Tra i cittadini stranieri a Roma le donne sono più della metà e lavorano soprattutto come collaboratrici domestiche e familiari. Gli ultimi dati dell’Osservatorio romano sulle migrazioni

Articolo di Mariapaola Nanni

L’area romana rappresenta da sempre uno dei fulcri del panorama dell’immigrazione in Italia. Fin dagli anni ’70, quando il paese era ancora attraversato da flussi residuali in uscita e solo incipiente era il cambio di rotta che presto lo avrebbe trasformato in un importante polo di immigrazione, la capitale ha rappresentato uno spazio di attrazione e di insediamento privilegiato per i cittadini di origine straniera. Un protagonismo che dura tuttora e che ha via via coinvolto crescenti porzioni di territorio.

I dati raccolti nella dodicesima edizione dell’Osservatorio romano sulle migrazioni –  presentato il 25 maggio a Roma dal Centro studi e ricerche Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” – evidenziano come la Città Metropolitana di Roma continui a essere la prima provincia in Italia per numero di residenti con cittadinanza straniera (529mila all’inizio del 2016, il 10,5% del totale nazionale), in 7 casi su 10 raccolti sul solo territorio della Capitale (365mila). Come a dire – pur non considerando l’ampio gruppo di quelli che nel corso degli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana, 9mila solo nel 2015 – che i cittadini di origine immigrata rappresentano ormai un ottavo dell’intera popolazione locale: il 12,2% a livello provinciale e il 12,7% a Roma.

Al loro interno, le donne sono la maggioranza – il 52,8% in provincia, 280mila; il 53,1% a Roma, 194mila: un altro dato che si pone in continuità rispetto alla progressiva evoluzione del quadro migratorio romano, in cui la presenza femminile ha sempre giocato un ruolo di rilievo.

Fin dall’inizio, infatti, la migrazione verso la capitale è stata caratterizzata da una notevole presenza di donne, specchio di quel processo di “femminilizzazione” dei flussi migratori che negli stessi anni emergeva a livello globale. Cresceva, infatti, anche a Roma, una domanda di lavoro domestico non adeguatamente soddisfatta dal mercato interno, e crescevano, parallelamente, le donne protagoniste di migrazioni autonome finalizzate all’inserimento lavorativo all’estero: donne sole, che pur assecondando stereotipi e meccanismi di una canalizzazione lavorativa globale pregiudizialmente legati all’appartenenza di genere, sollecitavano – e continuano a sollecitare – delicati e molteplici processi di rinegoziazione dei ruoli e degli equilibri di genere nei contesti di partenza. Sono donne che potremmo definire “pioniere” delle migrazioni nella capitale.

Anche Roma, però, offriva loro – e per lo più continua a offrire – ruoli e funzioni in larga parte subalterni e tuttora legati in primo luogo alla dimensione di cura della casa e della persona: ruoli e funzioni per i quali erano – e continuano a essere – “selezionate” proprio in quanto donne, e in seconda battuta in quanto immigrate, ovvero a partire da meccanismi comunque riconducibili a logiche differenziali, nelle quali lo stereotipo legato ai ruoli di genere si somma e si confonde con quello proprio della condizione di straniero.

Nel frattempo, infatti, la collaborazione domestica e familiare, a Roma come altrove, ha assunto una spiccata connotazione “etnica”. E pur in un contesto fortemente mutato, complice la crisi, è verso questo ambito che le donne immigrate nel territorio romano – che siano sole o in famiglia, protagoniste di migrazioni autonome o ricongiunte – continuano a essere massicciamente convogliate.

A dare concretezza a tali valutazioni è ancora la fotografia scattata dal XII Rapporto dell’Osservatorio Romano sulle Migrazioni, che descrive uno scenario in cui la componente femminile, per quanto diffusamente attiva sul mercato del lavoro, sempre più diversificata e interprete di processi di autonomia via via più estesi e variegati – anche quando la migrazione è di stampo prettamente familiare -, appare in larga parte confinata in ruoli e percorsi “standardizzati”: quasi bloccata tra la dimensione domestica e la figura della collaboratrice familiare, secondo una dinamica che la crisi sembra aver ulteriormente rafforzato, almeno nei suoi risvolti più concreti.

