Se è vero che l’entrata massiccia delle donne nel Mercato del lavoro ha segnato una linea di demarcazione nelle discussioni del movimento femminista, il lavoro collettivo, curato dalla Libera Università delle donne, ben rappresenta i tentativi che lo stesso femminismo ha portato avanti nello sforzo di evidenziare elementi, caratteristiche e modificazioni che la sfera della cosiddetta produttività retribuita si è trovata a vivere negli ultimi dieci anni. Come lo stesso titolo introduce, la risposta femminista ai cambiamenti imposti da un’ economia globalizzata non ha saputo intravedere i rischi e le insalutari conseguenze della pratica emancipazionista.
_ “L’emancipazione malata” osserva l’universo Lavoro da più punti di vista e, attraverso angolazioni diverse, in cui si intrecciano temi forti della discussione femminista, degli ultimi venti anni con i cambiamenti legislativi che, dalla fine degli anni ’90, sono stati apportati alla sfera organizzativa e normativa del lavoro.

La visione di {{Melandri }} rispetto allo spazio pubblico come luogo di lotta negli anni 70, introduce uno spunto di riflessione sull’attuale speculazione che viene fatta con i corpi delle donne, e sul “ruolo ancellare” che le donne si trovano ad interpretare nei contesti di lavoro precario-ruolo che non sembra mai riguardare, nell’analisi di Melandri, gli uomini.
_ Una parcellizzazione delle proprie competenze in cui quelle cosiddette “trasversali” rappresentano uno dei valori aggiunti e maggiormente richiesti nella attuale società post-capitalistica.

La donna, sempre nel contributo di Melandri, è investita di capacità ultra terrene che la portano a gestire una “femminile onnipotenza” per occupare spazi il cui accesso è codificato da un maschile che detta le regole e che norma le entrate alle alte sfere del potere.

Anche {{Campari}}, nel suo contributo, affronta il tema delle competenze trasversali delle donne e lo fa attraverso un’ ampia rassegna di ciò che è stato definito, negli anni del boom delle politiche di conciliazione fra uomini e donne (fine anni ’90 inizi 2000), il {diversity managment}, ovvero la capacità delle aziende di “sfruttare” le competenze di cura della donna a favore della propria produttività.

I casi di studio che Campari ci riporta, invitano a riflettere sugli errori compiuti e sulle scelte fatte. Offrono, inoltre, uno spaccato del valore storico e politico delle lotte sindacali e di come le scelte fatte all’interno delle fabbriche, da donne e da uomini, rappresentino una delle conseguenze della attuale precarizzazione femminile del lavoro.

Le conclusioni di Campari mostrano uno scenario di “economia canaglia” in cui, nel disegno del potere capitalista, il dividi et impera ha portato i suoi frutti e di cui a questo punto, a nostro avviso, sia uomini che donne pagano le conseguenze.

{{Cristina Morini}} fa luce su tutte quelle linee di ombra che delimitano gli spazi affettivi, relazionali e professionali dei precari della conoscenza, soffermandosi su quei diritti negati che sono alla base delle dinamiche del lavoro oggi: straordinari pretesi e non retribuiti, impiego di conoscenze e di competenze non riconosciute e alto investimento emotivo.
_ Lo scenario tracciato da Morini evidenzia l’individualismo esasperante in cui i giovani, e non solo, si trovano a lavorare, in cui la consapevolezza della propria condizione diventa un requisito essenziale per agire un cambiamento e per rivendicare il diritto alla condivisione.

L’attenta analisi di {{Cirillo}} sul fenomeno della “femminilizzazione” del lavoro e dei cambiamenti che la sfera dei servizi di cura ha apportato al mercato del lavoro con l’introduzione del concetto di Welfare, introduce il tema dei nuovi ruoli stereotipati che l’economia globalizzata produce.

I tanti quesiti che Cirillo pone ai lettori e alle lettrici aprono dubbi e perplessità sulle responsabilità delle donne che, in tali ambiti di lavoro -terzo settore e servizi– occupano posizioni di potere a discapito di altre donne, le quali, ingabbiate nel ruolo di cura, rappresentano una nuova femminilizzazione del lavoro fino ad ora ben poco considerata.

