Voto-alle-donne-in-Italia-70-anni-di-storiaDopo l’intervista a Marisa Rodano e a Vera Michelin-Salomon vi proponiamo il contributo di Rosangela Pesenti, sempre in anteprima al numero monografico (cartaceo) “Il Foglio de il Paese delle donne” intitolato “1946: il voto delle donne”, in distribuzione alle nostre abbonate e tra i materiali dell’omonima mostra itinerante nelle tre tappe della Casa internazionale delle donne (31 maggio-4 giugno), a Castelluccio di Poretta Terme (29 luglio-16 agosto), all’Università di Cassino e Lazio Meridionale (ottobre). A ogni tappa convegno, performance, esposizioni, musica, incontri con i/le studenti. (info: associazionepdd@gmail.com)

Che cosa significa ricordare i settant’anni del voto alle donne in Italia? Le madri costituenti se ne sono andate e anche la maggior parte delle donne che hanno sognato una democrazia in cui vivere libere ed eguali, cittadine a pieno titolo. Libere prima di tutto dalla necessità di difendersi dalle leggi, come quelle che stabilivano l’inferiorità del valore del lavoro delle donne e che consideravano inaffidabili le donne; libere dalla sottomissione paterna e maritale, libere dalle gravidanze coatte, dallo stupro legalizzato con il matrimonio, dalla discriminazione legalizzata dal pregiudizio, dall’asservimento del corpo e dalla mortificazione dei pensieri. Ancora a lungo si discusse in Italia dell’inaffidabilità delle donne, della nostra intrinseca debolezza, della perfidia, frivolezza, incapacità. Discutevano gli uomini: delle donne a cui era stato affidato il plastico da trasportare, nascosto contro la pelle perché col freddo esplode, a cui avevano affidato le informazioni, il territorio, le case, i rifornimenti, la loro stessa vita.

Solo ventun donne, elette da quattro partiti, con storie famigliari e politiche diverse, profondamente unite dall’antifascismo, dalla convinzione che la democrazie vive solo se tutte e tutti hanno il diritto di votare ed essere votati, che nel matrimonio i coniugi devono essere pari, che il salario deve essere pari a parità di lavoro, che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che “di fatto, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione (…)”, che la sovranità appartiene al popolo, e metà del popolo è donna, che la Repubblica ripudia la guerra. Siamo nate e nati dentro questi principi come in una culla protettiva ma non erano scontati, non erano convinzioni unanimi tra gli uomini della Costituente. Le ventun donne si tenevano per mano quando fu votato l’art. 11. Quelle donne avevano imparato che gli uomini decidono la guerra e le donne devono fare poi il doppio di fatica per conservare la vita, rimuovere le macerie, ricostruire relazioni e sentimenti. Un lavoro che viene dato per scontato, ancora oggi, come se fossimo sempre cittadine a metà. Quelle donne sapevano che la guerra azzera la politica, la convivenza civile, il futuro e volevano cancellarne la possibilità, consapevoli che l’idea stessa della guerra divora risorse in tempo di pace.

Ogni frammento di libertà scritto nelle leggi è costato una lotta di anni e ancora non sono rimossi tutti gli ostacoli. Che cosa sappiamo davvero di quelle lotte? Attraversiamo ancora la scuola senza incontrarle e a nessuna viene in mente di dichiarare bocciati tutti gli uomini che considerano intera una storia parziale, lacunosa, deforme. Esercitiamo la “matria potestà” solo dal 1975 e siamo investite da preoccupazioni, accademicamente sostenute documentate finanziate e spesso arroganti, sulla sparizione del padre, la fragilità del padre, la tutela del padre. Cosa ne hanno fatto i padri di quella potestà che esercitavano, come unici depositari per legge, su figli e figlie? Quali diritti hanno immaginato e poi conquistato per bambine e bambini?

Le donne hanno cambiato questo paese cambiando se stesse, osando nelle scelte, nelle relazioni, nei sogni, prima di depositare nelle leggi nuove forme della convivenza civile. Teresa Mattei era dispiaciuta di non aver chiesto di introdurre anche il criterio dell’età, nell’articolo 3 della Costituzione, tra i criteri antidiscriminatori. La lotta per la scuola come diritto di bambine e bambini fin dalla prima infanzia, per il riconoscimento del valore sociale della maternità. Chi sa che un terzo di quelle donne era iscritta all’UDI? Chi ricorda che chiesero la pensione per le vedove di guerra e le mogli dei prigionieri?

