Laboratorio di studi femministi Sguardisulledifferenze: Le donne e la creatività. Il quinto incontro si tene venerdì 16 marzo alle ore 16 alla Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di studi europei, americani e interculturali Piano III aula Seminario

Il «Laboratorio di Studi femministi Anna Rita Simeone» è un luogo di scambio, trasmissione e ricerca. Rappresenta uno dei primi tentativi di inserire nell’Università una prospettiva di ricerca, di confronto teorico e di dialogo sui molteplici saperi delle donne, basata sulla lettura critico-analitica dei testi e sullo scambio tra generazioni. Il «Laboratorio» ha la sua sede nella Facoltà di Lettere e filosofia della Sapienza Università di Roma.

Nel grembo della mente: maternità e creazione è il titolo di questo seminario che si pone due interrogativi:  O si fanno figli o si fanno libri?” e   A che punto è l’esperienza e la riflessione su uno dei nodi più importanti dell’identità delle donne: la libertà di creare e procreare?

Sull’argomento ne prleranno,  con Maria Serena Sapegno, Fabrizia Giuliani, Caterina Botti, Tommaso Gennaro

l’incontro farà perno su due testi:

 Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità di  Francesca Rigotti (Torino, Bollati Boringhieri, 2010)  —  In “Partorire con il corpo e con la mente” l’autrice mette in luce il rapporto tra maternità e filosofia che la tradizione filosofica, mitologica e letteraria, ha reso problematico a causa di un apparato ideologico rigidamente divisorio rispetto alle competenze dei generi. Avvalendosi di un approccio definito ‘analogistico’ e ‘metaforologico’, proprio del genere della ‘filosofia della vita quotidiana’, l’autrice intende ricostruire quel rapporto ripensando ‘la maternità alla luce della filosofia e la filosofia alla luce della maternità’  nel loro profondo nesso con la creatività; compito difficile in mancanza di una relativa tradizione di pensiero che consenta di gettare luce sul problema con più sicurezza. Tante, infatti, le domande che si sovrappongono nel corso del testo, articolato in capitoli che tematizzano i rispettivi poteri creativi – fisico e mentale – da diverse prospettive, incastrate in modo densamente articolato a mo’ di ‘«scaglie di pesce»’ .

La ‘zavorra della storia’  con cui fare i conti consiste in un panorama culturale generalmente denigratorio non solo rispetto al femminile, ma nello specifico al potere procreativo delle donne, nelle forme della rimozione e del ‘furto’. Il fatto del mettere al mondo è esistito nell’immaginario filosofico e letterario come nascita del figlio piuttosto che come parto della madre, ma ‘nascita e parto non sono lo stesso evento’ , e trascurare sistematicamente la “dualità” del momento procreativo significa dimenticarlo; il parto, quando  considerato, risulta ‘anomalo, dal momento che la madre è assente’, all’insegna di un’autentica rimozione della figura materna nei contesti che pure raccontano della generazione: è l’‘oblio del parto’. Come ‘in molti dialoghi platonici quali Fedro, Teeteto o Simposio, la seduzione e l’inseminazione mentale sono una faccenda tutta di uomini in cui non c’è posto per le donne’, così i miti stessi, dalla funesta Pandora a Pallade Atena “nata dal capo” di Zeus;  e l’immaginario, che parla di cavoli e cicogne per raccontare la procreazione, perpetrano l’oblio del parto e della maternità. Determinante in ciò il contributo di una ricchissima tradizione filosofica e letteraria, la cui sottesa ‘prospettiva epistemica riserva all’uomo la testa, alla donna, e in particolare alla madre, il cuore’  che definisce naturali delle caratteristiche femminili in modo ideologico e strumentale, laddove ‘l’essenza della donna non è altro che una facile etichetta da appiccicare quando conviene. È la cultura ad attribuire dei caratteri che poi, per comodità di alcuni e pigrizia di altri, vengono definiti naturali’ .

