In occasione della GIORNATA IN MEMORIA DELLE VITTIME DELL’IMMIGRAZIONE – prevista dalla legge 45/2016.

La  Casa Editrice Paoline la Fondazione Nilde Iotti ha organizzato la presentazione del libro “L’isola dei Giusti. Lesbo crocevia dell’ umanità” , di Daniele Biella.L’evento avrà luogo il 3 ottobre 2017, ore 16,30 presso la Sala Isma del Senato, Via Capranica 72 Roma.

LIVIA TURCO Presidente  della  Fondazione “Nilde Iotti” aprirà l’incontro.

Intervengono DANIELE BIELLA Giornalista e Autore del libro,  DOMENICO MANZIONE  Sottosegretario di Stato  all’Interno,  FILIPPO  MIRAGLIA Vicepresidente vicario ARCI,  DANIELA POMPEI Responsabile Migranti Comunità di Sant’Egidio,  ROBERTO ZACCARIA Presidente del CIR,  Modera ANNALISA CAMILLI Giornalista di “Internazionale”

 

L’desione alla presentazione del libro deve pervenire entro il 27 settembre 2017 scrivendo a  info@fondazionenildeiotti.it

Il  libro di Biella  racconta  sette storie di altrettante persone che simboleggiano quella straordinaria normalità che, di fatto, ha permesso di salvare centinaia di vite umane da annegamenti e assideramenti e aiutarne altre centinaia di migliaia a recuperare le forze, come ha ben sottolineato papa Francesco durante la sua intensa visita sull’isola il 16 aprile dello scorso anno. 

Lungo le spiagge dell’isola di Lesbo, a dare un primo soccorso alle 600mila persone in fuga da guerre e privazioni arrivate via mare tra il 2015 e il 2016 (su un’isola di 80mila abitanti) in prima fila non c’erano le autorità: c’erano normali cittadini, centinaia se non migliaia, persone accorse da tutto il mondo per aiutare.  Ma soprattutto gli abitanti dell’isola – una grande Lampedusa, abitata da parenti di profughi stessi scappati dalla Turchia a causa della guerra greco-turca del 1922 – le cui storie rappresentano il cuore del libro «L’isola dei Giusti»,  uscito per edizioni Paoline, scritto dalla giornalista Daniele Biella.

Una nonna, un pescatore, la proprietaria di un albergo, una ristoratrice, una giovane mamma e regista, un prete, uno scultore: sono sette Giusti, in rappresentanza di moltissimi altri, raccontati lungo tutto l’arco delle loro vite nello sfondo di un’isola che da tempo ha dentro di sé l’antidoto a razzismo, xenofobia e diffidenze che colpiscono oggi una parte di questa Europa.

Al tramonto, quando il mare diventa una placida distesa di acque cristalline, le rive di Skala Sikamineas raggiungono il culmine della loro bellezza: assieme alla vicina città arroccata di Molyvos, sono i luoghi che nessun viaggiatore vuole mancare nel suo passaggio a Lesbo.

La tranquillità che si respira nel porticciolo è affascinante quanto la gentilezza mai adulatrice e quasi arcigna di chi ci vive. In una delle taverne che si affacciano sul mare della piazzetta principale, nel primo pomeriggio, ci si può imbattere in una persona che ben corrisponde a tali caratteristiche: un cameriere dalla pelle scolpita dal sole, quarantunenne, che non si risparmia fra i tavoli sebbene di lì a qualche ora dovrà iniziare un altro lavoro che fa da ventuno anni, da quando è stato talmente ammaliato dalle acque di Skala da non volere più tornare nell’entroterra dove viveva. Così il pescatore  Stratos Valiamos con  la nonna 84enne Militsa Kamvysi  sono diventati un simbolo, tanto da essere candidati al Nobel per la Pace 2016

Non si troverà mai riscontro in nessun registro ufficiale di qualsivoglia ente marino, ma se c’è una persona che più di tutte è testimone del dramma che accade nel breve tratto di mar Egeo tra Skala Sikamineas e la costa turca lì di fronte, quella persona è Stratos. Volente o nolente.

Perché con la sua presenza in mare aperto è riuscito a salvare – issandoli con le proprie mani sul peschereccio o chiamando in soccorso la Guardia costiera greca – un numero indescrivibile di profughi.

