Si terrà a Roma, tra il 30 novembre e il 2 dicembre, presso la Biblioteca di storia moderna e contemporanea e la Casa internazionale delle donne, il convegno  Donne e uomini migranti, che mette a frutto le più rilevanti acquisizioni del dibattito internazionale e il lavoro pluriennale che la Società Italiana delle Storiche ha dedicato ai temi attinenti alle migrazioni con specifiche esperienze di ricerca. L’attualità dei movimenti migratori che attraversano l’Europa ha dato nuovo impulso allo studio dei temi migratori anche in ambito storiografico. La chiusura delle frontiere, la spinta a emigrare, la presenza e il protagonismo femminile nei flussi migratori, la centralità dei legami familiari transnazionali sono fenomeni che caratterizzano le strategie legate alla mobilità geografica di breve  e lungo raggio in una prospettiva storica di lungo periodo. Il convegno mette a frutto le più rilevanti acquisizioni del dibattito internazionale e il lavoro pluriennale che la Società Italiana delle Storiche ha dedicato a questi temi con specifiche esperienze di ricerca.

SINTESI DEGLI INTERVENTI

Anna  Badino,   Migrazioni  internazionali  e  interne  negli  anni  della  ricostruzione:  percorsi  familiari  a   Marsiglia e Torino L’intervento  è  basato  sui  primi  risultati  di  una  ricerca  comparativa,  volta  a  studiare  i  percorsi  sociali   delle  seconde  generazioni  di  immigrati  dall’Italia  Meridionale  verso  due  mete  specifiche:  l’area  urbano – industriale di Torino e quella di Marsiglia. L ’arco cronologico preso in esame è quello del lungo secondo  dopoguerra compreso tra il 1946 e gli anni 1970. L’intento alla base dell’indagine è di mettere a confronto  una  migrazione  internazionale  e  una  migrazione  interna  al  fine  di  individuare  e  verific are  alcune  costanti   del  processo  migratorio  che  sembrano  essere  indipendenti  dal  fatto  di  attraversare  o  meno  delle  frontiere   nazionali.  Operazioni  di  questo  tipo  sono  rare,  soprattutto  poiché  non  è  ancora  acquisita  l’idea  di   considerare   le   migrazioni   int erne   come   migrazioni   a   tutti   gli   effetti:   non   si   attraversano   confini    amministrativi,  non  ci  si  ritrova  con  statuti  giuridici  diversi  rispetto  alla  popolazione  già  stabilizzata  nel   luogo  di  arrivo,  si  condivide  una  comune  appartenenza  nazionale  con  i  non  i mmigrati.  Eppure,  anche  in   assenza di questi evidenti ostacoli all’integrazione, l’atto di spostarsi da un contesto geografico e sociale a  un altro ha conseguenze che possono perpetrare le differenze tra vecchi e nuovi arrivati, anche al di là di  una singola generazione. L’approccio adottato insiste sull’importanza di considerare la migrazione soprattutto come processo di  integrazione  nelle  società  di  arrivo  attraverso  la  costruzione  di  nuove  reti  sociali  ed  è  dunque  meno   orientato  all’analisi  degli  aspetti  culturali  legati  alla  mobilità  geografica.  Il  metodo  utilizzato  è  quello  di   un’osservazione  ravvicinata  dei  percorsi  di  insediamento  e  di  inserimento  delle  famiglie  immigrate  nelle   società  di  arrivo,  con  un’attenzione  specifica  alla  ricostruzione  delle  reti  di  relazione  nel  tessuto  sociale   locale, ossia nei quartieri di residenza, nel vicinato, nei luoghi di lavoro, a scuola e così via. Tra  i  principali  nodi  affrontati  hanno  un  ruolo  primario  i  percorsi  occupazionali  di  padri  e  madri   immigrati, l’atteggia mento di questi nei confronti dell’istruzione di figli e figlie, le scelte residenziali e le  ricadute  che  tali  scelte  hanno  avuto  sui  destini  delle  seconde  generazioni  in  termini  di  frequentazioni,   aspirazioni e scelte scolastiche, le relazioni dei figli l ocalizzate nei luoghi di socializzazione.

Anna  Badino   insegna  storia  della  famiglia  e  di  genere  all’Università  di  Firenze  e  collabora  con  il   Laboratoire Telemme –  Aix  MarseilleUniversité    in  qualità  di  chercheur  associé.  I  suoi  studi  vertono  sulle   trasformazioni  sociali  del  secondo  dopoguerra  in  rapporto  ai  movimenti  migratori  degli  anni  Cinquanta  e   Sessanta.  In  particolare  ha  indagato  gli  intrecci  tra  la  partecipazione  delle  donne  al  lavoro,  i  mutamenti   nella famiglia e la mobilità sociale delle pr ime e delle seconde generazioni in emigrazione. È  autrice  di   Tutte  a  casa?  Donne  tra  migrazione  e  lavoro  nella  Torino  degli  anni  Sessanta   Roma,  Viella,  2008  e  di   Strade  in  salita.  Figlie  e  figli  dell’immigrazione  meridionale  al  Nord ,  Roma,  Carocci,   2012.