E se Cirillo con la sua visione di un “futuro dal ventre antico” pone l’accento sulla debolezza del potere delle donne di dare risposta alla nuova economia globalizzata, {{Melchiori}} offre una disegno di ampio respiro sulla situazione attuale delle donne e sui risvolti che, a livello internazionale, gli appuntamenti quale il Forum delle donne di Pechino o la conferenza internazionale sull’ambiente a Rio, hanno avuto nelle pratiche e politiche del decennio successivo.
_ La sua puntuale e critica lettura favoriscono la comprensione di dinamiche e scelte politiche che sembrano essere distanti dal quotidiano, ma che invece dominano l’oggi dell’economia globalizzata. Se organismi come la Banca Mondiale producono documenti e rapporti che sembrano essere stati scritti da vere e proprie teoriche del femminismo, risulta difficile contrastare meccanismi che ingabbiano le donne a ruoli diretti dalla regia dei poteri forti.

Il breve intervento di {{Calderazzi}} sulla rete come pratica delle donne, offre un’utile rassegna dei network che si sono creati, in America Latina e non solo, all’indomani di alcuni appuntamenti transnazionali in ambito economico e sociale.

Secondo {{Ornella Bolzani}}, l’instabilità professionale vissuta dalle donne deriva, almeno in parte, da una loro condizione esistenziale precaria maturata e sedimentata nel tempo all’ombra dei potenti stereotipi di genere che ne plasmano l’identità. La sfera lavorativa femminile è intrinsecamente marginale, secondo l’autrice, definita in opposizione e sempre per difetto rispetto al ruolo principale di madre/moglie.

Questa lettura, che descrive le donne come capaci di superare procedimenti pubblici di allocazione professionale, ma allo stesso tempo impossibilitate ad ostacolare le dinamiche patriarcali del fare carriera, offre una visione secondo noi limitata delle tante sfumature e caratteristiche dell’essere donna oggi nel mondo del lavoro- della molteplicità delle differenze che costellano l’esistenza degli individui.
_ E nonostante Bolzani introduca i temi del conflitto (spazio pubblico/sfera privata, ruolo professionale/famigliare) e degli spazi di (mancata) resistenza da esso aperti, ci sembra non riesca a sottrarre la sua analisi al pensiero binario e a portare a termine il racconto di quel che accaduto “nonostante le aspettative e le promesse del femminismo”.

La conclusione sul tema del corpo delle donne quale strumento di accesso o di pura merce di scambio, risulta quindi privo di prospettiva storica: per cui si perdono i possibili collegamenti con le dinamiche che lo slogan “’io sono mia” degli anni ’70 potrebbe aver generato nel corso degli ultimi 40 anni.

Nell’intervista a {{Paola Tabet}} fatta da Mathieu Trachman, questa molteplicità di intersezioni è invece centrale. Il corpo delle donne e dello “scambio sessuo-economico” tra donne e uomini, spiega l’autrice, non riguarda soltanto il sex work, i rapporti di prostituzione, ma si riferisce ad un insieme di relazioni che vanno dal matrimonio alla mercificazione più evidente del corpo della donna. E’in questo continuum di infiniti piani relazionali diversi che la sessualità femminile – la sua negazione, compravendita, repressione, liberazione- diventa il luogo in cui sperimentare azioni e reazioni di resistenze, individuali e collettive.

Il tema dello spazio privato/pubblico ritorna nell’articolo di Liliana Moro, che si sofferma sulla complicità delle donne nell’accettare il ruolo di dispensatrici di cura, vissuto ancora come capacità personale, surplus di valore che esse investono e producono- come, non ultimo, fondamento di una identità femminile.

E’ invece necessario, secondo {{Moro}}, ridefinire il “prendersi cura di”, sottraendo il suo significato profondo all’esclusività femminile/materna e restituendolo come “valore culturale collettivo”. E’ infatti la relazione il centro di questo spazio allargato, non la maternità, né tanto meno la donna: la relazione come semplicemente costitutiva della vita, in opposizione all’isolamento, che è la sua negazione.

“Non di sola madre”, appunto. Il tema del conflitto torna nella riflessione di {{Buonapace}} sul lato oscuro della maternità- sulla relazione di potere che essa sempre crea e riproduce. E’ la poetica del materno, indaga l’autrice, che copre e omette, con la complicità delle donne, il conflitto, la contraddittorietà dei sentimenti, le dinamiche di potere insiti nella relazione materna e nel lavoro di cura.