Eppure, questa grande assente dalla storia che è la maternità, emerge là dove i filosofi e i letterati di parto e di generazione hanno parlato, appropriandosi del campo semantico del parto fisico della donna per usarlo, mediante “traslazione metaforica”, in riferimento alla creazione intellettuale: ‘«abortire» un’idea, «nutrirla» e «alimentarla», oltre che «concepirla» e «partorirla»; la «nascita» di un progetto «in embrione»; il «concetto» come prodotto di una mente «fertile» (in caso negativo «sterile»), da «partorirsi» con gran «travaglio» (…) per poi «venire alla luce» attestando la «paternità» dell’idea stessa (mai però la «maternità»)’ . La filosofia è allora il parto, “nobile”, dell’uomo.

Tale assenza costituisce il presupposto di un’espropriazione. La superiorità del parto spirituale maschile è l’aspetto che emerge prorompente, in una gerarchizzazione che risulta inoltre coerente con l’ideologia – talvolta implicita, spesso dichiarata – secondo cui la procreazione fisica femminile esimerebbe la donna dal bisogno e finanche dalla capacità della creazione culturale. La divisione in compartimenti stagni dei generi e delle rispettive competenze prende forma, dunque, attraverso un meccanismo espropriativo che, sottolinea l’autrice, è importante inquadrare nel contesto del più ampio “paradosso di Arianna”: il furto da parte dell’uomo di ogni capacità tradizionalmente femminile, sistematicamente relegata all’ambito del concreto, del basso, del quotidiano, la cui nobilitazione deve giocoforza passare per l’appropriazione maschile – dalla cucina alla tessitura passando per il contatto con l’acqua, che in mano femminile sono banali attività domestiche, e in mano maschile diventano prestigiose.

Tale rigida divisione competenziale, tracciata su uno sfondo fortemente essenzialista, evoca ulteriori polarizzazioni concettualmente discutibili perché nascondono dicotomie ideologiche forti, come quella astratto/concreto, dove il primo è maschile, il secondo femminile: entrambi rinviano a un giudizio di valore netto per cui l’astrazione sarebbe superiore a ciò che è ‘basso, creaturale, terrestre’  come la maternità, mentre, a guardar bene, riflette Rigotti, l’astrarre della filosofia è etimologicamente un “detrarre” tramite selezione dal concreto, dunque semplificazione del complesso; ciò che è concreto risulta invece meno semplice da affrontare dacché ‘la concretezza richiede invenzione di alternative’ .

Ribaltata la prospettiva dicotomica e le basi della pretesa nobilitazione, Rigotti rileva che se tali sono state le rappresentazioni di filosofia e maternità, quest’ultima parrebbe inconciliabile con il lavoro intellettuale, che tradizionalmente richiede dedizione, costanza, continuità, tempo e silenzio. L’autrice trasforma questo lascito storico problematico in una domanda: è proprio vero che aut liberi aut libri (per le donne, mai per gli uomini)? Non potremmo parlare piuttosto in termini di vel vel o di et et? Hanno davvero ragione quei filosofi che attribuiscono, in modo reciprocamente escludente, la creatività fisica alla donna e quella mentale all’uomo? La prospettiva antiessenzialista aiuta a gettare luce sulla risposta: se, come insegna Rorty, non esiste una natura dell’uomo, e ciò vale parimenti per la donna, lo stesso deve valere per la filosofia – tanto più che se questa necessita di tempo, la mancanza di tempo è un problema che oggi accomuna tutti/e, madri e non.