Eleonora  Canepari,   La  città  e  le  stagioni.  Migran ti  temporanei  dentro  e  fuori  lo  spazio  urbano  (XVI – XVIII secolo) La  comunicazione  ha  per  oggetto  le  migrazioni  «  circolari  » ,  stagionali  e  temporanee   in  città,   e  ha l’obiettivo  di  mettere  in  luce  alcuni  effetti  di  tale  mobilità  sulla  società  urbana,  e  di  coglierne  gli  aspetti   legati  all’identità  di  genere.   Essa  presenta  alcuni  risultati  di  una  ricerca  sulla  mobilità  urbana  nelle  città   mediterranee,  condotta  dal  2014  ( Settling  in  motion.  Mobility  and  the  making  of  the  urban  space  in  the   early  modern  cities ,  Aix -Marseille  Université,  Fondation  A*Midex,  2014- 2018).  La  ricerca   propone  di  guardare alla mobilità come a uno degli elementi che contribuiscono alla «  creazione » dello spazio urbano,  e di definire una nozione «  inclusiva  » di città, che tiene conto non solo della popolazione stabile, ma anche  di  quella  meno  radicata  (a  prescin dere  dall’origine  geografica).  Mettendo  da  parte  un’ottica  che  vuole   questi  individui  come  «  flottants  »,  separati  in  qualche  modo  dalla  «  vera  »  città,  è  possibile  reinserire  i   percorsi  di  mobilità  all’interno  della  città  e  mettere  in  luce  la  pluralità  di   risorse  e  dispositivi,  formali  e   informali,  che  rendono  possibili  le  presenze  temporanee  in  città.  A  Roma,  una  società  «  plurale  »  come molte di quelle urbane di antico regime, l’impatto della migrazione sulla città va al di là della dimensione  demografica  spesso  sottolineata  (sovrappopolamento),  e  contribuisce  in  molti  modi  ad  una  ridefinizione   dello spazio urbano. Le migrazioni temporanee si inseriscono in un quadro di mobilità generale, che verrà  brevemente presentata come elemento di contesto.  Come  si   vive  e  si  abita  in  una  città  di  cui  si  è  abitanti  temporanei,  sebbene  ricorrenti ,  e  come  un   approccio di genere può aiutare a cogliere alcuni aspetti della mobilità  ?   Organizzato  in  tre  parti,  l’intervento  prende  in  considerazione  alcune  categorie  di  lavoratori,  in   particolare  i  lavoranti  agricoli  («  huomini  di  campagna  »),  i  vignaioli  e  i  norcini.   Nella  prima  parte,   l’intervento esamina le forme di mobilità dentro/fuori città di cui gli stagionali sono protagonisti. Saranno  presi in considerazione i l uoghi di origine, la durata della permanenza e il tipo di lavoro svolto.  La  seconda parte  sarà  centrata  sui  modi  di  abitare  lo  spazio  urbano   dei  migranti  stagionali  :   coabitazioni,  domicilio   occasionale,  doppio  domicilio.  Il  ricorso  agli  stati  delle  anime  permette  di  esplorare  gli  households   caratterizzati  dalla  presenza  dei  lavoratori  temporanei,  siano  essi  installati  in  locande,  case  di  privati ,  camerate, ecc. La  terza  parte,  infine,   prende  in  esame  le  relazioni  tra   identità  di   genere   e  forme  di  mobilità   temporanea, articolandole a partire dai modi di abitare. Le  fonti  utilizzate  sono  gli  stati  delle  anime  di  alcune  parrocchie  romane,  atti  notarili,  processetti   matrimoniali e decreti del cardinale vicario.

Eleonora Canepari  è ricercatrice in Storia modern a a Aix -Marseille Université, dove dirige il programma  di ricerca Settling in motion. Mobility and the making of the urban space in the early modern cities .I suoi  temi  di  ricerca  sono  la  migrazione,  la  mobilità  urbana  e  i  modi  di  abitare  in  epoca  moderna,  e  nel  XVII   secolo in particolare.     Tra  le  sue  pubblicazioni :    Places,  palais,  auberges.  À  la  recherche  du  travail  dans   une  ville  baroque ,  «Mélanges  de  l’École  française  de  Rome  –   Italie  et  Méditerranée  modernes  et   contemporaines »,  129  (2017) ;  Abitare   la  città ,  «Quaderni  storici »,  151( 2016) ,   dir.,  con  C.  Regnard ;  Mobil(h)ommes. Formes d’habitats et modes d’habiter la mobilité, (XVIe -XXIe siècles) , dir., con B. Mésini  e S. Mourlane, 2016.

