Avevo sentito parlare di un insediamento, “il ghetto”, dove molti ragazzi usciti dall’accoglienza in situazione instabile (come succede nel 85% dei casi in base alla mia esperienza a Roma), si ritrovano per organizzare insieme una dimensione alloggiativa alla loro portata. Non ho mai avuto il tempo di fare sopralluoghi, schiacciata dai ritmi di lavoro come operatrice sociale in un centro di accoglienza; non ho mai forzato il riserbo di quei ragazzi che timidamente ogni tanto tornano al centro a trovare i loro amici, passati dalle ristrettezze di un centro di accoglienza alla rudezza di stabili in disuso (the jungle life mi ha detto un ragazzo). Però avendo sentito prima dello sgombero del “Baobab” martedì, da un ospite etiope che lì andava a dare aiuto come mediatore linguistico, poi dell’arrivo giovedì mattina presto di camionette della Polizia per un intervento simile a Via Vannina, finalmente sono andata a rendermi conto. Ho messo da parte il ruolo di operatrice e ho recuperato il mio ruolo di ricercatrice antropologa.

Da Ponte Mammolo ho preso il bus 040, ma ci va anche lo 041, e sono scesa ad una fermata giusto accanto l’ex fabbrica spettrale in cemento armato che sta a destra di una Via Tiburtina ingolfatissima, dopo Rebibbia. Sono entrata e ho parlato con una famiglia Rom che ha detto che lì problemi non ce n’erano, invece un anziano africano mi ha spiegato che dovevo scendere due fermate dopo, andando oltre sulla Tiburtina. Dopo la seconda fermata camminando a piedi ho girato a destra per Via Tivoli e lì dopo una decina di metri ho trovato tre uomini seduti su un cumulo di valigie. Li ho salutati e ho chiesto – facendo capire che sapevo dello sgombero – se fosse stato detto loro dove dovessero andare adesso. Stanchi e tristi mi hanno detto che c’è stato solo l’ordine di andare via da lì.

Ho proseguito la strada fino ad un incrocio mentre si faceva più evidente la presenza di un insediamento dato che qualche ragazzo passava, a piedi o in bicicletta. A destra, all’inizio di una strada in terriccio, trovo un uomo e una donna nigeriani, un uomo africano che parla spagnolo e un adolescente. La donna in inglese mi dice anche lei che sanno di dover andare via, le loro cose sono accumulate in strada ma non hanno idea di dove andare:«Hai portato da mangiare?» Chiede. Spiego che sono una persona che si occupa di immigrazione da molto (28 anni) e l’africano che parla spagnolo dice: «Immigrazione: allora sei della Questura o dell’Ufficio immigrazione!» «No, sono una che ricerca e aiuta» cerco di fare capire. L’uomo continua dicendo che nel paese dove il primo è il Papa loro sono stati lì senza nessuna assistenza o cure mediche e neanche in Africa si vive in quel modo. La donna subentra scoprendo la pancia e mostrando la cicatrice di un intervento chirurgico: nonostante questo adesso sono fuori dalla loro casa e non sanno cosa fare. Passa un uomo e dice che nessun bianco è buono e va via. L’altro uomo nigeriano in inglese dice che non è giusto che in Italia se si perde il lavoro si perde anche il permesso di soggiorno. Negli altri paesi c’è l’assistenza. Il ragazzino si scusa perché non parla bene l’italiano ma invece si esprime bene. Lui è guineano, deve compiere quindici anni, lunedì ha l’esame della Terza Media ma adesso non c’è più la luce e in questa situazione non riesce a studiare. Vive col padre, la madre e un fratellino. Il padre lavora ma non ha i soldi per pagare un affitto. Li ha lasciati dall’altra parte e sta qui. L’uomo che parla spagnolo dice che ha bisogno di un avvocato per il permesso di soggiorno, poi racconta agli altri che ha perso una borsa con centoventi euro e dei vestiti. Mi fanno capire che il vero e proprio insediamento è in fondo alla via di fronte, Via Vannina.