La riproposizione critica del retaggio filosofico e la sua attiva problematizzazione, precede la pars costruens del libro, che riflettendo sulla vita di G.E.M. Anscombe e sul testo di Sara Ruddick The maternal thinking (1989), prospetta un nuovo modo di interpretare il rapporto tra maternità e filosofia. Tale rapporto non è necessariamente come ci è stato raccontato: lo dimostra la vita di Anscombe, geniale allieva di Wittgenstein, che riuscì ad essere madre e filosofa, il cui messaggio filosofico Rigotti interpreta servendosi di una chiave concettuale inusitata, quella appunto della maternità. L’anticonsequenzialismo e lo stesso concetto di intenzione elaborati dell’autrice di Intention (1957) sono letti da Rigotti alla luce del suo essere madre, la cui traccia è rinvenibile nella sua filosofia, costituendone un vantaggio speculativo. Vantaggio che Ruddick riassume nelle virtù dell’amore e dell’attenzione, alle quali Rigotti aggiunge ‘programmazione, coordinamento, organizzazione’ , ‘simboli di conoscenza’ relativi al ‘pensiero materno’. Sviluppando le riflessioni proposte nel volume Donna m’apparve [a c. di N. Vassallo, Codice Edizioni, 2009], l’autrice ricorda che il pensiero materno è, al pari del pensiero nomade di Deleuze, un paradigma trasversale, non, dunque, una specificità cognitiva propria delle madri di fatto (ciò esporrebbe nuovamente al rischio di una deriva essenzialista), bensì un simbolo di conoscenza riferito alle qualità cognitive che l’esercizio della maternità sollecita, perciò trasferibile ad ogni contesto.

Esiste, dunque, non solo la concreta possibilità di conciliare ciò che si credeva incompatibile, l’esercizio della maternità e quello della filosofia, in virtù della passione per entrambe, grazie alla disponibilità alla fatica e al sacrificio; ma anche un potenziale cognitivo della maternità, la quale, in linea con il ribaltamento della dicotomia ideologica astratto/concreto, ha molto più a che fare con la genesi del giudizio morale e del giudizio estetico, dunque con la filosofia, di quanto si sia voluto credere nei secoli: ‘tutte le capacità, anche le più astratte, nascono come pratiche corporee’ .

Trasferendo i risultati della riflessione al tema della creatività, Rigotti può ora parlare di ‘furto della creatività’: ‘il fatto’, preannunciato, ‘che il processo creativo mentale viene spiegato con metafore materne’ nasconde un meccanismo meno innocente del “semplice” “trasferimento del noto all’ignoto” impiegato generalmente nel processo metaforico. Dietro l’espropriazione finanche semantica si cela, infatti, ‘una descrizione valutativa in senso negativo, dispregiativa quindi, dal momento che l’identica terminologia che usiamo per descrivere la produzione di figli cartacei e di figli carnali non presume affatto che tutti gli esseri umani possano generare gli uni e gli altri. Passa tra gli uni e gli altri infatti il famoso confine di gender che dice inesorabilmente: alle donne i figli di carne, agli uomini i figli di carta’. Se la ‘metaforica della creatività’  fortemente contrassegnata dal lessico materno ha fra l’altro  motivato l’espressione derridiana di “fallogocentrismo”, d’altra parte c’è chi, come George Steiner, ha affrontato di petto la questione chiedendosi se l’appagamento dato dalla poiesis fisica alla madre non fosse la spiegazione della sua pressoché totale assenza nella produzione culturale. Ma resta discutibile, sottolinea Rigotti, argomentare sulla base di ciò una presunta inferiorità delle donne, mettendo nuovamente in guardia dal rischio di una ricaduta essenzialista.

