Joy, Helen, Priscilla, Debby, Florence dal Cie di via Corelli a Milano ributtate in altri Centri di identificazione ed espulsione: la denuncia delle “donne che si sono incontrate al presidio del 25 novembre in piazza Cadorna e che vogliono rompere il silenzio di Milano sulle violenze nei Cie”.
La notte del 12 febbraio scorso, Joy, Helen, Priscilla, Debby, Florence sono state prelevate dalla polizia dalle carceri del Nord Italia nelle quali si trovavano recluse. Sotto quelle prigioni le aspettavamo in tante. Sono scomparse prima dell’alba, prima di poterci incontrare.

All’inizio di questa storia stavano rinchiuse nel Cie di via Corelli a Milano. Lì, alcune di loro denunciano di essere state sottoposte a un tentativo di violenza sessuale da parte del responsabile di quell’inferno, Vittorio Addesso. Finiscono in galera per aver partecipato a una rivolta, nell’agosto scorso. Ora – dopo una serie incredibile di “errori burocratici” che gettano una luce inquietante sulla possibilità di essere difese quando si stabilisce a priori che stai dalla parte del torto – le hanno, come si temeva, ributtate in diversi Centri di identificazione ed espulsione. Joy a Modena, Helen e Florence a Roma, Debby e Priscilla a Torino. Seguite da avvocati, da movimenti e associazioni, da singole donne italiane, tuttavia ancora prigioniere di una logica che si è chiamata ”circuito Cie-carcere-Cie”, alla base della quale c’è {{la sola colpa di essere “clandestine”.}}

Con quali parole possiamo rendere comprensibile l’oscenità dell’essere tenuta in cattività per l’esclusivo fatto di essere “straniera”?

Ma siamo, noi altre, meno straniere di loro, in questo Paese?

Quale appartenenza esiste, egualmente per noi, su questo territorio?

La “sicurezza” che lo Stato ritiene di predisporre per le “italiane”, è solo{{ l’altra faccia del controllo che cala sui corpi e sulle vite di tutte le donne}}. Esso agisce in modo differente, a seconda dei casi. Ciò che per le migranti diventa carcere, per noi si traduce in antidoti per dominare lo spettro della paura mediante una serie di dispositivi di controllo che possono attenuare e nascondere la violenza stessa, rischiando di introdurre una vera e propria “istigazione al silenzio”. Per noi, come per le donne migranti – allo stesso modo – è soprattutto la precarietà del lavoro – che si riverbera su tutti gli aspetti della nostra esistenza, casa, affetti, relazioni – ad avere il governo, a dettare le regole dell’inclusione e dell’esclusione, a stabilire le norme della “cittadinanza”, a imporre le “condizioni”.

In questo contesto, come sappiamo bene, {{le donne vengono usate come risorse salvifiche nel pubblico e (gratuitamente) nel pr}}ivato, ridotte a corpo/merce come moneta da scambiare, come premio da ricevere, come carne da violare. Il gioco è lo stesso, i poteri sono sempre gli stessi, cambiano solo i livelli.

La violenza nei Cie è dunque una cartina di tornasole che rispecchia il {{rapporto malato e irrisolto con il femminile}}, con tutto il femminile, che la vecchia ma sempre potente società sessista continua a riprodurre, e il modo in cui da sempre si tenta di “incarcerare” il femminile perché non esca dai limiti necessari al perpetuarsi dell’ordine imposto da modelli vetero e neo-patriarcali (ecco perché la detenzione delle donne nei Cie assume il valore di metafora, e ci riguarda in prima persona).

Eppure, in Italia sembra diventare impossibile levare la voce per denunciare tutto questo. Si picchiano le donne ai presidi, come è accaduto proprio a Milano il 25 novembre, in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Si sgomberano gli spazi sociali, si perquisiscono le radio, si colpiscono, soprattutto e non casualmente, le realtà che si occupano di immigrati, come è successo pochi giorni fa a Torino. {{Il potere si assolve con disinvoltura dagli scandali che lo riguardano, sessuali o finanziari che siano}}. E tanto più è corrotto e culturalmente misero, tanto più si predispone a imporre a tutte e a tutti i propri principi totalitari. Usa la propaganda, pretende il conformismo e se ancora non basta impugna le armi della repressione. L’obiettivo è impedire ai “governati” di prendere parola, di esprimere opinioni, di avere una diversa idea del mondo, di che cosa sia una “buona vita”.

A Torino con gli arresti dei/lle compagni/e di Macerie e Radio Blackout, che da tempo si occupavano di Cie, è stato posto un confine: i concetti di giustizia e di significato della vita li decide lo stato. Se noi ne desideriamo e ne scegliamo altri, veniamo ritenute illegali. Come fu nei processi per stupro degli anni Settanta, come è stato per le battaglie per l’aborto, in questa storia ci riteniamo {{tutte parte lesa}}.

Ci domandiamo, dov’è il confine della legalità?

Dove comincia un atto illecito?

Difendere le nostre vite e quelle di altre donne come noi è illegale?

Combattere per il significato che ha, per noi, la vita è illegale?

Considerare “clandestino” un essere umano, un emigrante, stiparlo in una prigione che non si ha il coraggio di chiamare tale, privarlo dei suoi diritti fondamentali, della sua dignità, è, viceversa, legale?

Le violenze quotidiane che le donne rinchiuse nei Cie sono costrette a subire per cercare di sopravvivere sono legali?

Chi muore in mare nel tentativo disperato di raggiungere le rive di questo Paese, sperando in una vita migliore, sta compiendo un gesto illegale?

La vita di una donna straniera vale solo per il lavoro di badante che fa per gli italiani? Senza quel lavoro la sua vita non vale nulla?

La prostituta, la trans migrante che – come le cronache dimostrano ampiamente – viene pagata volentieri, per il suo lavoro, dagli uomini italiani, in che momento diventa una figura illegale?

Siamo convinte che le donne abbiano fatto molta strada da quei tempi. Ci sentiamo tutt’altro che vittime e per questo diciamo che {{l’idea di “sicurezza” che questo stato cerca di propinarci non ci appartiene}}. Intendiamo continuare a dire queste cose, a tenere alta l’attenzione su questo problema, vogliamo creare relazioni con le donne dei Cie, monitorare quanto accade a tutte le migranti in via Corelli a Milano, vogliamo costruire {{un Osservatorio}}, aprire interlocuzioni con tutte le donne che non si arrendono al vuoto disperante di questa società. Rivendichiamo un’altra idea di “sicurezza”, una politica di cittadinanza e di spazio pubblico come spazio plurale dei diritti, che è tutta da inventare, da costruire insieme. In questa nostra diversa idea del mondo nessuna è straniera. In questa nostra diversa idea del mondo i Cie devono essere chiusi.

{{Le donne che si sono incontrate al presidio del 25 novembre in piazza Cadorna e che vogliono rompere il silenzio di Milano sulle violenze nei Cie}}

{Per contatti: 2511@inventati.org}

immagine da http://www.meltingpot.org/articolo15185.html