“Davvero gli uomini e le donne possono convivere senza che i primi siano
violenti con le seconde”?Una mia amica, oggi cinquantenne, mi confessò qualche tempo fa, che da
quando si era sposata, appena ventenne e fino al divorzio, (circa diciotto
anni dopo), veniva regolarmente picchiata dal marito. Lui, alcolista, aveva
quasi da subito rivelato il suo volto violento, dopo un breve periodo di
equilibrio durato i primi momenti del matrimonio.

Silvia, (la chiamerò così,) aveva dato per scontato, per decenni, che {{nelle
relazioni tra i due sessi la violenza fosse inevitabile}}, un accessorio
indispensabile che segnava il dover essere di un marito, uomo, compagno, nei confronti delle donne. In parte, a corollario di questa convinzione, trasmessa anche della madre di Silvia con il consenso del suo ambiente sociale, lei stessa pensava che una donna meritasse quel trattamento. Non stiamo parlando di una donna del profondo sud ( o del profondo nord )
deprivato e di una classe sociale disagiata, ma dell’esperienza di una donna
del nord Italia di classe media. Come vuole la tradizione sessista,
condivisa e tollerata, ad ogni latitudine, la sua vita è stata sottesa
dalla massima: “Arrivato a casa picchia tua moglie: tu non sai perché, ma
lei sì”.

Approdare, per Silvia, a porsi la domanda iniziale (“Davvero gli uomini e le
donne possono convivere senza che i primi siano violenti con le seconde”?) ha
rappresentato, per lei, alle soglie dell’età matura e con una figlia già
adolescente, {{l’inizio del percorso di riconoscimento della violenza}}. Quella
subìta, quella introiettata, quella trasmessa, quella potenzialmente
trasmissibile da lei a sua figlia.

Da alcuni decenni sono soprattutto le/gli studiose/i di psicopedagogia
infantile che lavorano su bambini e bambine traumatizzate a sostenere la
necessità di {{insegnare come riconoscere i pericoli}} che possono, purtroppo,
arrivare dagli adulti, quelli che dovrebbero essere loro alleati e
protettori. Dall’esperienza di ‘assecondamento’ e di accettazione della
violenza sui piccoli parte infatti la riflessione per capire come, senza un
adeguato input verso il riconoscimento dei propri diritti, il soggetto che
diventa oggetto di violenza non solo è destinato a subirla, ma spesso a
riperpetuarla a danni di altri in futuro, in una spirale senza fine.

{{Due
anni fa a Genova}}, in pieno centro cittadino, in una discoteca una
quattordicenne è stata violentata da un maggiorenne nei bagni del locale. Il
giorno dopo, durante il tragitto sull’autobus, ho ascoltato uno scambio tra
due adolescenti, pressochè coetanee della vittima: il loro dialogo, che mi è
parso atrocemente identico al ragionamento dei difensori degli stupratori
neofascisti Izzo e Ghira (quelli di *Processo per stupro) *verteva su:
quanto la vittima avesse in realtà collaborato, come e se la sua vita
sarebbe stata segnata dall’esperienza. In fondo non è morta, che cosa sarà
mai uno stupro? sembravano chiedersi. Ciò che quelle giovani donne stanno
testimoniando è la non consapevolezza che essere chiuse in un bagno da un
ragazzo che impone con la forza una penetrazione è violenza. Anche loro,
come la mia amica ormai matura, sono il frutto di una trasmissione di
informazioni sulla percezioni di sé, sulla natura delle relazioni tra i
sessi, sullo svilupparsi della sessualità, sul valore dell’inviolabilità del
corpo e dell’autodeterminazione che codificano {{il non essere, dello stupro,
un tabù}}, e come tale oggetto di censura e disapprovazione sociale.
{{
E’ di
oggi}}, e non sarà l’ultima notizia che dovremo leggere, la decisione di
inviare ad una struttura rieducativa due sedicenni che hanno stuprato (e poi
minacciato di morte se avesse parlato) una ragazzina di 12 anni; anche qui
il problema è che {{i due ragazzini stupratori non riconoscevano in quello che
avevano fatto un atto di violenza}}, tant’è che sono stati scoperti proprio
perchè si vantavano del gesto. In altri casi recenti persino le ragazzine
violentate, oltre alle intimidazioni che ne frenavano la denuncia dopo le
violenze subìte hanno raccontato che comunque non si erano sentite poi così
violate, visto che la promessa di filmare tutto con il cellulare e di
essere ‘protagoniste’ nel web era un evento e una opportunità di fama e
notorietà.

Anche qui si torna al problema iniziale: non c’è la percezione della
violenza sessuale, della vessazione del maschio perchè maschio sulla femmina
perchè femmina da parte di chi sta crescendo. La domanda è: {{gli adulti,
siano essi genitori/trici, insegnanti, formatrici e formatori nello sport
come nelle comunità cosa stanno trasmettendo su questo argomento?}}

In un clima globale bellico e militaresco, che ammette guerre umanitarie e
reazioni ‘comprensibili’ di ‘resistenza’ kamikaze, che tollera odio
razziale, razzismo nei fatti e nel linguaggio che ci si può aspettare? Se
non si riconosce e identifica la violenza, se non si rifiuta il paradigma
della forza come fondativo delle relazioni non ci può essere alcuna speranza
di convivenza umana pacifica e feconda. Alla base di questo percorso c’è {{la
necessità di riconoscere la violenza sulle donne come violenza primaria da
sradicare}}. Ce lo insegna, oggi, lo straordinario sforzo legislativo
spagnolo, che con la nuova legge contro la violenza in famiglia afferma: una
cultura violenta contro le donne originerà, a cascata, modelli violenti in
ogni altra manifestazione del suo corpo sociale. Riconoscerlo è
un’emergenza.