“La società dei beni comuni”, una rassegna a cura di Paolo Cacciari (Ediesse, 2010) è un libro da discutere. Perché il libro è composto di 20 saggi (più l’introduzione di Paolo Cacciari), saggi che non sono soltanto le articolazioni di un discorso, non sono semplicemente risposte parziali alla domanda posta all’inizio dell’introduzione.Come si riconoscono e qual è la loro importanza? Quali sono le modalità di gestione più appropriate?”), ma sono, almeno in parte, risposte fra loro diverse, che portano ad altre domande.

Per questo una recensione non può essere un riassunto del libro (anche perché vale la pena di comprarlo e leggerlo), ma consiste nel {{sottolineare quelli che sono, secondo me, i punti cruciali, le domande con più risposte, qualche volta senza risposta}}.

Tanto per cominciare, {{non c’è univocità sulla definizione di bene comune. }} Scelgo quella che a me torna di più, che mi sembra più efficace.

{{Il concetto di bene comune rompe la dicotomia pubblico-privato,}} che è concetto giuridico, ha a che fare con la proprietà e la gestione di un bene.
Il bene comune invece è definito prima di tutto dall’origine. Cito ancora dall’introduzione: “Nessuno può dire individualmente di averli prodotti” (i beni comuni). Questa caratteristica è evidente per quelli che percepiamo come naturali, l’acqua, l’energia, la biosfera nel suo insieme e nei suoi elementi, meno evidente, ma comunque individuabile, riconoscibile, per quelli che sono i “frutti della creatività sociale”, la cultura, la scienza, l’arte.

Ma ci soccorre un’altra caratteristica per completare questa definizione: {{i beni comuni sono le risposte a bisogni primari}}, sono necessari alla vita, nell’accezione più piena.

Chi mi conosce sa che non amo l’uso indiscriminato della parola vita, soprattutto quando viene usata da chi poi si disinteressa ai viventi, alle persone e alla loro quotidiana materialità. Ma in questo libro, in particolare nel bel saggio di {{Giuseppe De Marzo}} (pag. 137), ho trovato una definizione che mi ha colpito e convinto: “Rispetto della vita come asse portante delle relazioni fra i viventi”. Questa dimensione relazionale la ritroviamo, a ben guardare, in tutti i beni comuni.

{{Sui beni comuni fallisce la logica del mercato}}, visto come modo naturale, e migliore di qualunque altro, per gestire le risorse: fallisce perché, come è evidente, le consuma senza condividerle. Fra interesse economico e benessere generale non c’è una relazione automatica. Anzi c’è spesso, più che spesso, una contraddizione.

{{L’acqua ci dà un esempio}}, ormai noto: la gestione dell’acqua come merce implica che devo fare profitto. Ma per fare profitto devo incrementare i consumi. E questo è in palese contraddizione con il fatto che l’acqua, in primo luogo quella potabile, non è una risorsa illimitata. E non serve distinguere una proprietà che rimane pubblica da una gestione economica privata.

Circa due mesi fa, sull’inserto economico di Repubblica del lunedì, {{Massimo Giannini }} ha scritto un articolo che io ho letto come l’apertura della campagna referendaria (in difesa della privatizzazione). Per giustificare la sua posizione, Giannini affermava che la gestione pubblica dell’acqua è fonte di sprechi, di sprechi di acqua, per lo stato disastroso della rete idrica, e di sprechi di soldi, per la farraginosità dell’amministrazione. Ma che cosa ci dice che andrà meglio con la gestione privata? Anzi la contraddizione si è già verificata: come sappiamo, campagne per ridurre il consumo dell’acqua hanno avuto come esito l’aumento delle tariffe, per garantire il profitto del gestore. Certo, pubblico non vuol dire necessariamente statale, con un’amministrazione troppo accentrata, né, all’estremo opposto, comunale, con più di 8000 enti gestori!

Una gestione democratica dei beni comuni implica{{ un ripensamento del concetto stesso di democrazia}}, da declinare come partecipazione effettiva della cittadinanza alle decisioni. Se la democrazia partecipativa si deve misurare con la gestione dei beni comuni (come accade in altre parti del mondo, meno appiattite sulla democrazia rappresentativa), questo ci farà evitare di cadere nella trappola della partecipazione inutile, che non produce decisioni, ma pareri, consultazioni…

Nei mesi che sono passati dall’uscita del libro abbiamo più volte detto che {{anche la democrazia è un bene comune}}. Così come la vicenda FIAT e la miriade di vicende minori (minori come numero di persone coinvolte in ciascuna di esse, ma non meno importanti) ci hanno fatto spesso dire che anche il lavoro è un bene comune. L’allargamento dell’area d’uso del termine, del concetto, di bene comune, rende ancora più necessario che si vada avanti nel dibattito per fare chiarezza, costruendo insieme un glossario.

