Articolo di Mirella Armiero pubblicato oggi 11 marzo 2018 su Alfabeta2

Claudio Parmiggiani, sculture d’ombra -squilibri 2010 – un artista che ha collaborato con Jean Luc Nancy

— Un nuovo concetto di corpo, oltre la tesi spettacolarizzante di Debord; le relazioni del corpo stesso con il mondo; una inedita declinazione del soggetto come variazione costante e quindi l’affermazione di una “soggettività plurale”. La filosofia di Jean-Luc Nancy ha attraversato e scardinato numerosi punti chiave del dibattito postmoderno. E anche nel campo del politico il pensatore francese ha tracciato delle coordinate diverse dal passato per orientarsi nel mondo contemporaneo, a partire dal discorso sulla “comunità”, che non si basa su un rapporto astratto o immateriale, ma è un “essere in comune”, un “essere insieme”. Così Nancy scriveva nella Comunità inoperosa (tradotto in Italia da Antonella Moscati per Cronopio nel 1986). Lo stesso tema riappare in Verità della democrazia (tradotto da Moscati insieme a Roberto Borghesi per la stessa Cronopio nel 2008), scritto a quarant’anni dal maggio francese del ’68. Da qui parte il nostro dialogo, nel cinquantenario del movimento, spesso negli ultimi anni messo sotto accusa.

Nel suo libro Verità della democrazia lei avviava la sua riflessione sul Sessantotto partendo da una considerazione, ovvero quella di ritenere scandalosa e grossolanamente ingenua la tesi che il Sessantotto avesse condotto al relativismo morale e al cinismo sociale. Oggi, oltre queste tesi, circola l’idea che il Sessantotto sia stato l’inizio della diffusione di massa della cultura neoliberale. Cosa ne pensa?

Altro punto che lei trattava: il Sessantotto mette in discussione le certezze democratiche dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. In che modo questa riflessione può essere ereditata oggi, dopo dieci anni, in piena crisi delle democrazie?

Le due domande sono strettamente collegate. In effetti, poiché il ‘68 ha messo in discussione le certezze democratiche che si sono installate fin dal 1945, si può dire che il ‘68 è stato anche il segnale dell’abbandono di una certa fiducia progressista e socialista: quindi una sorta di accettazione della cosiddetta società dei consumi e del neoliberismo.

Ma perché è successo? Per una ragione molto profonda: la sicurezza progressista-socialista era già stata distrutta fin da prima del 1939, ma non si voleva vederlo. Il 1945 ha segnato una fase molto ambivalente: da un lato la vittoria sul fascismo e la riaffermazione della democrazia; dall’altro, con la vittoria degli USA, l’inizio della colonizzazione americana dell’Europa e parallelamente la colonizzazione sovietica, che già aveva dimostrato di non essere per niente socialista.

opera di Simon Hantai artista che ha collaborato con Jean Luc Nancy

Tra il 1945 e il 1968 c’era stato un grande sforzo per ricreare un “vero” marxismo (trotzkista o maoista) o per trovare un “vero” socialismo (socialdemocratico, come non si aveva ancora l’abitudine di chiamarlo). Ma la verità era già quella dello sviluppo tecnico ed economico. Nel 1968, la società scoprì di essere superata da un movimento che non riusciva a identificare: quello creato dal binomio produzione/consumo, dalle profonde trasformazioni del lavoro, dell’energia, eccetera.

Di conseguenza il ’68 si divise in due tendenze: da un lato all’adattamento al nuovo mondo e dall’altra a sospendere, a fermare le false posizioni rivoluzionarie. Siamo oggi nella persistenza di questa doppia constatazione. Si tratta ormai della globalizzazione a fronte della completa paralisi politica. Ciò dimostra che quello che nel ’68 era una “crisi” (rimediabile) è in realtà un cambiamento molto profondo della civiltà.