Michele Colucci ,   Il passaggio degli anni Settanta e i molti volti delle migrazioni in Italia   La congiuntura storica degli anni settanta del Novecento rappresenta un terreno di ricerca ricchissimo  di  spunti  per  ricostruire  i  tanti  volti  delle  migrazioni  italiane.  Convivono  infatti  esperienze  migratorie   diverse,  che  si  manifestano  di  frequente  nello  stesso  luogo  e  nello  stesso  tempo:  lo  sviluppo  dei  primi   nuclei  di  immigrazione  straniera,  il  costante  perdurare  delle  migrazioni  interne,  l’enorme  flusso  di  ritorni   dall’estero  (soprattutto  dopo  l’esplosione  della  crisi   petrolifera),  la  stessa  emigrazione  verso  l’estero,  che   pur  in  calo  rispetto  al  passato  resta  un  fenomeno  ancora  importante.  L’intreccio  tra  queste  mobilità   contribuisce  a  far  emergere  questioni  irrisolte  che  attirano  l’attenzione  dell’opinione  pubblica:  l ’aumento  della  disoccupazione,  gli  squilibri  territoriali,  la  diffusione  ineguale  dei  servizi  sociali,  solo  per  citarne   alcune.  In  questo  contesto  la  questione  di  genere  si  manifesta  in  diversi  modi.  Nella  relazione  viene   analizzata soprattutto a partire da due punti di vista: l’insistenza sulla figura sociale del disoccupato, uomo  e  padre  di  famiglia,  associata  all’emigrante  di  ritorno;  la  presenza  di  percorsi  particolarmente  separati  tra   uomini  e  donne  nei  flussi  di  immigrazione  straniera  che  iniziano  a  essere  presenti  sul  territorio.  Nella   relazione  vengono  proposti  alcuni  strumenti  di  lavoro  per  verificare  queste  tendenze,  soprattutto  rispetto   alla  questione  delle  fonti:  in  particolare  vengono  analizzati  gli  atti  della  Prima  conferenza  nazionale   dell’em igrazione che si tiene a Roma nel 1975 e viene esaminato il Primo rapporto sui lavoratori stranieri  in Italia, realizzato dal Censis nel 1978.  A  fianco  a  questi  percorsi  nella  relazione  vengono  inoltre  segnalati  alcuni  nessi  tra  le  battaglie  dei   movimenti   sociali e per i diritti civili e le migrazioni, soprattutto rispetto al divorzio e al nuovo diritto di  famiglia.   Queste  tracce  ci  permettono  di  individuare  due  modalità  differenti  con  cui  la  dimensione  di   genere  si  manifesta  nella  percezione  pubblica  del le  migrazioni  nel  corso  degli  anni  settanta:  del  tutto   assente (o quasi) rispetto al tema dell’emigrazione all’estero e del ritorno; presente anche se in modo molto  particolare rispetto al tema dell’immigrazione straniera

Michele Colucci  è ricercatore presso il CNR –  Istituto di studi sulle società del mediterraneo. Insegna storia  contemporanea  e  storia  dell’Europa  contemporanea  presso  l’Università  della  Tuscia.  I  suoi  interessi   scientifici ruotano prevalentemente attorno allo studio dei fenomeni migratori, alla storia del lavoro e  delle  istituzioni.   Tra  le  sue    pu  bbl  icazion  i :   Lavoro  in  movimento :  l’emigrazione  italiana  in  Europa,  1945 -57 ,  Roma,  Donzelli,  2008;  L’ Umbria e l’emigrazione : lavoro, territorio e politiche dal 1945 a oggi , Foligno,  Editoriale umbra, 2012  ;  L’ emigrazione italiana : storia e documenti , (con S. Gallo),  Br escia,  Morcelliana,  2015.

Emilio Franzina,  L’esperienza della mobilità e della migrazione femminile nei canti   Per  mezzo  dei  canti  popolari,  ma  anche  con  l’ausilio  dei  motivi  di  un  vasto  repertorio  di    “musica   leggera” in grado di attraversare quasi per intero gli ultimi due secoli, la relazione  prende in esame alcuni  aspetti cruciali del rapporto intercorso fra le donne italiane, la mobilità territoriale e, dall’unità in avanti, le emigrazioni all’estero, sia proprie che maschili, ripercorrendo un cammino fisicamente compiuto da molte  generazioni  di  lavoratrici.  Dalla  fase  degli  spostamenti  di  corto  raggio  nei  contesti  di  vecchio  regime  a   quella  dei  grandi  esodi  di  fine  Ottocento  di retti tanto nella Americhe quanto in Europa  –  senza trascurare,  qui,  i  principali  flussi  stagionali,  periodici  o  temporanei  più  consistenti  dal  centro  nord  della  penisola  – furono  infatti  numerosi    i  fenomeni,  riflessi  nelle  canzoni,  che  coinvolsero  donne  e  ragazze  non  solo  in   veste di madri e di sorelle o di fidanzate e di spose, bensì pure di protagoniste in prima persona delle più  diverse  esperienze  emigratorie.    Un  capitolo  spesso  dimenticato  dagli  stessi  storici  della  emigrazione   femminile  è  quello  del la  mobilità  interna  alla  penisola  a  cui    la  relazione  dedica  invece  un  certo  spazio   perché essa, inoltrandosi fin dentro la seconda metà del secolo XX, costituì per un verso un apprendistato  delle  emigrazioni  all’estero,  ma  anche  perché  rappresentò,  per  un   altro,  una  modalità  specifica  di  “esodo   provvisorio”,  e  tuttavia  reiterato,  destinato  a  riguardare  varie  regioni  d’Italia  e  particolarmente  le  giovani   impiegate  in  settori  del  lavoro  agricolo  e  manifatturiero  poi  evolutisi  o  anche  venuti  meno  (la  filanda,   la  monda,  la  fabbrica  ecc.).  In  essi,  com’è  noto,  si  riscontra  un’abbondanza  ed  anzi  una  esuberanza  di  canti   che sfociano già, alle volte, nel campo delle rivendicazioni sociali e politiche.

Emilio Franzina  è  stato docente di Storia contemporanea presso l’Università di Verona. Studioso di storia  sociale  e  culturale  dei  secoli  XIX  e  XX,  si  è  occupato  in  particolare  di  scrittura  popolare  e  di  migrazioni   all’estero .    Tra  le  sue  più  recenti  pubblicazioni:   La  storia  (quasi  vera)  del  milite  ignoto  raccontata  come   un’autobiografia , Roma ,  Donzelli, 2014;  Al caleidoscopio della gran guerra  : vetrini di donne, di canti, di  emigranti (1914- 1918) , Isernia ,  Cosmo Iannone editore, 2017 ;   Entre duas patrias : a Grande Guerra dos  imigrantes italo -brasileiros 1914- 1918 , Belo Horizonte , Ramalhete, 2017. Da  tempo  svolge  un’intensa  attività  di  animazione  teatrale    con  lezioni  di  storia  cantata,  assieme  al   complesso musicale degli Hotel Rif . 