Ed è nel rapporto con le proprie madri che si tramanda la costruzione sociale e culturale della cura vissuta come valore intrinseco delle donne, possibilità di costruzione identitaria. Laddove Buonapace riesce a rendere chiaramente la sua posizione rispetto alla necessità di opporsi ad un destino femminile predefinito, che ne limita e imbavaglia infiniti altri possibili, manca invece, a nostro avviso, di approfondire il discorso del materno nella relazione complessa e ancora non risolta fra donne di diverse generazioni. Stare nella zona d’ombra di questa relazione diventa essenziale per noi donne nate a cavallo degli anni ’70, che nel tentativo di dialogare con le madri del femminismo a fatica riusciamo a condividere gli spazi, le modalità e le parole di cui le nostre esistenze sono fatte.

{{Manuela Cartosio}} disvela quella che lei definisce la “rimozione della badante”, il non-detto del lavoro di cura, la “presenza invisibile” e per questo inquietante, che Buonapace attribuisce al materno. Il ruolo della badante diventa funzionale ad un sistema economico, sociale e culturale che ancora non affronta, ma rimuove, i nodi cruciali del lavoro, dell’uguaglianza, del riconoscimento e della distribuzione dei ruoli sociali. Il silenzio delle donne italiane sulle condizioni di vita delle badanti e sul rapporto che si crea con loro dice tante cose, secondo Cartosio.
_ Dice innanzitutto molto sul rapporto che le donne hanno con il potere, e sulle modalità con cui il dominio viene gestito dalle donne: rimosso, travestito d’altro, imbellettato di alibi e luoghi comuni- mai (o mal)-nominato. L’altro nodo irrisolto che ci sembra centrale nell’analisi di Cartosio è quello privato e pubblico dell’emancipazione femminile.

Da un lato, il lavoro di cura viene semplicemente trasferito alla badante in nome di un bisogno di liberazione da parte delle donne autoctone, più istruite, impiegate fuori dalla famiglia, emancipate, che , acriticamente, fanno scivolare al loro posto altre donne- ma scivolare in basso, in una posizione ancora più segregata, vulnerabile, ricattabile: lo spazio privato spesso diventa clandestino.

Dall’altro, questa istanza di emancipazione resta incompiuta: le donne italiane impiegano più badanti della media EU, ci dicono le statistiche ufficiali, ma fanno meno figli e occupano meno posizioni di lavoro retribuito al di fuori della famiglia. Hanno occupazioni precarie, il doppio rispetto agli uomini.
_ Ci sembra molto interessante, infine, il modo in cui Cartosio riesce ad aprire il conflitto tra il silenzio che riempie il dibattito politico delle donne sulle badanti, da un lato, e sul precariato dall’altro, laddove invece si fa un gran parlare di “eccellenze”- in un mondo in cui, sempre di più, chi manda avanti le cose, nel quotidiano, lo fa sulla propria pelle, rinunciando anche solo alla prospettiva di garanzie sindacali minime- di più, di un qualsiasi tipo di riconoscimento formale.

Ne “{ {{Il corpo e il lavoro}} }” vengono raccolti gli interventi di {{Judith Revel e Cristina Morini}}, insieme a quelli dei/delle partecipanti al seminario che porta lo stesso titolo.

Il testo raccoglie alcuni dei nodi concettuali trattati nel lavoro collettivo della Libera università delle donne e ci aiuta ad individuare alcuni dei temi cardine dei femminismi, passati e presenti. Il tema della femminilizzazione del lavoro e della precarietà sempre più diffusa che colloca al centro la tensione fra potenzialità naturali e altrettanti diritti e opportunità.
_ Laddove, da un lato, si trovano le nostre esistenze sempre più precarie, flessibili e colme di insicurezze e dall’altro invece prendono forma i molti tentativi di normalizzarle, oggettivarle, fissarle in affermazioni esasperate di noi stesse nella sfera professionale come in quella privata.

Torna il tema del corpo, in tutta la sua evidenza e centralità: il nostro corpo, inteso come progetto immanente, materiale di vita, è immerso in questa precarietà, ne viene condizionato, stravolto, modificato.

Torna, infine, il tema del potere nelle relazioni in cui siamo tutti/e immersi. Noi siamo il prodotto delle relazioni di potere, ribadisce Revel, ma è al loro interno che ci sono spazi di libertà: la lotta, la resistenza continua, è “uno spostamento in avanti, uno scavare i rapporti e un riacquistare determinazione, autonomia. E questo accade “reinventando se stessi”, dove la costante reinvenzione diventa pratica politica che parte dall’esperienza: dove ciò che ci accade, continuamente ci trasforma.