Oggi non viviamo una “crisi” della democrazia: in realtà non sappiamo assolutamente più cosa significhi “democrazia”. Certamente conosciamo i “diritti umani” (e diritti degli animali, diritti delle piante, eccetera) ma dentro una realtà inumana di egemonia tecno-economica.

Questa egemonia però comincia a essere in difficoltà: l’aumento della povertà da un lato, la decomposizione dei parametri (nazionali, culturali, di potere) dall’altro, portano a crescenti resistenze. Ma non esiste un orizzonte “classico”, né politico, né morale, né civile per guidare un movimento. Non può esserci finché non ci sarà una profonda trasformazione della società: del suo “umanesimo”, della sua “razionalità”, del suo “progresso”. Questa trasformazione è in corso, ma sarà molto lenta e molto lunga…

Se non sappiamo più che cosa è democrazia, forse potremmo riprendere del ’68 quella che lei ha definito “l’esigenza di reinventare la democrazia” e di farla essere “anche comunismo”. Come farlo oggi?

Se non sappiamo cosa sia la democrazia, significa che questa parola non ha più senso. Sappiamo cosa sono lo Stato di diritto, i diritti umani, le libertà fondamentali, il principio di uguaglianza… ma “democrazia” significava qualcos’altro: una società in cui queste definizioni formali fossero reali e dove il potere (cratos) fosse in grado di realizzarle per il popolo (il demos) e dal popolo.

Il muro morto lavoro di Abbas Kiaristami artista poliedrico: pittore, regista, fotografo, amico di Jean Luc nancy

Ora, per noi è molto difficile sapere cosa sia un popolo ed è altrettanto difficile sapere che cos’è il potere. La gente assume nei nostri tempi un accento più comunitarista che ‘demotico’ – oserei dire – e il potere non è più quello delle istituzioni “democratiche” ma quello delle potenze tecno-economiche.

Dunque non direi più, al giorno d’oggi, che dobbiamo “reinventare” la democrazia. Dobbiamo piuttosto inventare qualcos’altro. In primo luogo, dobbiamo capire perché la democrazia non è mai stata “se stessa” (né “diretta” né “rappresentativa”). E perché è stata in realtà la forma politica più adatta alla crescita moderna del capitalismo industriale e imprenditoriale.

Lei ha scritto che la democrazia non è una forma politica, ma uno “spirito” che tende a mettere in comune non tanto dei beni scambiabili, ma ciò che non ha valore misurabile, che non porta “profitti”, come accade nell’arte, nell’amicizia, nell’amore, nel pensiero. Se la democrazia non è identificabile con la politica, quale rapporto è auspicabile tra democrazia e politica?

La questione è tutta qui. Sotto il nome di “democrazia” il mondo occidentale è passato da un significato propriamente politico – il significato della democrazia greca, che era quello di un regime politico organizzato dai cittadini, cioè i soli proprietari di una certa fortuna patrimoniale e appartenenti a un certo numero di casate riconosciute. Ma da cui le donne, gli schiavi e gli stranieri erano esclusi.

Nel suo significato moderno la democrazia si indirizza a tutti, e come tale non implica nessun principio di determinazione della cittadinanza. Dunque non ha alcuna ragione di non essere mondiale! E tuttavia noi non smettiamo di sperimentare il bisogno di avere delle determinazioni “nazionali” – sebbene ignoriamo di fatto che cosa sia una “nazione”. La storia attuale della Catalogna è a questo proposito esemplare. La “democrazia” come forma politica deve dunque autodeterminarsi, cosa assai difficile in quanto non si sa chi sia e cosa sia il “sé” ovvero il “soggetto” di questo “auto-”.