Manuela FugenziMigrazioni e sguardo fotografico:  testimonianze, cronaca e comunicazione. La fotografia si propone come strumento di documentazione e di narrazione della nostra emigrazione e  diventa  una  preziosa  occasione  d’introspezione  e  di  lettura  delle  complesse  identità  del  nostro  presente   causate  d allo  spostamento,  dal  transito  di  persone  e  popoli,  tra  radici,  storie  e  nuove  esperienze,  legami   familiari e, in senso più ampio, comunitari.  I migranti stessi ne sono stati tra i fruitori e i produttori più attivi, trovando proprio nella fotografia il  mezzo  privilegiato  per  comunicare,  mantenere  legami,  condividere.  Mentre  tanti  illustri  fotografi  hanno   indagato la propria identità migrante volgendo lo sguardo su questo fenomeno epocale.

Manuela Fugenzi ,  giornalista  photo- editor,  è  consulente  iconografico nell’editoria libraria e periodica  e ,  più  recentemente ,    nella  comunicazione  multimediale   e  cura  iniziative    espositive  e  didattiche  sulla fotografia. Coordina la Scuola di Fotogiornalismo presso l’ISFCI a Roma ed è docente presso l’Universit à  Roma Tre in   un  laboratorio  di  Fotografia  e  s toria  sociale. Tra le sue pubblicazioni:  Il mito del benessere,  1981- 1990 Roma,  Editori Riuniti, 1999;  Il secolo delle donne. L’Italia del Novecento al femminile , Roma – Bari,  Laterza,  2001;  L’evoluzione  del  mezz o  tecnico  in  La   fotografia  in  Italia.1945- 2000,  a  cura  di  U .  Lucas ( Annale della  Storia d’Italia ), Torino,  Einaudi, 2004;  They Fight with Cameras. Walter Rosenblum  in  WWII  from  D -Day  to  Dachau,  Roma,  Postcart,  2014;   Storia  d’Italia  in  100  foto,  Roma -Bari,  Laterz a,  2017.

Stefano Gallo,   La mobilità territoriale delle maestre italiane nella prima metà del Novecento Il mestiere di insegnante elementare è stato, almeno per l’Italia del Novecento, un lavoro intimamente  legato alla mobilità territoriale, tanto da poterlo definire un “mestiere mobile”, ovvero un mestiere per cui  gli spostamenti rappresentavano un elemento costitutivo, strutturale della professione. Per fare il maestro o  la  maestra  era  necessario  spostarsi:  sia  la  nomina  in  ruolo  che  la  fase  precedente  di  avventiziato  (o   precariato,  per  usare  un  termine  attuale)  prevedeva  la  disponibilità  allo  spostamento.  Entrare  in  ruolo   significava  poi  acquisire  una  titolarità  concreta  –   e  di  fondamentale  importanza   –  per  sperare  di  trasferirsi   altrove nel l’arco di pochi anni. Il nesso tra mobilità territoriale e la professione di insegnante elementare si  basava  quindi  anche  sul  riconoscimento  di  un  diritto  che  ruotava  intorno  all’istituto  del  trasferimento,   entrato  in  vigore  con  la  Legge  Daneo -Credaro  del  1911  e  sulla  cui  vigenza  l’azione  e  la  vigilanza  della   classe magistrale si fecero ben sentire anche durante il Ventennio. Questo carattere di mobilità per la professione di insegnante elementare risulta ancora più significativo  nel momento in cui la maggi or parte del personale interessato era costituito da donne. In una fase storica,  quella di inizio ‘900, in cui le migrazioni da lavoro erano prevalentemente maschili, constatare l’esistenza  di un lavoro pubblico con quote femminili maggioritarie e in crescita, connotato proprio dal suo essere un  lavoro migrante, rappresenta un oggetto di studio di un certo interesse. La relazione presenta l’evoluzione  del  mestiere  magistrale  dalla  fine  dell’800  alla  metà  del  ‘900  in  rapporto  alla  mobilità  territoriale,   intrecciando fonti normative, pubblicistica e memorialistica, ed evidenziando l’intreccio tra una progressiva  professionalizzazione del mestiere, dinamiche di emancipazione e la centralità delle migrazioni consentite  dallo status di insegnante.

Stefano Gallo  è assegnista di ricerca presso l’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo (CNR Napoli)  e docente a contratto presso l’Università San Raffaele di Milano e l’Università degli Studi di Firenze. Socio  fondatore  della  Società  Italiana  di  Storia  del  Lavoro,  ne  è  stato  segretario  coordinatore   fino  al   2015.  Ha  collaborato  con  la  Fondazione  Sabattini  (Fiom  nazionale  –   Camera  del  Lavoro  di  Bologna)  e  c ollabora  attualmente con l’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in provincia di Li vorno.  Tra le sue pubblicazioni:  Il Commissariato per le migrazioni e la colonizzazione interna (1930 -1940) : per  una  storia  della  politica  migratoria  del  fascismo ,  Foligno,  Editoriale  umbra,  2015;  (con  M.  Colucci),   L’  emigrazione italiana: storia e documenti ,  Brescia,  Morcelliana, 2015. 

