GulsunKaramustafa_testataDurerà fino al 21 maggio 2017 alla Galleria 5 del MAXXI  Please Come Back.

Oggi che la comunicazione globale vuol dire anche controllo globale, che in nome della “guerra al terrore” post 11 settembre vengono applicati metodi disciplinari alle comunità, che la condivisione figlia di internet e dei social network smantella la nostra privacy, la parola prigione assume significati decisamente nuovi.

26 artist* e oltre 50 opere raccontano il carcere come metafora del mondo contemporaneo e il mondo contemporaneo come metafora del carcere: tecnologico, iperconnesso, condiviso e sempre più controllato

Lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali, l’avvento dei social network, l’utilizzo dei Big Data, hanno progressivamente e inesorabilmente cambiato la nostra società che assiste al crollo delle filosofie di condivisione sociale e urbana e all’instaurarsi di un nuovo regime che, in nome della sicurezza, ci spoglia, con il nostro consenso, di ogni spazio intimo e personale.

L’opera Temps Mort di Mohamed Bourouissa è visibile ogni sabato dalle 15 alle 19

GIANFRANCO BARUCHELLO – ELISABETTA BENASSI – ROSSELLA BISCOTTI – MOHAMED BOUROUISSA – CHEN CHIEH-JEN – HARUN FAROCKI – CLAIRE FONTAINE – GÜLSÜN KARAMUSTAFA – H.H. LIM – BERNA REALE – SHEN RUIJUN – ZHANG YUE

La figura del carcere è entrata nell’iconografia dell’arte contemporanea secondo una molteplicità di direttrici: sociale, politica, esistenziale, simbolica. Dietro le mura della prigione l’arte è arrivata in maniera diretta attraverso un’esperienza personale di reclusione dell’artista, come nel caso di Gülsün Karamustafa, detenuta in Turchia negli anni Settanta e, più recentemente, di Zhang Yue in Cina. Se in questi casi è prevalsa la dimensione cronachistica legata alla vita quotidiana, in altri episodi gli artisti hanno adottato un’ottica storica, concentrandosi su episodi emblematici come il carcere di Santo Stefano, fra i primi esempi di applicazione del modello del Panopticon (nel caso di Rossella Biscotti) o la figura dell’attivista americana Angela Davis, che ha combattuto una battaglia per l’abolizione della galera (cui è dedicato il lavoro di Elisabetta Benassi); la prigione viene assunta come riflesso della storia del proprio paese nel lavoro di Chen Chieh-Jen, nato dai ricordi personali dell’infanzia a Taiwan. Il sottotesto politico di sensibilizzazione nei confronti dei diritti umani si fa esplicito nell’azione di Berna Reale, che porta la luce della torcia olimpica all’interno delle carceri brasiliane. Il regime visivo che governa lo spazio della detenzione è al centro dell’analisi di Harun Farocki che, attraverso le videocamere di sorveglianza della prigione di massima sicurezza a Corcoran (California), esplora il complesso intreccio fra sguardo, potere e tecnologia. Il tempo è invece la dimensione indagata da Gianfranco Baruchello, attraverso interviste ai detenuti di Rebibbia e Civitavecchia. Lo stesso tempo morto ritorna nel lavoro di Mohamed Bourouissa, nato dalla collaborazione clandestina con un detenuto attraverso un telefono cellulare. All’adesione al dato reale si contrappone la trasfigurazione lirica dell’universo penitenziario nella pittura di Shen Ruijun e il valore metaforico esplorato da H.H. Lim, che richiama la gabbia mentale di auto-sorveglianza in cui ognuno di noi è imprigionato. La stessa apertura semantica è pronunciata dalla scritta al neon di Claire Fontaine, che evoca spazi disciplinari dischiudendo dimensioni ulteriori.