Ma allo stesso tempo l’estensione e la trasformazione moderne della democrazia significano altro: indicano una trasformazione antropologica attraverso il desiderio di dare alla vita degli uomini un senso propriamente e interamente umano (non sottomesso al divino, né alla tecnica né alla morale). Ora, un “senso umano dell’uomo” è un’esigenza spirituale (lo “spirito” a cui si rifaceva Marx) di straordinaria difficoltà. Abbiamo appena cominciato a inoltrarci nella questione. Appena dopo il Rinascimento (e il capitalismo): uno spazio troppo breve. Noi siamo appena usciti dalla preistoria. Non la preistoria della democrazia (politica) ma la preistoria dell’umanità stessa e di quella che io vorrei chiamare non democrazia ma “demotica”, riprendendo il termine che, nell’egittologia, designa la lingua popolare per distinguerla dalla lingua sacra (la ieratica, con la sua scrittura geroglifica).

Che senso ha oggi, a cinquant’anni di distanza, rievocare o mitizzare il ’68?

Il ’68 non ha bisogno di essere ricordato o mitizzato. Il ’68 è stato già costituito come una mitologia. Vale a dire, come l’espressione di per sé (perché quello è il mito, a differenza del logos che è l’espressione di un “altro”, di una ragione anonima) di un momento della storia occidentale. Questa storia era stata concepita come un progresso ininterrotto, un progresso economico, sociale e politico: la grande Democrazia capitalistica, tecnicistica e giurisprudenziale.

Questa Democrazia ha sentito dentro di sé nascere dubbi. Nel film di Nanni Moretti, Bianca, si può ascoltare un elogio ambiguo e interessante del ’68 come un rifiuto della società giustamente autosoddisfatta nel processo di soddisfarsi da se stessa (non ho il testo sottomano, è una breve sequenza nella prima parte del film). Questa stessa società, diventata di “consumo” e quindi “di godimento”, è oggi in crisi acuta e più che mai critica di se stessa e preoccupata per il suo futuro. Il che significa che il ’68 era un preludio o un segnale di avvertimento.

Ciò che era mitico nel ’68 era la convinzione di potere, hic et nunc nel presente, lasciare che il presente dicesse sé stesso, indipendentemente dal passato e dal futuro. Senza memoria e senza progetto. Sotto un altro aspetto c’era un progetto, una rivendicazione socioculturale, emancipatrice del modello classico. Ma questo aspetto non era il vero nodo. Questo nodo non era mai “emancipatorio”: esso affermava una sospensione delle ideologie progressiste a favore di un godimento immediato e senza programma. Rifiutava o destituiva così le politiche di sinistra come quelle di destra, pur essendo assolutamente “di sinistra” nel senso di una richiesta integrale della giusta espressione di tutti.

Perciò, il ’68 non è stato superato – anche se non è più d’attualità (non nell’atto, ma ancora in potenza). Proprio come le rivoluzioni non sono obsolete, perché i loro impulsi e le loro richieste – chiamate “democrazia” e “socialismo” – sono sempre presenti come esigenze, sebbene sprovviste di attualità.

Ma ciò che non viene superato non è detto tuttavia che sia da ricominciare daccapo. Non c’è mai una ripetizione. C’è un segnale che è stato dato e che oggi è amplificato, prolungato e trasformato. È diventato un segnale per tutta la civiltà moderna.

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Jean-Luc Nancy  Dopo aver completato gli studi di filosofia a Parigi, ottiene il suo dottorato con un lavoro su Immanuel Kant con Paul Ricoeur. Nel 1968 diventa assistente all’Université Marc Bloch a Strasburgo dove successivamente detiene una cattedra. Ha insegnato anche a Berkeley, Berlino, Irvine e San Diego.   

Il suo pensiero si è articolato su diversi piani. Dalla riflessione più strettamente politica (di particolare importanza le sue ricerche sulla comunità e le più recenti sulla decostruzione del Cristianesimo) a quella più vasta sull’arte e l’estetica (significativo in questa direzione il testo “Le Muse”). Molto interesse hanno suscitato i suoi libri autobiografici sulla condizione di trapiantato di cuore (“Corpus” e “L’intruso”). Ha collaborato con numerosi artisti, in diversi campi: Claudio Parmiggiani, Claire Denis, Mathilde Monnier, Abbas Kiarostami, Simon Hantai.