Carmela  GrilloneSfruttamento sessuale transnazionale dalla Nigeria all’Italia    Questa  ricerca  si  propone  di  aprire  un  dibattito  globale  sul  forte  legame  esistente  tra   migrazione  e   prostituzione  sulla  base  della  realtà  osservata  a  Palermo  nel  periodo  2015 -2017.  I  tre  elementi  principali   che emergono dall’analisi sono criminalità, povertà e  sfruttamento. Come  suggeriscono  i  dati,  l’Italia  è  la  meta  preferita  in  Europa  per  il  mercato  dello   sfruttamento  sessuale.  In  particolare,  la  Sicilia  svolge  un  ruolo  importante  nel  racket  dello   sfruttamento  delle  migranti   nigeriane,  oltre  a  fungere  da  quartier  generale  della  mafia   italiana  e  nigeriana.  L’accordo  tra  Cosa  Nostra (mafia siciliana) e le due organizzazioni  conosciute  come Black Axe e Eye (mafia nigeriana) rappresenta il  punto di partenza per la  mercificazione delle ragazze nigeriane (minorenni e maggiorenni). Il  degrado  sociale  e  culturale,  acuito  da  un  limitato  pattugliamento  del  territorio  da   parte  delle   istituzioni   dello  Stato  italiano,  ha  contribuito  alla  creazione  della  “Repubblica  di   Ballarò”,  un’area   fuorilegge  all’interno  del  centro  storico  di  Palermo,  governata  dalla  joint   venture  delle  mafie  nigeriana  e   siciliana. E ‘in questo contesto criminale che fiorisce il  mercato dello sfruttamento sessuale transnazionale  Nigeria -Italia.    La   nuova   Costa   degli   Schiavi   (la   Sicilia)   sta   diventando   protagonista   di   un’inedita migrazione   di   genere   simile   a   quella   della   tristemente   famosa   “Costa   degli   Schiavi”,   luogo    di  compravendita di abitanti dell’Africa occidentale, commerciati per lavorare nelle  piantagioni americane del  Nuovo Mondo. La  fase  di  reclutamento  delle  nuove  schiave  del  sesso  in  Nigeria  (in  particolare  nello   Stato  Edo)  è   affidata  ad  un  gruppo  di  pastori,  commercianti  e  avvocati.  L’ingannevole   offerta  lavorativa  consiste  in  un   lavoro   ben   pagato   nell’ambito   dei   servizi   di   assistenza   alla  persona   (badante,   babysitter)   o    dell’intrattenimento  (mai  descritto  in   dettaglio, vide licet  prostituta)  in  Italia.  Dopo  questa  vaga  offerta,  la   ragazza  si  impegna  a  rimborsare  i  soldi   del  viaggio  (schiavitù  per  debiti)  al  “benefattore”  (la  madame).   Collusi con questo sistema  sono i medici indigeni (guaritori/stregoni) che celebrano riti voodoo utilizzando principalmente capelli e unghie delle ragazze per sigillare il patto e soggiogare la volontà delle stesse. Dopo un periodo di sfruttamento nelle connection houses libiche (alias bordelli) e il  pericoloso viaggio  attraverso il Mediterraneo, le ragazze nigeriane (37% delle quali sono  minori straniere non accompagnate)  arrivano  sulle  coste  siciliane,  con  il  peso  di  un  debito  che  oscilla  tra  i  30.000  e  i  70.000  euro  da  ripagare   lavorando come prostitute per un  periodo che va dai 3 ai 7 anni. Come  indica  la  Carta  di  Nizza,  la  commercializzazione  di  parti  del  corpo  umano  è   severamente  proibita. E la commercializzazione esseri umani? E’ anch’essa da proibire? Le  sfumature  semantiche  di  espressioni  come  “mercato  del  sesso”,  “cliente”,   “prostituta”,  “servizi   sessuali”  intendono  ideologicamente  suggerire  un  distacco  dell’essere   umano  dal  suo  stesso  corpo.  E’   possibile  separare  una  persona  dalla  sua  principale  caratteristica  biologica,  che  è  il  sesso?  Può  un’analisi   olistica del fenomeno condotta alla  luce dei diritti umani aiutare a considerare queste ragazze come esseri  umani nella loro  interezza, integrità e quindi dignità?

Carmela  Grillone   è  dottoranda  di  ricerca  i n   Diritti  umani    pr  esso   l’Università  di  Palermo.  Conseguito  un   master  in  Sviluppo  internazionale   presso  l’Università  di  Bologna ,   ha  lavorato  per  vari  anni  come   consulente  della  Nazioni  Unite  in  Siria  e  come  project  manager  di  ONG   in  Egitto,  San  Salvador  e  altri   paesi.  Attualmente  i  suoi  interessi  di  ricerca  si  concentrano  sullo  sfruttamento  sessuale  delle  immigrate   nigeriane in Italia.

