Vi proponiamo l’articolo di Francesco Sinopoli, Segretario generale della FLC CGIL

Sciopero dei docenti del Politecnico
Oggi inizieranno gli esami al Politecnico di Torino e prenderà il via anche l’annunciato sciopero dei docenti partito nelle altre università italiane, già da una settimana. A partecipare alla protesta saranno un terzo dei docenti, 254 in tutti che in una nota ribadiscono: ” Siamo certi che l’adesione sarà molto più ampia”
I motivi dello sciopero
L’astensione, hanno spiegato gli organizzatori della protesta, “è finalizzata ad ottenere l’adozione di un provvedimento di legge, in base al quale le classi e gli scatti stipendiali dei professori e dei ricercatori universitari e dei ricercatori degli enti di ricerca italiani aventi pari stato giuridico, bloccati nel quinquennio 2011-2015, vengano sbloccati a partire dal 1 gennaio del 2015, anziché, come è attualmente, dal 1 gennaio 2016. Inoltre che il quadriennio 2011-2014 sia riconosciuto ai fini giuridici, con conseguenti effetti economici solo a partire dallo sblocco delle classi e degli scatti dal 1° gennaio 2015.
Diminuire il gap con il resto d’Europa
Ma chi partecipa allo sciopero non si limita a evidenziare i problemi che riguardano lo stipendio. Resterebbero infatti da attuare “una serie di iniziative ritenute necessarie per non allargare ancora di più il gap con i sistemi universitari degli altri paesi europei, oramai sempre più lontani a causa delle politiche di continuo disinvestimento che ha dovuto subire il nostro paese negli ultimi 10 anni”.
Importante secondo i docenti infatti “investire maggiormente nel sostegno al diritto allo studio, nella residenzialità universitaria e in politiche mirate all’aumento del numero dei laureati” e procedere “celermente al rinnovo del contratto del personale contrattualizzato dell’Università”.

http://www.torinotoday.it/cronaca/sciopero-docenti-politecnico.html

La nota con la quale la FLC CGIL ha divulgato alle agenzie di stampa la propria posizione sull’opportunità di un’eventuale contrattualizzazione della docenza universitaria, ha suscitato un’accesa discussione, in primo luogo tra i docenti.

In un dibattito caratterizzato dalla rivendicazione sugli scatti – cui si oppongono le occasionali, ricorrenti e strumentali polemiche su concorsi e assunzioni – si è generata una contrapposizione a tratti semplicistica tra i partigiani dell’una o dell’altra ipotesi. È soprattutto prevalsa una levata di scudi tanto forte quanto, forse, comprensibile, in mancanza di un confronto autentico e informato che è invece assolutamente necessario; tranne poche eccezioni, innanzitutto l’utile intervento di Roberta Calvano su Roars.

Ritengo in ogni caso che una provocazione così dirompente, alla luce della storia di questa categoria, possa essere l’occasione per farci domande e aiutarci a comprendere meglio le condizioni della docenza universitaria oggi.

Non a caso ho lanciato questa proposta all’avvio dello sciopero proclamato dal Movimento per la dignità della docenza universitaria. E non a caso all’avvio di quella che sarà una fase difficilissima di rinnovo dei contratti collettivi nel pubblico impiego. Infatti, se c’è qualcosa che accomuna i docenti con il personale contrattualizzato del pubblico impiego è proprio l’aver subito in questi anni interventi durissimi sui salari e sull’organizzazione del lavoro.

Ciò a differenza di quanto accaduto per gli altri dipendenti in regime di diritto pubblico. A mio parere questo fatto è stato colto dal Movimento che ha lanciato lo sciopero, quando ha giustamente messo l’accento sul rapporto tra retribuzione e riconoscimento professionale. Ma questo movimento non ha approfondito le radici di questo processo, e non ne ha quindi colto profondità e radicalità.

