Vi proponiamo la lettua dell’articolo di Chiara Nardinocchi su La Repubblica.it

Da Stoccolma all’Italia dove non esiste una normativa che tuteli le donne. Dopo la Legge Merlin non ci sono stati ulteriori passi avanti verso una normativa strutturata e organica contro la violenza di genere

“Nel 1892 Victor Hugo scrisse nei Miserabili che la schiavitù sarebbe scomparsa grazie alla civilizzazione. Ma non è così. Alcune donne sono ancora schiave e questa schiavitù si chiama prostituzione”. Così la Cancelliera della Giustizia di Svezia Anna Skarhed ha concluso il suo discorso durante l’incontro organizzato dall’ambasciata di Svezia a Roma incentrato sulla comparazione con l’Italia in merito alle leggi vigenti sulla prostituzione.

Un’Europa divisa. Quello svedese è infatti un modello di riferimento nel panorama europeo diviso tra quegli stati come Germania e Paesi Bassi che hanno ‘legalizzato’ la prostituzione dove le sex workers pagano le tasse ed esercitano in case controllate dallo stato, o quelli come l’Italia che non perseguono né le prostitute né i clienti ma lo sfruttamento della professione da parte di terzi.

Il modello nordico. E poi c’è la Svezia che con una legge del 1999 ha deciso di punire esclusivamente i ‘buyers’, coloro che appunto comprano la prestazione sessuale. “Nel 2009 – continua Skarhed che è stata una delle più grandi sostenitrici della norma anti-prostituzione – a dieci anni dalla sua approvazione abbiamo rilevato che il mercato del sesso era diminuito del 15%, mentre in Danimarca e Norvegia, nello stesso periodo era cresciuto e stimato essere tre volte quello svedese”.

La rivoluzione. Se in Italia c’è ancora chi chiede la riapertura delle case chiuse, in Svezia si è realizzata una rivoluzione culturale che ha portato in pochi anni ad un cambiamento radicale andando a colpire chi sfrutta il corpo delle sex workers. Uno dei presupposti ribaditi da Skarhed è che “la prostituzione volontaria è un mito, in quanto una forma di schiavitù e di violenza, non può essere considerata un mestiere”.

Da Sud. Anche in Italia c’è chi guarda a nord per promuovere una legge che colpisca i buyers e non le donne coinvolte. “Da noi il cliente non è punito e questo mette la prostituzione ancora al suo servizio – afferma Paola Di Nicola giudice del Tribunale di Roma ed esperta in materia di diritto di genere –  Inoltre la sua eliminazione non è culturalmente accettata. La rivoluzione della legge Merlin è che si basava sulla salvaguardia delle donne. Secondo l’Istat, un terzo delle donne in Italia ha subito violenza. Bisogna partire da questo dato per far sì che la battaglia contro la prostituzione sia efficace”.

Un paese senza numeri. A testimonianza di quanto la tematica della mercificazione del sesso – strettamente legata alla tratta di essere umani come nel caso delle donne nigeriane costrette a vendere il proprio corpo sulle strade italiane – sia trattata come un argomento secondario, basti pensare che in Italia non esistono dati istituzionali che diano una stima del fenomeno. Gli unici a fornire dei numeri parziali sono le ong che si battono per dare sostegno alle vittime della tratta e i centri antiviolenza. “Nonostante i femminicidi – continua la magistrata Di Nicola –  uno ogni due giorni, nonostante le leggi, il tema continua ad essere visto come un problema solo culturale e non criminale. La violenza contro le donne è un dato accettato come una componente quasi naturale dei rapporti. E allo stesso modo è affrontato il tema della prostituzione.”

Agli estremi. A fronte di una radice culturale così diversa, diventa difficile pensare che l’Italia possa in futuro fare i passi necessari verso una legislazione più efficace e rispettosa della dignità delle donne. Si è così lontani dall’obiettivo che ancora le vittime stentano a riconoscersi come tali tanto da “non comparire mai nei processi come parte civile”.

Gli istinti dell’uomo. “In Italia la legge contro la prostituzione risale al 1958 ed è il risultato di un’enorme battaglia culturale e politica – spiega Di Nicola – Le case chiuse nascono per far sfogare i militari e i loro istinti considerati irrefrenabili. Le donne erano schiave che lo stato chiudeva nelle case di tolleranza per soddisfarli”. Un immaginario ancora lontano dall’esser abolito quello dell’uomo incapace per natura di resistere agli impulsi che giustificano anche condotte violente e spregiudicate. A ribadirlo anche Stefania Cantatore portavoce dell’Unione donne in Italia e volto storico del femminismo del Belpaese. “Culturalmente ancora appoggiamo l’immagine del latin lover che ha dalla sua non il fascino, ma la forza di sopraffazione, un’ideale appoggiato anche da uomini del governo che hanno rivendicato la natura impari di genere”.

Oltre la Merlin. Per chi sostiene il modello nordico, tornare alle case chiuse significa fare un balzo indietro di 60 anni. Allo stesso modo fare del mercato del sesso un business legale coinciderebbe con appoggiare e in qualche modo legittimare il modello culturale che vede nel sesso una merce di scambio dove il corpo della donna è a disposizione in qualsiasi momento per soddisfare l’uomo. Sebbene sia difficile ipotizzare una legge “alla svedese”, per i suoi sostenitori una via all’italiana è possibile e passa attraverso la legge Merlin, alla capacità di “scandalizzare” l’opinione pubblica ribaltando la visione della donna e della prostituta.

“La legge Merlin – conclude Cantatore –  va integrata con meno moralismi e punendo i clienti. Abbiamo capito che c’è una profonda ingiustizia nel far passare sotto silenzio la domanda. Dopo la chiusura delle case di tolleranza, tutte le loro occupanti furono lasciate sole. Le chiamavano donne allegre o sventurate ma non si menzionava mai che fossero semplicemente delle donne sfruttate”.