 Patrizia  Guarnieri ,  Per  scelta  e  per  forza.  Fuga  senza  rientro  di  Renata  Calabresi,   displaced  psychologist  a New York. Sia  l’emigrazione  sia  la  mobilità  intellettuale  dall’Italia  hanno  una  storia  che  ha  ricevuto  poca   attenzione,  in  confronto  agli  analoghi  fenomeni  dalla  Germania,  per  esempio,  e  in  confronto  alla  grande   emigrazione  degli  Italiani  poveri.  Ancora  meno  ne  ha  riscossa  l’emigrazione  intellettuale  femminile.     Nell’esperienza  migratoria  di  insegnanti  e  accademici  che  sotto  il  fascismo  per  motivi  politici  e  razziali   decisero di andarsene,  quanto conta l’essere non solo donna, italiana, ebrea, ma per giunta una intellettuale  in cerca di lavoro qualificato secondo le proprie competenze?  Rispetto  alla  maggiore  considerazione  anche  storiografica  per  i  casi  illustri,  di  già  noti  professori   ordinari   espulsi,   si   preferisce   guardare   a   studiosi   e   studiose   all’inizio   della   loro   carriera,   che    rappresentavano il futuro della università, della scienza e della cultura. Quello che qui si cerca di indagare  sono non solo casi individuali emblematici, ma gli atteggiamenti dell’ambiente accademico da cui partirono  e  quello  di  presunto  inserimento.  Le  variegate  esperienze  della  migrazione  intellettuale,  maschile  e   femminile, come interagiscono con la comunità scientifica di appartenenza,  con l’andamento della scienza  e  della  professione?  Perché  molte  di  queste  storie  sono  state  quasi  necessariamente  cancellate  nel   dopoguerra. Per  precisare  il  campo  d’indagine  e  al  contempo  allargarlo  in  modo  innovativo  (in  gender,  età,   qualificazione,  e  disciplina  di  appartenenza),  si  mira  al  piccolo  gruppo  di  studiosi  italiani  (professori  o   liberi doc enti) che apparirono i più meritevoli, ovunque siano emigrati. O almeno furono fortunati rispetto  ai  molti  altri  che  cercavano  una  sistemazione  all’estero.    Sono  infatti  i  grantees,  finanziati  dalla  nota   organizzazione di New York, l’Emergency  Committee in  Aid  of Foreigner Displaced Scholars. Nessuno di  loro  tornò,  e  non  sempre  fu  per  scelta.  Fra  questi,  c’è  una  sola  donna  ed  è  il  caso  di  cui  qui  si  parlerà.   Renata   Calabresi,   studiosa   di   psicologia   sperimentale,   sbarcata   da   sola   a   New   York   nel   1939,    evidentemente era giudicata un brain gain per chi la scelse fra molti altri candidati.  Eppure la sua storia per  certi  versi  eccezionale  e  successful  negli  Stati  Uniti  dove  ha  vissuto  fino  al  1995,  è  stata  del  tutto   dimenticata da noi, anche nell’ambiente della psicologia. Perché?  Nel   1956   al   ministero   della   P.I.   fu   dichiarata   ufficialmente   irreperibile,   nonostante   venisse    regolarmente in Italia, lavorasse a New York come psicologa clinica dell’APA, pubblicasse, e tutto questo  fosse dimostrabilmente noto nell’ambiente ristretto degli psicologi italiani. Di  famiglia  antifascista,  legata  a  Salvemini  e  a  Nino  Levi,  in  quali  ostacoli  si  imbatté,  quali  aiuti   ricevette, e da chi,  prima e durante il suo percorso di americanizzazione?   La  storia  di  Renata  Calabresi  ci  dice  molto  anche  su  perdite,  rimozioni  e  mancate  riparazioni  che   hanno segnato la ricerca e l’università, la costruzione di una scienza particolarmente attaccata dal fascismo  e  dal  neoidealismo,  e  anche  l’immagine  di  una  disciplina  incerta.    Nel  secondo  dopoguerra  in  Italia  dove   era stata materia di insegnamento dalla fine dell’800,  la psicologia appariva come fosse un sapere nuovo,   proveniente dall’America,  da trasformare in una professione che sarebbe stata crescentemente  femminile e  avrebbe avuto da  noi, a differenza che in Germania,  un molto tardivo riconoscimento giuridico.

Patrizia Guarnieri  insegna Storia culturale dell’età contemporanea all’Università di Firenze.   E’ stata Fulbright Research Scholar a Harvard University, C.N.R. – Nato Fellow, Wellcome Institute for the  History  of  Medicine  in  London,    Jean  Monnet  all’IUE,  e  lecturer  per  Stanford  University  .  Si  occupa  di   storia  e  microstoria  della  criminalità,    della  salute  mentale  e  di  quella  materno- infantile,  di  storia   delle  scienze  umane,  de lla  psicologia  e  della  psichiatria.  Il  suo  ultimo  libro  è   Italian  psychology  and  Jewish   emigration  under  fascism.  From  Florence  to  Jerusalem  and  New  York ,  New  York,  Palgrave -Macmillan,  2016.

Sabrina  Marchetti ,  Unite  o  divise?  U n’analisi  delle  reti  sociali  fra  donne  dell’ex  blocco  sovietico  in   Italia.   A  partire  da  interviste  con  donne  georgiane,  ucraine  e  polacche  che  attualmente  lavorano  come   assistenti  familiari  nella  provincia  di  Reggio  Emilia,  si  cercherà  di  rintracciare  gli   elementi  di  unione,   solidarietà  e  comunanza  o,  al  contrario,  di  separazione,  distanza  e  competizione  che  possono  emergere   nella  relazione  fra  questi  tre  gruppi  nazionali  durante  l’esperienza  migratoria  in  Italia.  Si  guarderà  ad   esempio alla rilevanza, nel  rapporto fra i tre gruppi, di fattori quali il comune passato sovietico, le politiche  migratorie (italiane e europee) e gli effetti della crisi economica sul mercato del lavoro di cura in Italia. Un  aspetto importante della discussione sarà l’analisi dell ’evoluzione nel corso degli anni Novanta e Duemila  delle  loro  traiettorie  migratorie  verso  l’Italia,  all’interno  della  penisola  e  infine  nella  provincia  di  Reggio   Emilia. In conclusione, si interrogherà la rilevanza della categoria di nazionalità, nella su a intersezione con  quella del genere, per l’analisi delle reti sociali fra donne migranti attive nel settore della cura in Italia.