Il problema principale credo sia quello del valore sociale della docenza e della ricerca universitaria. Io preferisco utilizzare questa espressione, perché può far comprendere meglio cosa è accaduto negli ultimi decenni. Infatti, se l’appartenenza al regime di diritto pubblico attribuisce al Parlamento la tutela dello status universitario, il venir meno del valore sociale della ricerca e della docenza – figlio del degrado produttivo e culturale di questo paese – ha determinato una condizione di debolezza pari (e forse per alcuni aspetti addirittura superiore) a quella dei lavoratori contrattualizzati.

Perché questo è stato possibile? E perché la riserva di legge è valsa in maniera così diversa per i diversi settori in regime di diritto pubblico? Io credo che questa sia la domanda da porsi, se vogliamo dare una risposta a questa condizione di debolezza. E farlo impone domandarsi se lo stato giuridico è ancora oggi una vera garanzia di autonomia, libertà e professionalità della docenza universitaria.

In questo quadro, un principio che ritengo imprescindibile è quello dell’unità del sistema universitario (e quindi delle condizioni di lavoro che in esso si definiscono), di un suo profilo pubblico e democratico. Questo principio è stato minato alla radice dalla legge Gelmini. La condizione di ampia autonomia e tutela che ha garantito lo stato giuridico è in una crisi forse irreversibile; ribaltata da una legge che lascia ai singoli atenei la regolamentazione dell’organizzazione del lavoro.

In un contesto segnato dalla scomparsa di quasi il 20% dei docenti, con tagli alle risorse che hanno inciso profondamente sulla funzionalità, ogni ateneo ha infatti piegato questa discrezionalità alle proprie esigenze di sopravvivenza. Così, liberamente e disordinatamente, i rapporti di lavoro formali e quelli reali dei docenti universitari sono in questi anni drammaticamente cambiati e sono stati differenziati da amministrazione ad amministrazione, come non si è mai registrato in nessun altro comparto pubblico, e forse anche privato.

Certo, i docenti universitari conservano formalmente un unico stato giuridico, uguale per gli atenei pubblici e privati, con le relative classi stipendiali: ma questo stato giuridico è declinato nei regolamenti con condizioni, orari e compiti diversi ateneo per ateneo. Un unico stato giuridico, ma 97 rapporti di lavoro diversi.

In primo luogo, già oggi una parte dei docenti universitari sono “contrattualizzati”: i ricercatori a tempo determinato. Questi docenti all’atto della loro assunzione devono firmare un contratto con condizioni che differiscono ateneo per ateneo e talvolta persona per persona (i compiti didattici e di ricerca sono stabiliti nei bandi).

La normativa e tutti i regolamenti precisano che questo è proprio un contratto di lavoro dipendente subordinato. Così gli Rtd hanno un unico stipendio nazionale ma compiti didattici diversi da realtà a realtà: in molti atenei di tipo A hanno “al massimo” 60 ore annue di insegnamento, in molti altri “almeno” 60 ore; i tipo B in alcune università hanno “da 60 a 90 ore”, in altre “non meno di 90”, in altre ancora “da 60 a 120”, talvolta 100, tal’altra 120 (ma solo in casi di provata necessità: delle amministrazioni ovviamente, non dei ricercatori).

Questione che diventa ancor più complessa se la osserviamo dal punto di vista degli assegnisti, dei docenti a contratto e finanche dei dottorandi. In secondo luogo, questa diversificazione non è soltanto quella dei docenti “contrattualizzati”. È propria anche dei professori e dei ricercatori “in ruolo”. La legge 240 del 2010 ha stabilito alcuni principi generali di organizzazione delle attività didattiche e di ricerca, che ognateneo ha definito e interpretato a suo modo. Così ogni università ha dato la sua personale declinazione di cosa sia didattica frontale, didattica integrativa e i cosiddetti compiti di servizio agli studenti, al pari di quelli gestionali e amministrativi.

In questo modo, sulla base delle proprie peculiarità, ha sostanziato in modo diverso (anche molto diverso) il rapporto di lavoro con i propri professori e ricercatori, superando se non aggirando i “lacci e lacciuoli” dello stato giuridico.

