono le stesse domande che si fanno migliaia di famiglie italiane, le persone in carne ed ossa, come si diceva una volta. Gliene ricordo una per tutte, quella che riguardava il tempo pieno:{{ ma insomma, il tempo pieno c’è o non c’è nella scuola che lei immagina?}} Se c’è, accogliete i nostri emendamenti: sono quelli che mettono in chiaro l’ambiguità del vostro comportamento. Rispetto a tali questioni lei ha taciuto, ministro Gelmini, e lo comprendiamo; peraltro oggi su «Il Sole 24 ORE» un articolo molto informato e molto competente ci spiega che {{il tempo pieno, se ci sarà, lo dovranno pagare le scuole e i Comuni.}}

Colpisce, di fronte a questo silenzio, a questa afasia, mi lasci dire a questa cupa determinazione, la parola degli studenti. Io ho qui {{poche righe degli studenti del liceo classico “Orazio” di Roma}}, che saranno ragazzi provenienti da famiglie diverse per collocazione sociale e che probabilmente hanno anche ideali diversi, pensano diversamente, si collocano diversamente sull’incerto scacchiere della politica, se dovessimo definirlo secondo le trancianti e inappropriate distinzioni che avete fatto voi in questi giorni. «{{Non essendo stati ascoltati da nessuno riguardo a questa riforma sentiamo il bisogno di portare la nostra voce all’interno dell’Aula del Senato.}} L’Italia ha assistito in questi giorni alla discesa in piazza di decine di migliaia di studenti di ogni ordine e grado. Persino professori, docenti universitari, dirigenti scolastici hanno tentato di difendere questa scuola che sino ad oggi è riuscita a garantire a tutti i giovani un dignitoso livello di istruzione nonostante i numerosi tagli di cui essa è stata spesso oggetto».

Non sono di parte: difendono la scuola pubblica. «Oggi il Ministro della pubblica istruzione sta cercando di infliggere un colpo di grazia alla nostra scuola che dalla fine della Seconda guerra mondiale garantisce in modo paritario un’adeguata istruzione, perché tutti abbiano la possibilità di inserirsi nel tessuto sociale del nostro Paese, un Paese democratico».

Si dice, poi, in fondo: «Questo non è un semplice decreto, signori del Governo, Presidente del Senato, onorevoli senatori: {{questo è il nostro futuro, è il futuro del Paese.}} È a voi che rivolgiamo l’ultimo, estremo appello perché qualcuno finalmente prenda finalmente in considerazione il nostro parere, quello degli studenti». Non sono parole di facinorosi, non sono parole di eversori: sono le parole di ragazzi e di ragazze che possono essere tranquillamente i nostri figli, gli amici dei nostri figli, i nostri parenti; ragazzi e ragazze che avvertono questo rischio. Cosa c’è di ingiurioso per tacere di fronte a questo, ministro Gelmini, e per negare il confronto, una parola d’ascolto, una parola di dialogo?

Ho riletto in questi giorni {{il libro bianco, il patto per l’università, la relazione della commissione per la finanza pubblica}}, anche questa tagliata da Tremonti perché costava troppo. Mi hanno colpito tre aspetti che, ministro Gelmini, farebbe bene a rileggere perché sono assai interessanti: il rigore con cui viene analizzata la situazione della scuola pubblica italiana e della pubblica università, la tensione verso il miglioramento di tali istituzioni, la competenza con la quale si lavora a questi temi; in più, la necessità avvertita in ogni momento di tenere insieme le esigenze di una sana contabilità pubblica e la massimizzazione degli effetti di una scuola e di un’università che funzionino. Merito, professionalità, competenza – le ho contate – sono le parole che più volte ricorrono in quel testo e, insieme, la ricerca del confronto.

Penso a quante parole sono venute, anche questa mattina in quest’Aula, sull’assenza di una nostra proposta. I giornali oggi riportano le proposte del PD. Quante proposte erano contenute in quel patto per l’università e in quella relazione e ancora nel libro bianco! Mi chiedo altresì quanta strumentalità in questo continuo j’accuse, visto che «proposta» significa anche capacità di apprezzarla, di discuterla, di valutarla, e non mi pare che da parte vostra ci sia stato un cenno, uno solo, che andasse in questa direzione.

Voi pensate che una volta approvato questo decreto sia finita qui, ma non è così per noi; credo che non sarà così neanche per il movimento che si è acceso nel Paese. Fra poco ragioneremo in quest’Aula sul decretolegge n. 154 del 2008 sulla sanità, ed esamineremo la norma che prevede il commissariamento delle Regioni che non ottemperino al diktat di abolire alcuni istituti scolastici. Lo ricordo al presidente Bricolo per due ragioni. In primo luogo perché questo dimostra qual è la concezione della relazione fra Stato centrale e Regioni, e mostra – mi perdoni – come la vostra battaglia sul federalismo fiscale si sia ridotta a una bandierina agitata. Lei ha dichiarato poco fa in quest’Aula sulla territorialità ell’insegnamento: {{solo insegnanti padani in Padania}}. Non sapete che vi perdete! Ho l’impressione, almeno per quanto mi riguarda, che queste parole peseranno come un macigno sulla strada dell’approvazione del federalismo.

Signor Ministro, lei ha dichiarato «gutta cavat lapidem»: la goccia del suo silenzio, della sua muta determinazione, della sua cieca obbedienza al dettato tremontiano, del suo tapparsi le orecchie e anche la bocca, ma le voci entrano lo stesso, Ministro; entrano, turbano il suo silenzio e irrompono, disordinano e poi ricompongono. Lei, che mi pare adusa alle Sacre Scritture, se lo ricorda? En arché én ho lógos: in principio era la parola, prologo del Vangelo secondo Giovanni. L’inno al lógos: in
principio era la parola. Da lì, dal lógos, anche il dia-lógos, il dialógos, più forte della pietra, ministro Gelmini, più ostinato del suo silenzio, e pare una pietra tombale sull’approvazione di questo provvedimento. Mentre fuori c’è la vita. Ha ragione il Presidente Fini: fuori c’è la vita. Ricordi, l’afasia è sempre stata cantata, già dalla Bibbia, come il momento più tragico della sofferenza umana. Lo dice anche l’inno del Nabucco.

Dice Quasimodo che i poeti attaccano le cetre alle fronde dei salici quando il piede dello straniero pesa troppo sopra il cuore. Inoltre dice Montale: «Non chiedeteci la parola che squadri da ogni lato, questo dirvi possiamo, ciò che non siamo ciò che non vogliamo». Esattamente ciò che avete dimostrato,{{ ciò che non siete, ciò che non volete}}: una scuola libera che funzioni, che formi nuove classi dirigenti, un’università che consenta a questo Paese di entrare a pieno titolo nel futuro.