Il primo, di Abdellatif Kechiche, ha vinto la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2013. Il secondo, di Alain Guiraudie, ha vinto il Premio per la regia nella categoria “Un Certain Regard”. La critica ha già versato fiumi d’inchiostro per celebrarli, pur sospendendo il giudizio su alcuni aspetti.

Più sfaccettato è {{il parere popolare}}. Sono testimone di due episodi. Dopo la proiezione de “La vita di Adèle” una signora è sbottata dicendo che il film era una porcheria pornografica. Si sarà chiesta che bisogno c’era di girare per tre ore intorno al succo del discorso. Alla proiezione de “Lo sconosciuto del lago” un anziano signore, mostrando l’abbonamento al botteghino, ha chiesto cosa stesse per vedere. Gli hanno risposto “un porno di classe”. Complimenti per la preparazione del personale.

Cosa facciamo? Ci spariamo un colpo in testa o ci mettiamo a ridere? Perché il pubblico è fatto di cittadine/i, vicine/i di casa, elettrici, elettori.

Succede quando, per eccesso di realismo e di onestà intellettuale, o forse per apporre la propria firma d’autore, volendo parlare alla gente di vite negate e allo stesso tempo abbattere il muro dell’irrappresentabile e dell’indicibile, una regia spericolata stringe su particolari anatomici (Guiraudie) o allarga su palpitanti avviluppi di membra sotto una luce al neon (Kechiche), illuminati a giorno, per intenderci. Nel film di Guiraudie queste immagini costituiscono un continuum (se ne poteva fare a meno? siamo in ambiente naturista di rimorchio gay), nel film di Kechiche la scena di sesso (siamo all’interno di un rapporto d’amore lesbico) prende 6 minuti su una durata di 179, ma può avere un impatto condizionante. Quanto basta: certo pubblico (ignorante? o comune?) si sente autorizzato a sparare alla cieca. Privo di strumenti per comprendere il valore complessivo di un film, ma carico di disprezzo verso una parte dell’umanità che non conosce e non vuole conoscere. Ho assistito a due casi isolati, indicativi di{{ un sentire ancora diffuso.}}

Crediamo nell’{{arte libera e ribelle}}. Non vogliamo entrare nel merito delle scelte autoriali. Ci chiediamo tuttavia se non sarebbe preferibile, in qualche occasione, moderare il narcisismo estetico, frenare le esuberanze plastiche e le copie dal vero, che rischiano di scadere, il dubbio rimane, nell’autocompiacimento o nell’autoerotismo (maschile in entrambi i casi, quello dei due registi), a completo vantaggio della storia che si è scelto di narrare. Vietando a ogni spettatrice e spettatore, cui invece si è voluto mostrare una vasta gamma di sentimenti umani, di scambiare la parte per l’intero e di sfogare il proprio razzismo.

Non si tratta di arretrare, fare dietrofront o mortificare la libertà espressiva individuale, non lo vorremmo per nessuna ragione al mondo, ma di trovare il modo di uscirne inviolabili e inattaccabili.