Non solo. Ogni ateneo ha anche diversamente quantificato i compiti per le diverse figure professionali. Prendiamo in considerazione solo le università pubbliche, per limitare il campo. Ci sono atenei che chiedono 150 ore di didattica (per i Po), altri “almeno” 120, altri ancora “tra 90 e 120”, taluni tra “96 e 120”, altri tra “100 e 120”.

Per i ricercatori, molti atenei chiedono “fino a 350 ore” annue di didattica integrativa e compiti di servizio, alcuni chiedono anche “almeno 250 ore”, altri ancora concretizzano questi compiti in almeno 45 ore di seminari, precorsi ed esercitazioni, taluni almeno 60 ore di quest’attività, altri 120 (ma cumulandole anche con tutoraggio e-learning e tirocinio). Alcuni atenei chiedono due giorni alla settimana di presenza in sede, altri tre, altri ancora 10 o 12 giorni al mese, molti infine non stabiliscono regole particolari.

In terzo luogo, lo sciopero degli esami di queste settimane ha al proprio centro una giusta rivendicazione in merito al recupero, a livello giuridico, degli scatti persi dopo il 2010. In questi mesi però sta anche progressivamente entrando a regime il nuovo sistema degli scatti, su base triennale e con la verifica del raggiungimento di alcuni requisiti didattici, di ricerca e istituzionali.

Anche qui, la “Gelmini” ha demandato a ogni singolo ateneo la definizione di questi requisiti. E ogni ateneo ha declinato in modo totalmente autonomo, e autoreferenziale, le proprie esigenze. Qualcuno ha demandato la definizione delle soglie triennio per triennio, in base alla situazione contingente (compresa quella delle risorse).

Altri hanno definito criteri precisi. In alcune università, però, per avere lo scatto si ha bisogno di raggiungere tutti i criteri, in altre ne bastano soltanto due, in altre ancora ne è sufficiente uno solo. In alcune viene considerata anche la valutazione degli studenti (i questionari con le loro opinioni), in altri no. In alcune viene considerato come criterio l’assolvimento della didattica assegnata, in altre di quella “istituzionale”, in altre una percentuale significativa di questa didattica, in altre ancora un numero minimo di ore (qualcuno 90 annue in media, altri 180 nel triennio).

Per alcune è necessario aver partecipato almeno al 30% delle sedute del Consiglio di Dipartimento, per altre al 50%, per altre ancora al 70, al 75, all’80, qualcuna al 100%. Meglio tacere sui criteri relativi alla ricerca, che tra prodotti Asn, Vqr, Anvur (cosa intenderanno?), If, quartili, e quant’altro danno pieno sfogo alla fantasia istituzionale presente nei nostri 97 atenei.

Nel mondo accademico è avvenuta una trasformazione radicale del contesto istituzionale, senza un’adeguata riflessione sulle nuove logiche organizzative. Così, non soltanto i compiti dei nostri docenti universitari, nonostante il loro Statuto giuridico unico, sono diversi da ateneo ad ateneo, ma anche la loro progressione di anzianità sarà basata su criteri diversi a seconda dell’ateneo in cui matureranno lo scatto (con alcuni interessanti quesiti, che presto si dovranno forse porre anche in qualche Tar, come per esempio come comportarsi in caso di trasferimento). Ci stiamo pericolosamente avvicinando anche per il personale “strutturato” a quella individualizzazione del rapporto di lavoro che i “precari” in particolare parasubordinati nell’università conoscono da sempre.

Allora, se questa è la reale condizione di lavoro nell’università italiana, il punto non è più, evidentemente, una distinzione sempre più astratta “per la contrattualizzazione” o “contro la contrattualizzazione”. Il punto è capire come si riesce a fermare la deregulation dei rapporti di lavoro che è già in corso, e che sta accelerando con l’entrata a regime della Legge 240 e dei conseguenti regolamenti universitari.