Ci vado e mi avvicino a un poliziotto chiedendo gentilmente informazioni. Altrettanto gentilmente l’uomo mi dice che lui sa solo che deve stare lì. Mi avvicino ad altri quattro poliziotti (le camionette a guardia sono due, ci sono anche due automobili). Cerco di avere qualche informazione sul futuro e ancora mi colpisce il pacato imbarazzo di questi lavoratori che si guardano e dicono che non sanno nulla, non c’è un disegno, stanno eseguendo ma sanno solo di quel frammento di azione: piantonare. Se voglio posso però parlare con “la dottoressa”. E’ una donna in borghese che sta parlando a telefono concitatamente. Aspetto un po’, poi vedendo che è impegnata mi faccio avanti ed entro, dopo aver costeggiato un cumulo di immondizie lungo il muro di cinta. C’è un cortile-entrata, dritto avanti a me un muro con un passaggio che dà su delle stanze allineate a sinistra, mentre a destra si entra in un enorme stanzone. La situazione qui è molto animata, molti sono seduti, accovacciati, vicini a valigie stracolme. Una donna nigeriana mi dice di non andare dentro da sola perché sono tutti uomini, mi chiede se ho portato da mangiare e getta stancamente una valigia vuota su un mucchio di altre piene. C’è un primo bambino che spensierato gioca con frammenti di specchio e salta. C’è chi fuma, qualcuno beve birra e la stragrande maggioranza sta rallentata: sono stanchi, prostrati, sospesi. Qui ci abitavano circa cinquecento persone.

In poco tempo incrocio un susseguirsi di ex ospiti dei centri dove ho lavorato. Prima un ragazzo della Guinea Bissau che ospitavamo a Ciampino, poi un uomo ghanese che abbiamo dimesso da dieci giorni e subito mi sciolgo. Mi dice che non è andato all’ultimo appuntamento con il C.O.L. “Gino Giugni”perché non valeva la pena, sapendo della dimissione. Invece gli dico che era importante andare perché l’operatrice doveva fargli ottenere il riconoscimento dei titoli (ingegnere navale, meccanico) tramite il CIMEA. E’ lui che mi fa entrare nello stanzone dove c’è un vasto gruppo familiare nigeriano con una donna e dei bambini. Poi entra una donna anziana seguita da un giovane ghanese che le porta un pesante bagaglio: è un ospite che ancora è nel centro di Ponte di Nona che frequenta gli amici in questo posto. Mi racconta che oggi ha fatto la prova di italiano – il componimento di una lettera -per l’esame della Terza Media al “Nelason Mandela”. Spiego ad entrambi i miei conoscenti che sono venuta a rendermi conto e a cercare di trovare insieme alla società civile qualche rimedio. Accenno che ho anche la macchina fotografica. Un uomo dice che ieri è venuta una donna bianca che era una spia della Questura. Spiego che non sono né una spia né una giornalista, sono una persona che vuole vedere e poi informare per stimolare una soluzione. I miei due conoscenti dicono che posso fare le foto, il ghanese si offre di farle lui per non irritare e io gli lascio la macchina fotografica. Due, tre nigeriani alticci protestano ma i miei conoscenti si impongono, dicono che mi conoscono: «This woman is my operator!» e la maggioranza capisce. Il rispetto degli human rights è l’espressione che più li convince. Parlo con la donna nigeriana nello stanzone, che anche è favorevole alla mia documentazione. Dice che da ieri non mangiano, non possono cucinare, mostra i figli e dice che non c’è mai stata la presenza di qualche assistente sociale. Racconta che i poliziotti sono stati gentili, qualcuno ha dato calci alle porte ma hanno portato la gente in Questura solo per un controllo – molti hanno il permesso di soggiorno – . Sono tutti rientrati, ma con la prospettiva di dover andarsene.

Nello stanzone si intuisce che lungo le pareti c’erano delle stanze, in fondo ci sono altri vani ma nessuno ha l’orgoglio di mostrare il posto, anzi. Arriva un altro giovane senegalese, ex ospite del centro di Ciampino. Nonostante avesse conseguito la Terza Media e dopo la dimissione avesse frequentato su mio suggerimento un corso di informatica tramite il Programma Garanzia Giovani (con grande soddisfazione da parte dei formatori) abita qui, lavorando come volantinatore.   Con lui c’è un altro senegalese ex ospite di Ciampino, venuto dalla Germania per rinnovare il permesso di soggiorno e fare il passaporto, ospitato calorosamente dal suo amico. La solidarietà fra africani è fortissima, che si provenga dallo stesso villaggio, dalla permanenza in Libia o dallo stesso barcone durante la traversata del Mediterraneo.