I dati sui titolari di permesso di soggiorno continuano ad attestare come per una quota di rilievo delle cittadine non comunitarie (e titolari di un permesso a tempo determinato) presenti nell’area romana, il lavoro rappresenta il primo motivo del trasferimento, oltre che il principale canale di inserimento e radicamento sul territorio. Al 36,4% di loro, infatti, è stato rilasciato un titolo di soggiorno per motivi di lavoro: una quota non molto distante, per quanto inferiore a quella delle titolari di un permesso per famiglia (42,5%), che comunque consente l’inserimento lavorativo e che, a livello nazionale, riguarda oltre la metà delle soggiornanti non comunitarie (55,4%).

I dati Inail sugli occupati nati all’estero, d’altra parte, ci dicono come su oltre 282mila immigrati occupati nella Città Metropolitana di Roma, oltre i due quinti sono donne (43,2%), mentre i dati dell’indagine sulle forze lavoro dell’Istat confermano come queste abbiano sofferto meno gli effetti della crisi: dal 2008 al 2015 il tasso di disoccupazione degli stranieri nella stessa area è passato dal 7,2% al 13,7% per gli uomini e dall’11,6% all’11,2% per le donne. Il rovescio della medaglia, come accennato, è un’ulteriore spinta alla concentrazione nel settore della collaborazione domestica e familiare: “settore rifugio” davanti all’onda d’urto della crisi e alla progressiva restrizione di un ventaglio di opportunità già di per sé limitato; ma anche settore quasi obbligato, dal quale con crescente difficoltà ci si riesce ad emancipare.

Ne discende che sul territorio romano ben il 42,4% dei lavoratori stranieri è occupato alle dipendenze di famiglie o di convivenze, con ruoli di cura della casa o della persona, a fronte del 7% degli italiani. E si tratta principalmente di donne. Fatta eccezione per le collettività filippina e peruviana – e in parte per quella indiana – infatti, in cui la collaborazione domestica e l’assistenza alla persona rappresentano i principali bacini di impiego anche per gli uomini, per i restanti gruppi nazionali protagonisti dell’immigrazione capitolina (romeni, bangladesi, polacchi, moldavi, ucraini) il lavoro domestico e di cura è sostanzialmente un “lavoro da donne”. Proprio questi ambiti – affiancati da mansioni quali la cameriera o l’addetta alle pulizie – rappresentano infatti i principali bacini di impiego per le donne di tutte le nazionalità appena richiamate.

Da un lato, quindi, una presenza femminile molto attiva nel mercato occupazionale e che spesso nel lavoro ha trovato il primo motivo del trasferimento, dall’altro una evidente difficoltà ad emanciparsi – su vasta scala – da ruoli e funzioni pre-stabiliti sulla base dell’appartenenza nazionale e di genere (e non dei percorsi formativi e professionali pregressi).

Si evidenzia, così, quanto le pur potenti dinamiche di emancipazione spesso insite nella scelta e nell’esperienza migratoria possano perdere parte della loro efficacia davanti ai rigidi meccanismi di canalizzazione che orientano i percorsi di inserimento nei contesti di arrivo: meccanismi che non raramente possono assumere una valenza discriminatoria, finendo per relegare le donne immigrate in ambiti circoscrittii, predefiniti e ulteriormente limitati rispetto a quelli delle donne autoctone.

C’è molto da fare, quindi, perché il cammino verso la parità sia compiuto, e se strumenti come l’Osservatorio offrono una base di valutazione di innegabile importanza, restano da valorizzare nel concreto le indicazioni che ne derivano. Restano da mettere in campo, in altri termini, politiche di intervento efficaci nel promuovere le pari opportunità anche in un’ottica integrata, che valuti le complesse interazioni tra le discriminazioni legate all’appartenenza nazionale e quelle di genere.  (25-05-2017)

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