Sabrina  Marchetti   è  docente  di  Sociologia  dei  processi  culturali  presso  l’università  Ca’  Foscari  di   Venezia  dove  coordina  il   progetto  ERC  “DomEQUAL:  A  global  approach  to  paid  domestic  work  and   social  inequalities”.  Si  occupa  di  migrazioni  femminili,  costruzioni  identitarie,  diritti  e  discriminazioni   lavorative,   in   particolare   nel   settore   domestico   e   della   cura,   in   una   prospetti va   postcoloniale   e    intersezionale.   Tra   le   sue   pubblicazioni: Le   ragazze   di   Asmara.   Lavoro   domestico   e   migrazione    postcoloniale , Roma, Ediesse, 2011;  Black Girls. Migrant Domestic Work and Colonial Legacies , Boston,  Brill, 2014 6 SOCIET À ITALIANA DELLE STORICHE Donne e uomini migranti  : rotte, scambi, contaminazioni nel lungo periodo Roma, 30 novembre -2 dicembre 2017

Francesca Rolandi,  La rotta  adriatica dei richiedenti asilo e il ruolo dell’Italia durante la guerra fredda L’intervento  si  propone  di  riflettere  sulla  vicenda,  in  gran  parte  rimossa,  dell’Italia  come  paese  di   transito  nei  decenni  compresi  tra  la  ratifica  della  Convenzione  sullo  sta tus  dei  profughi  (1954)  e   l’abolizione della limitazione geografica (1989), che limitava gli obblighi di accoglienza ai soli individui in  fuga per effetto di eventi avvenuti in Europa. Questo lasso temporale, se da un lato coincideva con la guerra  fredda,  dall’altro  era  animato  da  dinamiche  più  ampie,  quali  le  relazioni  bilaterali  e  i  rapporti  storici,   culturali  ed  economici  di  lungo  periodo.  Nel  periodo  in  questione  oltre  120.000  individui,  provenienti  in   gran parte dall’Europa orientale, presentarono domanda d’asilo e trascorsero un periodo in Italia, in attesa  di raggiungere una meta definitiva, attraverso il ricollocamento da parte delle organizzazioni internazionali  o  tramite  canali  informali.  Sin  dall’indomani  del  secondo  conflitto  mondiale,  infatti,  l ’Italia  era  stata   considerata  dalle  istituzioni  internazionali  esclusivamente  un  paese  di  transito,  non  in  grado  di  assorbire   alcun profugo straniero, in quanto caratterizzata da sovrappopolamento e disoccupazione, essa stessa paese  di emigrazione e già al le prese con l’integrazione di “profughi nazionali” provenienti dalle aree ex italiane,  dalle ex colonie e protettorati e in generale dallo spazio mediterraneo.  In questo intervento l’analisi verte  sul caso studio dei richiedenti asilo jugoslavi in Italia , un fenomeno che caratterizza il decennio tra la metà  degli anni ‘50 e la metà degli anni ‘60 e che illustra come i tentativi di catalogare in termini sia politici che  nazionali i flussi migratori in arrivo al confine orientale italiano risultino inadatti  a definirne la complessità.  Mentre  i  primi   profughi  provenienti  dalla  Jugoslavia  assumevano  un’etichetta  politica  (attraverso  la   richiesta  di  asilo),  successivamente,  con  il  miglioramento  delle  relazioni  bilaterali  e  l’apertura  di  canali   ufficiali per l’emigrazione,  gli jugoslavi vennero considerati migranti economici a tutti gli effetti. Inoltre,  la  suddivisione  tra  profughi  stranieri  e  profughi  nazionali  (italiani),  destinati  i  primi  al  ricollocamento,  i   secondi  all’integrazione,  e  il  diverso  atteggiamento  delle  autorità  italiane  rispetto  agli  ex  cittadini  del   Regno  d’Italia  permettono  di  mettere  in  luce  le  difficoltà  nel  tracciare  distinzioni  nette  in  territori   multinazionali e a lungo caratterizzati da confini mobili. Si trattava di un contesto fluido, nel quale profughi  e migranti emergevano come soggetti attivi che tendevano ad adattare la propria identità in modo strategico  per adeguarsi a categorie imposte dall’esterno.  Il   tema  in questione spinge  a una riflessione che  tocca anche  l’attuale  sistema  dell’asilo .  In  quale  misura  i  principi  umanitari,  per  quanto  elaborati  in  un’ottica   universalistica,   sono   radicati   nel   contesto   storico   che   li   ha   prodotti?   Quale   ruolo   giocano   le    strumentalizzazioni  politiche  e  la  volontà  di  delegittimare  (o  al  contrario  non  danneggiare)  il  paese  di   origine dei profughi nelle decisioni sul conferimento dell’asilo? Quanto i processi di categorizzazione che  tendono a dividere profughi e migranti economici in compartimenti stagni contribuiscono a materializzare  le  ca tegorie  stesse?  L’oblio  nel  quale  la  storia  dei  profughi  durante  la  guerra  fredda  è  caduto  può  essere   messo in relazione con le attuali scelte europee in materia di asilo e migrazione?