Nella scuola degli anni ’50 e ’60 e ’70 e ancora oggi si studiano sfilze di nomi maschili e restano sconosciute queste donne. Perché furono solo 21? Perché non furono elette alla Costituente anche Gisella Floreanini, Ada Gobetti, Camilla Ravera, Elvira Berrini, Renata Viganò, Marcella Balconi, Alba de Céspedes, Laura Conti, Pina Palumbo, Giovanna Barcellona, Gina Borellini, Laura Lombardo Radice, Lina Tridenti …? Ho cominciato questo elenco in treno, mentre andavo a Parma per parlare in una scuola del diritto di voto alla donne. L’elenco è molto, molto più lungo e sono solo i nomi ripescati nella memoria. Sono certa che se fossero state elette alla Costituente Liana Millu, giornalista, scrittrice, sopravvissuta ad Auschwitz, e Lidia Rolfi Beccaria, tornata dall’inferno di Ravensbruck, non sarebbero stati colpevolmente dimenticati per anni i 600.000 Internati Militari Italiani nei campi di Hitler, che hanno resistito alla richiesta quotidiana di tornare a casa a servire il Duce.

Più donne in Parlamento avrebbero sostenuto la lotta di Maria Maddalena Rossi per il riconoscimento e risarcimento alle donne che erano state stuprate e certo non sarebbero serviti cinquant’anni per dichiarare lo stupro un reato contro la persona. Con più donne in Parlamento forse non ci sarebbe stato l’armadio della vergogna, visto che perfino per la strage di Cefalonia si è mossa, quasi solitaria per anni, la figlia del capitano De Negri, Marcella, prima che le alte cariche dello Stato facessero il loro dovere.

Mi invitano spesso a raccontare la storia delle leggi che hanno cominciato a cambiare le istituzioni, ma oggi non possiamo fare la storia ricordando solo l’elenco delle conquiste: abbiamo bisogno di capire quando, dove, come e perché si interrompe la trasmissione politica tra donne, quali parole ci servono per comprendere appieno le azioni di chi ci ha preceduta. Come accade che di generazione in generazione l’accesso alla parità sia pagato con la cancellazione della memoria? Com’è possibile che si racconti la storia del femminismo italiano saltando da Anna Maria Mozzoni a Elvira Banotti (fonte Wikipedia) come se in mezzo ci fossero state solo donne silenziose, moderate, emancipate imitative, vestali della classe media graziosamente prestate alla politica? Com’è possibile che moltissime delle donne che siedono in Parlamento e nei consigli siano convinte solo del proprio “merito” e non abbiano consapevolezza di quella relazione politica tra i sessi e della pervasività dei sistemi di dominio, di cui erano invece consapevoli moltissime delle donne Resistenti, pur non avendo un lessico adeguato perché perfino la lingua doveva essere inventata?

Da quelle ventun donne ci arriva ancora oggi la forza per misurarci con un sogno politico. Noi non chiediamo di entrare dalla porta di servizio nella casa delle istituzioni progettate dagli uomini per gli uomini, noi possiamo fare come le madri costituenti che non dissiparono le energie al seguito degli uomini come invisibili sostegni, ancelle o vestali, quelle donne occuparono il centro del dibattito e usarono tutti gli strumenti a disposizione perché la Repubblica che stavano fondando fosse una casa con la porta principale aperta a tutte le donne. Non è stato facile varcare quella soglia per le generazioni successive, hanno cercato di impedircelo in ogni modo e quando siamo entrate la memoria di quelle donne era stata occultata, messa in soffitta. È tempo di spalancare porte e finestre, di aprire e utilizzare tutte le stanze, di occupare e trasformare i palazzi della politica prima che qualcuno possa pensare di interdire di nuovo qualche accesso, subdolamente, attraverso la subalternità economica, la violenza nelle relazioni e l’ignoranza delle possibilità.