La rimozione della maternità in senso espropriativo ha condotto ‘nella maggior parte delle mitologie e delle religioni’ (p. 98) persino a sottostimare la nascita dalla madre mediante l’introduzione di una seconda nascita, spirituale, nel ‘tentativo di «nobilitare» la dottrina  mettendo a distanza l’ingresso nel mondo da ventre femminile e ignorando il ruolo della donna, la cui presenza svaluta e impregna negativamente ogni fenomeno cui venga collegata: persino la nascita’ di cui è, dopotutto, ‘coprotagonista’. Ciò è vero poiché, continua Rigotti in riferimento ai cristiani, ‘attraverso la propria madre si viene in un mondo di dolore e di morte, nello sporco, inter faeces et urinas; tramite Cristo, «in Cristo», si nasce alla gioia e alla vita eterna. Infatti, il battesimo è un rito di purificazione nel quale il nuovo nato viene pulito e lustrato dalla contaminazione dalla madre’, realizzando una sorta di ‘nascita sostitutiva’ (p. 117) tutta maschile. L’autrice invita dunque ad “accontentarsi” ‘dell’unica nascita, dell’unica vita e dell’unica morte che in verità ci competono’ per capire ‘in che relazione esse stiano con le nostre capacità uniche e a noi peculiari, in particolare con la creatività’.

In un crescendo di suggestioni, articolato all’interno di una densa trama di riferimenti filosofici e letterari, il testo di Francesca Rigotti si conclude con un excursus breve e intenso sulla creatività, proponendo nel capitolo Delle cose prime una riflessione sul modo in cui i filosofi hanno ragionato sul principio, le origini, la nascita (Heidegger, a Arendt, a Sloterdijk, e altri). L’obiettivo è quello di ‘pensare a una creatività ispirata davvero alla maternità, alla nascita e al parto’, aggirando il processo espropriativo del “paradosso di Arianna” rispetto al quale questo libro è un valido antidoto.
L’altro libro è quello di  Vegetti Finzi Silvia, Il bambino della notte, 1990  L’autrice, psicoanalista milanese nota per la sua “Storia della psicoanalisi” e studiosa dei processi e dei contenuti della femminilità, propone in questo suo ultimo libro, che si avvale tanto di strumenti psicoanalitici quanto di riferimenti storico-antropologici, la ricostruzione del processo che porta la donna a divenire psichicamente, ancor prima che fisicamente, madre.
Attraverso la presentazione di alcuni casi di bambine in trattamento, Silvia Vegetti ci introduce alle fantasie di maternità delle bambine e a quella produzione fantastica, “il bambino della notte”, che è “condensato immaginario di tutte le parti di sé perdute insieme alla onnipotenza infantile”: una fantasia autogenerativa, sganciata dal rapporto sessuale, e legata a un autonomo senso di pienezza e realizzazione. Se la crescita comporta da parte di entrambi i sessi la rinuncia alle fantasie onnipotenti, il distacco dalle fantasie partenogenetiche da parte della bambina – in una società segnata dalla svalorizzazione della maternità – si risolve però in una totale rimozione dell’antico sogno, e con esso delle proprie autonome capacità creative, fissando la ragazza all’attesa che sia infine una presenza esterna (il principe azzurro) a colmare un vuoto originario. Al bambino della notte, alle fantasie di autogenerazione, sepolte profondamente nell’inconscio ma rintracciabili attraverso i miti dell’antichità, viene sostituito il bambino sociale, il ruolo di brava figlia o specularmente quello di “maschiaccio”. La bambina, cui non è stata trasmessa la consapevolezza di questa originaria possibilità di accesso alle proprie facoltà generative e al rango delle madri, diventa incapace di radicare la propria identità nella specificità del sesso di appartenenza.
Per l’autrice la procreazione è un processo fisiologico e insieme ideativo, un modo di essere della persona al di là della meta della filiazione fisica. Maternità è una cifra simbolica ed etica, in grado di avviare non soltanto la definizione della singola identità, ma un processo di ridefinizione dei valori su cui si fonda la società umana.
Si tratta per le donne, maggiormente in un periodo in cui l’onnipotenza medica della riproduzione artificiale ripropone l’antico tentativo di controllo sul corpo femminile, di recuperare la dimensione complessiva del progetto materno, fondato sul riconoscimento del limite e sulla capacità di coniugare l’identificazione con il figlio con la separazione da lui, la cura per l’altro con la cura di sé, il legame simbiotico con il processo di emancipazione della persona.