Francesca  Rolandi  ha  conseguito  un  dottorato  di  ricerca  in  Slavistica  presso   l’Università  di  Torino  nel  2012.  Ha  successivamente  sviluppato  una  ricerca  post -dottorato  sui  flussi   migratori e il sistema dell’asilo durante la guerra fredda, con un particolare focus su Italia e Jugoslavia. Ha  pubblicato       Con  ve ntiquattromila  baci.  L’influenza  della  cultura  di  massa  italiana  in  Jugoslavia  (1955 – 1965) , Bologna, Bononia University Press, 2015.

Laura  Schettini,   Meglio  mal  accompagnate  che  sole:  esperienze  e  politiche  di  mobilità  femminile  tra   Otto e Novecento     Questo  contributo  tratta  di  esperienze  di  mobilità  di  giovani  donne  italiane  nel  periodo  a   cavallo  tra   Otto e Novecento, attraverso una lente particolare: la documentazione  istituzionale prodotta in Italia intorno  7 SOCIET À ITALIANA DELLE STORICHE Donne e uomini migranti  : rotte, scambi, contaminazioni nel lungo periodo Roma, 30 novembre -2 dicembre 2017 all’allarme  internazionale  per  la  “tratta  delle  bianche”,  oggi  conservata  presso  l’Archivio  centrale  dello   Stato   nel   fondo  Interpol.  È  un  insieme  documentario  particolarmente  ricco  e  stratificato,  attraverso  cui  è   possibile  lavorare  su  diverse  questioni:  la  nascita  del  mercato  globale  del  sesso,  l a  mobilitazione   dell’opinione pubblica , la nascita della polizia internazionale, ma anche – appunto – aspetti importanti delle  migrazioni e della mobilità femminile verso le colonie, il C entro e Nord Europa,  le Americhe. La “tratta delle bianche” è entrata  nel discorso pubblico negli anni Ottanta dell’Ottocento, assumendo  da  subito  la  fisionomia  di  una  vera  e  propria  emergenza  sociale.  La  campagna  coinvolse  governi,   associazionismo femminile, polizie, stampa e cinema, agenzie internazionali e paventava l’esistenza di una  rete  internazionale  di  trafficanti  di  giovani  donne,  per  lo  più  europee  e  statunitensi.  Con  la  violenza  o   l’inganno (false promesse di lavori rispettabili), si riteneva che i trafficanti conducessero all’estero donne  per  lo  più  minorenni  e  possibilmente  di  classe  media  o  comunque  rispettabili  per  poi  venderle  come   “schiave del sesso” in remoti bordelli delle colonie, nelle grandi città europee, nel C entro e Sudamerica, in  Oriente.    Allarme  dai  confini  indefiniti  ed  estesi,  è  stato  occasione  d i  una  intensa  attività  giudiziaria  e   investigativa,  nonché  di  inchiesta  sociale,  a  maglie  larghe,  rivolta  alle  potenziali  vittime  della  tratta.  A   partire  dagli  ultimi  anni  dell’Ottocento  e  in  maniera  significativa  durante  i  primi  due  decenni  del   Novecento,  le  partenze  e  i  transiti  delle  donne  dai  porti  e  dalle  stazioni  italiane  sono  state  i  larga  misura   filtrate attraverso i dispositivi di controllo attivati per contrastare la tratta.  Attingendo  alla    documentazione  relativa  ad  alcune  inchieste  su  spostamenti  sospetti  di  donne,  ma   anche  alle  politiche  di  contrasto  adottate  e  prodotte  dal  Ministero  degli  Interni  e  degli  Affari  esteri,  dalle questure  –    soprattutto  delle  città  portuali  –,  dall’Ufficio  centrale  italiano  per  la  repressione  della  tratta   presso  la  Direzione  generale  di  pubblica  sicurezza  e  dalle  autorità  coloniali,  la  riflessione  si  svilupperà   quindi  su  due  piani.  In  primo  luogo  ci  chiederemo  in  che  misura  la  mobilitazione  contro  la  tratta  delle   bianche  si  sia  tradotta  in  una  sovraesposizione  della  dimensione  sessuale  nei  progetti  migratori  e  di   mobilità femminili (soprattutto di quelli pensati al di fuori delle reti familiari di artiste, prostitute, balie). In  secondo luogo, discuteremo le implicazioni che le pratiche di polizia hanno avuto per le donne coinvolte in  questi  “casi”,  verificando  come  le  politiche  di  contrasto  attivate  si  siano  prevalentemente  indirizzate  alle   donne “sospette” (perché prostitute, artiste, nubili, giovani) traducendosi in misure di schedatura, controllo  e limitazione dell a mobilità femminile.

Laura  Schettini ,   assegnista  di  ricerca  presso  l’Università  di  Napoli  ‘l’Orientale’,  si  è    laureata  in   storia  all’Università  di  Roma  Sapienza  e  dottorata  in  Storia  delle  donne  e  delle  identità  di  genere   all’Università  di  Napoli   ‘L’Orientale ’.  I  suoi  interessi  di  ricerca    si  focalizzano  sulla  storia  sociale  e   culturale  in  età  contemporanea,  con  particolare  attenzione  alla  storia  di  genere  e  della  scienza.  Tra  le  sue   pubblicazioni :  Il  gioco  delle  parti.  Travestimenti  e  paure  sociali  tra  Otto  e  Novecento ,  Firenze,  Le   Monnier,  2011 (libro vincitore del  premio SISSCO Junior 2012 ) ;     La violenza contro le donne nella storia.  Contesti, linguaggi, politiche del diritto (XV -XXI , a cura di con S. Feci, Roma,  Viella 2017.