Questa chiarezza è tanto più necessaria quando dall’analisi teorica si passa alla {{narrazione delle buone pratiche}}. Pongo solo un paio di problemi. Il primo: come si definisce la comunità, che ha in gestione un determinato bene comune? Dove comincia e dove finisce? E quale rapporto fra diritti individuali e diritti della comunità? Dal saggio di {{Nadia Carestiato}} emerge una risposta che fa riferimento all’organizzazione dell’economia solidaristica presente ancora in parti cospicue di Africa, Asia e America latina (il non occidente, in fondo). Carestiato afferma: “il singolo individuo è strettamente legato alla sua comunità e l’esercizio dei suoi diritti collettivi sarà ammesso fintanto che esso manterrà rapporti con quel gruppo e sarà stabilmente insediato in quel territorio”. Ma l’esperienza delle migrazioni, incrociata con la riflessione femminista, fa emergere invece considerazioni abbastanza diverse. Personalmente mi sento di fare un’affermazione forte: una comunità ha diritti collettivi nella misura in cui rispetta e garantisce i diritti individuali di coloro che la compongono, uomini e donne. C’è forse più specularità che contraddizione fra queste due affermazioni, ma credo che ci sia comunque bisogno di un supplemento di riflessione sul concetto di comunità, sui suoi diritti, sui suoi poteri.

D’altro canto, e questo è una sorta di corollario del problema, come possono piccole comunità virtuose (comuni virtuosi, per es.), per quanto connesse in rete, contrastare un modello di dominio in cui il pubblico fatto istituzione è subalterno a un privato sempre più globalizzato?

{{Il secondo problema}}, che vorrei porre all’attenzione, riguarda la persistenza, nel linguaggio, e quindi probabilmente nel ragionamento di coloro che pur danno rilevanti contributi sul tema dei beni comuni, di {{un atteggiamento gender blind}}, cioè cieco al genere, cieco alle differenze di sesso e orientamento sessuale delle persone. Non mi interessa contare il numero delle autrici e il numero degli autori (questo di gran lunga maggiore), né calcolare, nella ricca e importante bibliografia, quanti sono i libri scritti da donne (pochi) su un totale di più di 100 titoli. Mi interessa di più sottolineare, con un certo dispiacere, che, a parte il riconoscimento dovuto a Elinor Ostrom, prima donna insignita del Nobel per l’economia, non vengono riconosciute alcune altre maternità concettuali. La riflessione sul limite, p. es., è stata al centro del percorso che, negli anni ’80, subito dopo Chernobyl, vide intrecciarsi ecologismo e femminismo, con risultati interessanti sia sul piano teorico che su quello politico.

Ancora: {{la relazione come paradigma positivo}}, tale da superare la visione di rapporti fra individui e gruppi tutta risolta sul piano delle leggi, è anch’essa in larga parte frutto di una riflessione femminista, che non ignora il pensiero maschile in materia, anche se da esso viene troppo spesso ignorata, con poche eccezioni ({{Ferraioli, Rodotà}}).

Concludo con una riflessione ancora a proposito di glossario: {{Petrella }} nel suo saggio attribuisce una responsabilità negativa (a mio avviso eccessiva) al termine{ governance}, che invece{{ Nadia Carestiato}}, utilizza nella sua accezione di governo, senza l’iniziale maiuscola, l’azione del governare, non il Governo, con la maiuscola, come istituzione. Mi piacerebbe che nel glossario della società dei beni comuni trovasse spazio una parola, in Toscana molto frequente, meno in altre regioni. {{La parola rigovernare}}, che significa quell’insieme di azioni che hanno al centro la lavatura di piatti e stoviglie, ma che, nell’insieme indicano il ripristino delle condizioni di partenza, dopo una fase di trattamento delle risorse (cucinare etc.) e una fase di consumo di esse (i pasti).
Ecco, {{r}}{{igovernare le risorse}}, {{rigovernare l’insieme dei beni comuni, rigovernare il mondo,}} potrebbe essere un bel programma di lavoro per donne e uomini nel tempo presente.