RÄ DI MARTINO – CARLOS GARAICOA – REM KOOLHAAS e ELIA ZENGHELIS con MADELON VRIESENDORP e ZOE ZENGHELIS – LIN YILIN – JILL MAGID – MIKHAEL SUBOTZKY – SUPERSTUDIO

Lo spazio della prigione non è delimitato dalle sue mura, ma si estende alla realtà urbana attraverso i regimi di controllo e sorveglianza: la città contemporanea si trasforma in una prigione. Su questi aspetti si è concentrata in particolare la riflessione nella stagione dell’architettura radicale, che fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento ha sviluppato una progettualità sotto il segno dell’utopia. Fra i primi gruppi a inaugurare questa strada, Superstudio immagina nel 1969 il monumento continuo, un modello di urbanizzazione globale che si pone “come unica alternativa alla natura”. Tre anni dopo, Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis con Madelon Vriesendorp e Zoe Zenghelis propongono una zona circoscritta da un muro all’interno della città di Londra, in cui gli abitanti diventano “prigionieri volontari dell’architettura”. Il tema del muro ritorna più recentemente nel lavoro di Carlos Garaicoa, che prende spunto da una vicenda quotidiana per ripercorrere la storia dei muri simbolo di divisione politica e strumento di reclusione da parte del potere. Il volto più familiare del regime di controllo nello spazio urbano è incarnato dalla rete di videocamere di sorveglianza, diventate presto uno strumento nelle mani degli artisti. Mikhael Subotzky, ad esempio, presenta senza alcun intervento i filmati forniti dalla polizia di Johannesburg. È invece un uso “affettivo” dell’apparato di controllo a caratterizzare il lavoro di Jill Magid, che ricerca “relazioni intime con strutture impersonali”: i suoi video sono realizzati in collaborazione con il sistema di sorveglianza di Liverpool. Quello urbano è il teatro scelto per la messa in scena di azioni e performance. Lin Yilin riproduce una scena di privazione di libertà vista casualmente, come una sorta di test per sfidare le reazioni di fronte a comportamenti estremi, ponendo a confronto due contesti diversi (Haikou in Cina e Parigi). Anche Rä Di Martino trasforma la città (in questo caso Bolzano) nel fondale di una messa in scena al confine fra realtà e finzione: l’artista riporta in vita il fenomeno dei dummy tanks, i finti carri armati utilizzati durante le due guerre mondiali a fini propagandistici.

JananneAl-Ani_Shadow-Site-150x150Oltre i muri

AES+F – JANANNE AL-ANI – SIMON DENNY – OMER FAST – DORA GARCÍA – JENNY HOLZER – TREVOR PAGLEN – ZHANG YUE

La sorveglianza contemporanea si caratterizza come un fenomeno onnipervasivo, portando la prigione al superamento del dominio fisico. Su queste pratiche erano fondati storicamente i regimi autoritari, come l’ex Repubblica Democratica Tedesca: lo sfondo – tuttavia non esplicitamente dichiarato – del video di Dora García. L’11 settembre ha segnato un cambio di paradigma nell’ambito del fenomeno della sorveglianza, definita – a parere degli esperti del settore – come “pratica organizzativa dominante della tarda modernità”. Questo nuovo orizzonte è stato esplorato dalle ricerche artistiche soprattutto di area anglosassone: la politica americana della cosiddetta “guerra al terrore” è oggetto della vasta analisi di Jenny Holzer, che ha lavorato su documenti desecretati; le rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di controllo della National Security Agency hanno suggerito il progetto di Simon Denny, incentrato sulla nuova estetica tecnologica; l’invisibilità su cui si fonda l’apparato di controllo viene decostruita da Trevor Paglen, che rende visibili dispositivi come i satelliti o i sistemi di cablaggio sottomarini, evocando la tradizione della pittura di paesaggio e dell’astrazione. Quella aerea ha rappresentato una fra le aree di maggiore espansione della sorveglianza negli ultimi anni, con lo sviluppo di una estetica del drone: l’opera di Jananne Al-Ani riproduce la prospettiva del velivolo simbolo delle guerre del ventunesimo secolo, investigando diverse tipologie di siti in Medio Oriente; Omer Fast racconta invece una conversazione con un operatore di droni statunitense, muovendosi fra la dimensione documentaria e quella di finzione. A un approccio artistico di matrice prevalentemente realistica si accompagna una linea visionaria. Rinnovando una tradizione iconografica risalente almeno al sedicesimo secolo, AES+F immagina un universo capovolto, in cui i ruoli di carnefice e vittima risultano invertiti. Anche Zhang Yue prefigura future guerre o arriva all’iperbole di un piano per la distruzione degli Stati Uniti.