Nello stesso tempo ha visto tanta, troppa gente inabissarsi o rimanere a galla senza vita tra le onde di quel mare che lui continua testardamente ad amare alla follia, una volta sbollita la rabbia per la sorte di vittime innocenti.

Sono nato e ho vissuto i miei primi vent’anni in un villaggio sulle montagne, a quindici chilometri da Skala Sikamineas. Poi è accaduto: ho visto questo mare e tutto è cambiato. Da allora il mare mi dà da vivere ma soprattutto è parte di me, quanto lo sono mia moglie Stratoula – che ho conosciuto e sposato qui, un anno dopo essere arrivato – e mia figlia Mixaela. Non riuscirei a starci lontano per molto tempo. Nella mia vita finora ho viaggiato per più giorni una volta sola, a Salonicco, e già al secondo giorno ho avvertito la mancanza della mia barca. È vero, in mare ci muore tanta gente: ma la responsabilità di quanto accade è delle persone. Di persone criminali che dalla Turchia mettono gommoni in acqua carichi di profughi anche quando il mare è in tempesta e noi pescatori non usciamo a lavorare. L’unica differenza, forse per lavare una coscienza infame, è che con il brutto tempo i trafficanti fanno pagare il viaggio quattrocento dollari a testa anziché mille.

A pensarci bene, è l’uomo che sviluppa la malvagità dentro di sé e debellarla è l’unica via. Se mai ci fosse vita al di fuori del pianeta Terra, sono dell’idea che nessun extraterrestre con un minimo di intelligenza ci contatterebbe, perché nel giro di un paio di giorni l’essere umano troverebbe un motivo per catturarlo e sterminarlo, o anche in meno tempo se vedesse la possibilità di accumulare ricchezze.

È un’anima tosta, Stratos. Un paio di tatuaggi sulle braccia evocano storie da marinaio vero quale è, del resto. Lui, gli altri pescatori e ogni abitante di Skala Sikamineas, oltre a essere in gran parte figli o nipoti di rifugiati, sono anche gli eredi in carne e ossa di una delle opere letterarie più belle della Grecia contemporanea, quella The Mermaid Madonna, «La Madonna sirena», ambientata nel paesino costiero e avente come fulcro principale proprio la chiesetta posta sulla roccia d’ingresso al porto, Panagia i Gorgona («La Madonna sirena» in greco): è qui che viveva il protagonista, il capitano di una nave, prima di scomparire nel nulla lasciando dietro di sé, nella chiesa, un dipinto raffigurante una bellissima Madonna con la coda di pesce, a conferma del tragico mito delle sirene ammaliatrici decantate fin dai tempi dell’Odissea di Omero.

L’autore della novella fa accadere l’evento proprio nel 1922, quando migliaia di profughi greci fuggono dall’Anatolia e si rifugiano a Lesbo. Molti di loro si fermano ai piedi di Panagia i Gorgona, vedendo in quella Madonna sirena un chiaro segno divino e iniziando a venerarla come stavano già facendo gli abitanti di quel borgo, destinato a diventare il villaggio di Skala Sikamineas: un luogo dove solidarietà e semplicità sono valori incisi nel dna di tutta la comunità, allora come oggi.

Stratos conosce bene il libro, scritto dal quasi omonimo e soprattutto conterraneo Stratis Myrivilis, nato nel 1892 proprio sulla collina dietro Skala e assiduo frequentatore del porticciolo, dove, all’ombra del grande gelso in riva al mare che ancora oggi affascina i visitatori, componeva le sue opere.