Il punto è quali possano essere quelle proposte che non solamente difendano l’autonomia della ricerca universitaria, ma che garantiscano una organizzazione democratica ed efficace del lavoro nell’università. Anche di quello docente. Se questa è la trama, anche la proposta del ruolo unico, sulla quale pure abbiamo tanto lavorato e che resta tra le nostre rivendicazioni, lascia purtroppo inevase molte delle questioni relative all’indebolimento dello stato giuridico e non è – di per sé – sufficiente ad evitare il processo di “balcanizzazione” delle condizioni materiali di lavoro nei 97 atenei italiani.

Il lavoro accademico ha caratteristiche particolari, dovendo intrecciare didattica, ricerca, terza missione, autogoverno degli atenei e dei corsi di laurea. Giustamente la Costituzione ne salvaguarda la libertà. Un’università libera e democratica è infatti garanzia, e forse condizione, dello sviluppo di una società aperta e plurale. La libertà di insegnamento e della ricerca, però, si salvaguarda anche garantendo condizioni di lavoro paritarie in tutti gli atenei, indipendentemente dalle esigenze di bilancio o dagli obbiettivi di sopravvivenza (o di sviluppo) di questa o quella amministrazione.

Quella della garanzia e dell’autonomia della docenza universitaria, tutelata dall’articolo 33 della Costituzione, è una obiezione importante alle proposte di contrattualizzazione. Non possiamo però nasconderci che, per mezzo innanzitutto dell’Anvur e delle politiche di valutazione/accreditamento, con un lento processo di riaccentramento amministrativo e di riduzione degli spazi di democrazia e negli atenei, già oggi l’autonomia e la libertà del ruolo docente sono in gravissima crisi. E a nulla è valso “lo stato giuridico” contro le nuove forme di governo amministrativo del sistema universitario.

L’articolo 33 vale per le università come per il sistema scolastico e, formalmente, garantisce la libertà di insegnamento a prescindere dal rapporto di impiego, sia esso di diritto pubblico, come quello dei docenti universitari, sia esso di diritto privato, come per i docenti delle scuole che hanno un contratto collettivo nazionale di lavoro. Nella sostanza in entrambi i casi la libertà di insegnamento e l’autonomia professionale sono sotto attacco a causa degli interventi normativi degli ultimi anni, finalizzati a riscrivere in una ottica “neoliberale” gli assetti di tutte le istituzioni della conoscenza.

La legge 240/10 infatti ha anticipato molti contenuti della legge 107/15. La matrice ideologica è infatti la stessa. Il “new public management”, nella versione italiana di questi anni introdotto dalla legge 150/09, dalla 240/10 e della 107/2015, presuppone una trasformazione radicale della governance delle istituzioni della conoscenza.

Il risultato è una torsione autoritaria delle autonomie, nelle quali tanto gli organi di autogoverno quanto il ruolo del sindacato vengono marginalizzati. Mentre si costruiscono progressivamente le condizioni per realizzare anche in Italia un modello di “quasi mercato”, dove le istituzioni della conoscenza competono per accaparrarsi risorse pubbliche, studenti (clienti insieme alle loro famiglie), convenzioni con soggetti privati. Tutto benedetto da sistemi di valutazione che devono legittimare esattamente questo modello, attraverso le famose “classifiche”.

Tra i molti temi di riflessione posti nel suo contributo, Roberta Calvano solleva quello del rischio che proprio la contrattualizzazione possa determinare una frammentazione delle relazioni di lavoro a causa della “contrattazione decentrata”. Non avrebbe senso nascondere questo rischio, tuttavia già oggi ci sono tantissimi livelli di organizzazione decentrata che non hanno luoghi di “negoziazione”. In apparenza lasciati all’autogoverno regolamentare degli atenei – e quindi della comunità nel suo complesso – ma nei fatti gestiti dai centri decisionali apicali. La contrattualizzazione permetterebbe, invece, di avere un quadro nazionale omogeneo entro il quale negoziare localmente (nel rispetto quindi delle autonomie degli atenei) con regole, procedure e soggetti chiari.

