Francesca Bettio e Barbara Leda Kenny

È un dato di fatto: il rapporto di forza tra uomini e donne è cambiato nel tempo. Sì, ma quanto? I dati delle varie classifiche internazionali ci dicono che l’Italia continua ad arrancare in tema di uguaglianza di genere. Follow the money (segui il denaro) se vuoi avere una risposta, direbbe l’economista tipo. Ma sarebbe una risposta limitata. Claudia Goldin, una delle economiste più note nell’ambito degli studi di genere, ha una visione più articolata: il cambiamento nel ruolo economico delle donne americane a partire dalla fine degli anni Settanta è stato il frutto di una lunga evoluzione silenziosa che ha attraversato tutto il Novecento. È grazie a questa evoluzione che oggi possiamo leggere dati sulla crescita dell’occupazione femminile. Ma come si passa dall’evoluzione a una vera rivoluzione nei rapporti di forza? Ci sono tre termini da tenere in considerazione: orizzonte, identità e autodeterminazione.

L’orizzonte è rappresentato dalla scelta di una donna di acquisire istruzione pensando alla sua entrata nel mercato del lavoro, immaginando il lavoro come una parte strutturale e di lungo periodo della sua vita (e non come una fase, oppure come qualcosa a intermittenza e in subordine rispetto ad altri impegni). Su questo fronte abbiamo assistito al “sorpasso di genere”: le donne studiano di più, sono la maggioranza tra le laureate e prendono i voti migliori. Nell’anno accademico 1990/91 il tasso di iscrizione femminile supera quello maschile, una tendenza che si è accentuata nel corso degli anni e che perdura anche oggi (nel 2016 il divario è pari al 12% circa). L’impresa non è riuscita solo alle donne italiane, ma riflette quanto è avvenuto, in media, nei paesi dell’Ocse. Il sorpasso al top della piramide dell’istruzione si somma a una migliore tenuta al fondo della piramide, dove sono molti di più gli uomini che abbandonano precocemente la scuola, e non sempre per guadagnare di più nell’impresa sotto casa. Nel 2016, la quota di giovani maschi tra i 18 ed i 24 anni che sono usciti precocemente dal sistema di istruzione e formazione superava di quasi cinque punti percentuali quella delle giovani donne (11,3% contro 16,1%), un divario di genere fra i più alti in Europa[1].

L’identità è quella di una donna che costruisce se stessa anche attraverso il lavoro, la professione e la carriera. È un aspetto meno facile da cogliere, ma i segnali favorevoli non mancano nemmeno in questo caso. Meno di due anni fa, per esempio, la quota delle occupate era almeno pari al 14% in tutte le categorie lavorative registrate dall’Istat con due sole eccezioni: clero ed esercito. La medicina è fra i settori che ha registrato un maggiore aumento della presenza femminile. Certo, restano tanti i mestieri ancora declinati prevalentemente al maschile, per esempio le costruzioni e, per converso, quelli declinati al femminile, ma non si può negare che oggi un numero crescente di donne si identifichi con un mestiere non connotato dal genere, dal medico all’avvocato all’impiegato pubblico e privato[2].

La nota dolente, anche per l’Italia, arriva sul terzo aspetto, quello dell’autodeterminazione. Una donna è davvero libera, in ogni fase della sua esistenza, di fare le sue scelte per sé, e non in funzione delle scelte di qualcun altro? Nella relazione di coppia, è davvero libera di non comportarsi come “percettore secondario” di reddito, cioè come colei che sceglie cosa fare del proprio tempo solo in seconda battuta, in risposta a dove, quando e quanto il partner lavora?

Il freno a cambiamenti veramente radicali nei rapporti di forza fra i sessi nel nostro paese è proprio qui: affonda nell’economia della famiglia più che nei percorsi di istruzione o negli stereotipi occupazionali. Se guardiamo alle donne nel mercato del lavoro (pagato) in una prospettiva storica e limitandoci a contare quante di esse lavorano, i progressi sono innegabili. Nei quarant’anni che separano il 1977 dal 2017 si è passati da una donna in età lavorativa occupata su tre (il 33%)  a quasi una donna su due (il 48,2%). Ciononostante, tutti i paesi europei hanno fatto di meglio e oggi dobbiamo ringraziare la Grecia se non siamo fanalini di coda in Europa. Fra le occupate, poi, non sono poche coloro che continuano a fare scelte in subordine a quelle del proprio partner. Il dato spia è la quota delle donne che lavorano a tempo parziale, quota che è cresciuta senza sosta a partire dai primi anni Novanta e ora ha superato la media europea con il 33% (contro il 31%) mentre il part-time maschile è solo l’8% (Eurostat 2017). Molte di queste donne aspirano a un lavoro a tempo pieno che non sono riuscite a trovare – l’Italia è campione europeo di part-time cosiddetto ‘involontario’ – ma il dato che conta è che alla fine sono soprattutto le donne ad accettare un lavoro a tempo ridotto, indipendentemente da quali siano le loro aspirazioni.

Non possiamo dunque stupirci di ciò che troviamo se andiamo a guardare dentro l’economia della famiglia anzi, dentro le coppie. Nel 39% delle coppie in età lavorativa lei non guadagna affatto e in un ulteriore 36% lei raggiunge al massimo i quattro quinti del guadagno di lui, spesso molto di meno. Insomma, i numeri sono tali che, anche volendo approssimare in positivo, non è azzardato attribuire un ruolo di “percettore secondario” a ben più della metà delle donne in coppia e tutt’ora al lavoro[3]. Fra i giovani le disparità di reddito sono notoriamente inferiori, e se si guarda ai cambiamenti si dovrebbe guardare a loro. Guardare ai soli giovani, tuttavia, sarebbe fuorviante perché è altrettanto noto che le disparità all’interno della coppia evolvono nel tempo, e generalmente a sfavore della donna specialmente se la donna diventa madre.

Insomma le cifre sono tali che è difficile sottrarsi all’impressione che, in Italia, i rapporti di forza fra uomini e donne fatichino ancora a uscire dalla fase evolutiva per tradursi in cambiamenti davvero radicali.

I soldi, però, non possono essere l’unico parametro. E se le donne fossero portatrici di una visione diversa in cui la ricchezza non è necessariamente identificata col denaro sarebbero per questo condannate a una posizione di debolezza nei confronti dell’altro sesso? Naturalmente no, poiché non tutto si compra, e soprattutto non tutto si compra col denaro, inclusi potere, autonomia e influenza nei confronti del partner. Ma siano attente le donne a non sottovalutarne l’importanza. (11/12/2017)

Note  [1] I dati sono tratti dall’Audizione del Presidente dell’Istituto nazionale di statistica Giorgio Alleva alla Commissione affari costituzionali della Camera, 25 ottobre 2017   [2] Si veda l’analisi di Elena Busiol Settori e Professioni con disparità di genere per l’anno 2015, sul Bollettino Adapt del 28 gennaio 2015   [3] Dati elaborati da Olga Rastrigina dal survey comunitario Eu-Silc 2014