Ritrovo un altro ex ospite gambiano del centro di accoglienza di Ponte di Nona. Lui è uno che noi femministe dovremmo trattare come un eroe, perché è stato perseguitato per avere protetto la sorellina dalle modificazioni genitali, invece è eroe solo per sé, per la sua dignità: chiude a chiave la sua boutika (negozietto) di tabacco e cordialmente mi saluta. Anche lui, che ha frequentato durante il periodo di accoglienza un corso di viticoltore all’Istituto Agrario Giuseppe Garibaldi, sta lì.

(Inutilmente avevo evidenziato in un workshop a Via Assisi in novembre che ci dovrebbe essere una deroga per i richiedenti asilo al principio che gli iscritti al Programma Garanzia Giovani debbano essere non impegnati nei corsi scolastici, perché il tempo di accoglienza è troppo breve. I giovani richiedenti devono studiare e formarsi professionalmente ottenendo possibilmente la Terza Media (quando già scolarizzati, se analfabeti non c’è il tempo materiale). Il mio suggerimento non è stato nemmeno messo a verbale, nel mondo dell’accoglienza oggi le osservazioni degli antropologi non contano).

Il ragazzo ghanese mi fa cenno di riprendermi discretamente la macchina fotografica che ha messo nella sua borsa a tracolla e si offre di accompagnarmi alla fine di Via Vannina. Molti mi dicono che i poliziotti hanno detto che lunedì torneranno a controllare. Altri africani rimasti muti e tristi ripetono che è “un grande problema”.

Scorgo su un muretto un quadernetto che attira la mia attenzione per la bella calligrafia regolare. Dopo gli esercizi di grammatica delle prime pagine vengono i temi, la descrizione delle attività, in buon italiano. Rivedo il ragazzino guineano che va in bicicletta con uno zainetto sulle spalle e gli dico fermamente che deve andare lunedì a fare l’esame di Terza Media. Me lo promette. Mi salutano, un uomo in buon italiano si scusa dicendo che è tutto ok, gli africani a volte sono un po’ coloriti. Strette di mano.

Esco e non trovo più le due camionette e “la dottoressa” con la quale volevo parlare per sapere se dopo questo intervento è previsto un secondo step, un rialloggiamento, o se si è trattato solo di sfasciare il castello.

Lungo Via Tivoli incrocio una coppia e dopo poco abbraccio lui, un altro ospite nigeriano di Ponte di Nona, uno di quelli che non ha fatto una piega per le dimissioni, si alzava prestissimo la mattina per andare a lavorare molto lontano, per questo era diventato un fantasma. Verso  la fine della strada incrocio i primi tre uomini trovati svoltando dalla Tiburtina: tornano mestamente trascinandosi le valigie per dormire al coperto. Gli offro delle sigarette e mi ringraziano ossequiosamente.

Alla fermata dell’autobus sotto il palo giallo si erge un totem di valigie, faccio la mia seconda foto. Dopo poco arriva un ennesimo ex ospite di Ciampino/Ponte di Nona della Guinea Bissau, che mi dice che da sei mesi vive lì. Lavora un po’ come volantinatore, un po’ come muratore con un rumeno. Mi informa che vivono lì un altro ex ospite gambiano del centro di accoglienza di Ciampino e un altro ex ospite gambiano di Ponte di Nona. Insomma in totale ho ritrovato nove giovani transitati da centri di accoglienza dove ho lavorato.

Come ho già detto introducendo un workshop su migrazione e asilo il 25 marzo durante il summit delle sezioni europee della Women’s International League for Peace and freedom in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma, il modello di accoglienza attuale non è in grado quasi mai di consentire ai protetti umanitari, sussidiari e rifugiati di raggiungere l’autonomia e le occupazioni ne sono una prova tangibile. Non che tutti gli abitanti di Via Vannina siano dei protetti, ci sono anche degli immigrati, ma è un fatto sconcertante che un intervento pubblico si risolva nel levare e basta, nel punire e basta, chi non ha niente.

Per questo la comunitas romana deve fare qualcosa e la società civile nelle sue varie componenti deve negoziare una soluzione civile, creativa e soprattutto umana a questo “grande problema”, anche investendo le risorse umane giuste, con idee nuove e spostando le risorse da un’economia di guerra alla Pace.

( Patrizia Sterpetti WILPF ITALIA. Roma 9 giugno 2017)