Ci si spinge fino a piegare alle particolari esigenze che governano in quella congiuntura un ateneo. Si diversifica il sistema universitario, segmentando gli atenei tra strutture di rango diverso anche attraverso differenti condizioni di lavoro. Si rafforza il processo in corso di smantellamento del sistema universitario nazionale e ci si avvicina pericolosamente a una individualizzazione della condizione di lavoro della docenza. Lungi da sviluppare quella diffusione della formazione necessaria a una società della conoscenza moderna e democratica, s’incentiva solamente la costruzione di un sistema di gerarchie, disuguaglianze ed esclusioni sociali.

In questo quadro, che è il quadro posto dai processi di trasformazione in corso e dagli indirizzi che la legge Gelmini ha imposto a questi processi, è necessario porre il problema del lavoro dei docenti universitari. Per questo, come segretario generale della Flc Cgil, ritengo oggi prioritario evitare che compiti, carichi di lavoro, progressione di anzianità e magari anche stipendi diventino totalmente a discrezione delle singole amministrazioni universitarie.

Per questo poniamo il tema della definizione di un rapporto di lavoro omogeneo sul piano nazionale, che garantisca libertà, diritti e certezze di tutte e tutti, non soltanto dei più forti o di quelli che lavorano negli atenei più forti. Questo credo infatti sia il compito di un sindacato, e soprattutto di un sindacato generale che ha a cuore i diritti e gli interessi di tutta la comunità universitaria, oltre che l’obbiettivo di difendere la funzione generale dell’università per una società democratica.

Una comunità, peraltro, sempre più divisa e conflittuale, a partire dalla crescente separazione tra personale contrattualizzato, personale docente, precari e studenti. Questo è ciò che significa porre il tema della contrattualizzazione, ben consapevoli che anche il contratto collettivo nazionale è da tempo in difficoltà e consapevoli anche del fatto che tra le nostre maggiori sfide vi è, oggi, proprio quella di ripensare lo strumento contrattuale per renderlo più efficace, democratico, vicino al lavoro e alla società.

Certamente, tanto lo stato giuridico quanto i contratti collettivi nazionali valgono come tutela e come strumento a disposizione dei lavoratori fintanto che questi ultimi partecipano si organizzano e rivendicano con forza – attraverso lotte e proposte – maggiori diritti e facendo valere il proprio valore sociale.

Per questo ci pareva necessario lanciare oggi questo sasso, rompere la tranquillità dello stagno di uno Statuto giuridico ormai astratto e ideale, più che reale, che si concretizza in 97 rapporti di lavoro differenti. Il contropotere organizzato che si esprime attraverso una contrattazione collettiva riconosciuta crediamo possa essere oggi, potenzialmente, più tutelante di ciò che rimane dello stato giuridico. La capacità del contratto di interpretare e governare le trasformazioni organizzative, quando sostenuto da adeguati rapporti di forza, vale per tutte le professionalità.

Su queste questioni, riteniamo quindi fondamentale aprire una riflessione e un dibattito pubblico autentico ed efficace. In questo sì, accogliamo in pieno la richiesta di un confronto aperto col mondo universitario. Confronto che era l’obiettivo della nostra presa di posizione. Organizzando un momento di studio e discussione in cui guardare in faccia come sta concretamente cambiando il lavoro universitario, quali regole sia possibile costruire per la sua regolazione e per la difesa della sua libertà.

Lo faremo a partire dalla costruzione, nei prossimi mesi, di un incontro nazionale di discussione su stato giuridico e contratto, in cui tutte le parti potranno prender parola. Vedremo e capiremo se e come ripensare la condizione della docenza universitaria e quali possono essere le risposte ai tanti dubbi e problemi del presente.

In ogni caso, sappiamo che se non si apre una più generale vertenza nazionale per l’istruzione e la ricerca nel nostro Paese, andremo poco lontano. Tutt*.