È proprio nei pressi del gelso, in compagnia dell’onnipresente pappagallo multicolore ara del bar lì a fianco – che sa cantare brani famosi di musica pop e ha rappresentato un attimo di svago per i tanti bambini passati da Skala – che Stratos siede a riposare qualche minuto, ogni tanto, al ritorno dalla notte di pesca. Prima di incontrare il mare, in famiglia era lui il ribelle. Fin dai primi passi di una vita intensa, iniziata il 31 dicembre di quattro decenni fa. «Ero controcorrente e ostinato, a casa come a scuola, ma senza causare chissà quali problemi ai miei genitori», racconta di sé con un sorriso. È impressionante il suo sorriso: dolce, sotto la scorza di durezza di tanti anni a tu per tu con il mare. Lo hanno ben presente la sua unica sorella di tre anni più grande e specialmente sua figlia, che gira con le amiche attorno ai tavoli dove il papà sta facendo il cameriere e, soprattutto, sa quali tasti toccare per sciogliere questo padre all’apparenza burbero ma nel profondo empatico senza remore. «Papà, mi fai un autografo?», gli domanda scherzosa, ogni volta che qualcuno chiede di lui al porto per fargli delle foto o viene citato in televisione o sui giornali, in particolare dopo la candidatura al Nobel.

Del resto, Stratos non è una persona a cui piace mettersi in mostra: fino a poco tempo prima i giornalisti li evitava ma l’enorme attenzione ricevuta dalla nomination l’ha convinto a mettersi in gioco. Ora o mai più, per fare capire al mondo quello che accade sotto il naso dell’Unione Europea, per contribuire a cambiare qualcosa nella gestione dell’accoglienza di chi viene dal mare.

Mi arrabbio e divento una furia, quando sento di qualcuno che dice cose contro i profughi. Fortunatamente da nessuno dei miei amici ho sentito frasi come «lasciamoli in mare » o qualcosa del genere, ma so che altrove qualcuno lo pensa.

Ebbene, spero che chi la pensa così un giorno provi sulla sua pelle cosa significa diventare profughi, viva fino in fondo il trauma della guerra o delle violenze indiscriminate in patria, il dolore di lasciare tutto e l’incognita del futuro. Forse così potrà capire.

Nessuno lascia la propria casa se lì ha una vita degna di essere vissuta. Quando lo fa, che sia per guerra, problemi diversi o semplicemente in prospettiva di una vita migliore, va rispettato, anche solo per il fatto che porta con sé la tristezza di tagliare i ponti con tutto quello che era prima la sua vita.

C’è stato un periodo, dopo la metà del 2016, in cui ogni giorno con la mia piccola barca da pescatore recuperavo persone dall’acqua, salvandole da morte certa. È stato ed è tremendo, ogni volta. Sono arrivate seicentomila persone l’anno scorso, sei-cento-mila! E mai, sottolineo mai, abbiamo avuto paura che succedesse qualcosa di male a noi isolani. Non un comportamento scorretto, non un problema di ordine pubblico. Non una controversia a causa di diverse religioni: io sono cristiano, so che le persone che ho aiutato sono soprattutto musulmane, in nessun momento e per nessun motivo chiederei a qualcuno il proprio credo prima di dargli una mano. Del resto, se fossi nato a poche miglia di distanza da qui, in Turchia, probabilmente sarei anch’io musulmano. Quello che vedono i nostri occhi guardando queste persone da vicino è solo tanta disperazione interiore, mista a sollievo per avercela fatta ad arrivare sani e salvi sul suolo europeo.

Ogni profugo rivolge tanti, tantissimi ringraziamenti a chi è lì a portargli conforto e aiuto: tutte queste anime ricorderanno, una volta superati i momenti difficili, l’accoglienza ricevuta. E sapranno ricambiare. «Se mi porti i dolci, poi io ti porterò a mia volta i dolci», diciamo da queste parti. Se c’è qualcuno bisognoso di aiuto, io

lo aiuto e basta. Nel giugno 2016, per esempio, è arrivata con il marito e i figli una donna siriana che ha perso la vista a causa di una bomba caduta sulla propria casa: aveva bisogno di essere guidata per tutto, dal bere al lavarsi, molta gente del paese le è stata vicina.

La nostra solidarietà l’abbiamo dimostrata finora e lo faremo anche in futuro, senza esitazioni. Mia figlia stessa, che ha dieci anni e da quando è nata vede arrivare profughi dal mare, è pronta a dare una mano. Purtroppo, è normale per lei e i bambini di Skala, come di altre parti dell’isola, assistere a quanto accade. Spero che un giorno non debba arrivare più nessuno in questo modo, ovvero che non ci siano più luoghi da cui scappare. Ma questa speranza, per chissà quanto tempo ancora, rimarrà vana. (Da La Stampa)