La Camera bassa del Parlamento polacco, il 23 settembre 2016 ha detto il primo sì (267 deputati su 460) alla contestatissima “Stop Aborti”: il disegno di legge clerical-nazionalista che vieta assolutamente l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), con la condanna fino a 5 anni di carcere per chi la contravviene, prevedendo anche possibili indagini e incriminazioni anche in caso di aborto per cause naturali.

L’iter parlamentare è agli inizi, ma segna una prima (annunciata) sconfitta per le donne polacche già alle prese con una delle più restrittive leggi sull’aborto. Di qui l’immediata e incisiva risposta dei movimenti femministi che hanno chiamato tutte le donne allo sciopero. Così il 3 ottobre è stato “il lunedì nero delle donne” con la “Czarny Protest” (Protesta in nero), che ha visto Varsavia, in particolare, invasa da centinaia di migliaia di donne, ma anche da tantissimi uomini. Cittadine e cittadini in marcia per la democrazia e i diritti. In una parola per la laicizzazione dello Stato.

Una manifestazione che è diventata internazionale, grazie alla solidarietà di tante altre donne che hanno manifestato in contemporanea a Bucarest, Kiev, Londra, Washington, New York, Shanghai, Helsinki, Vienna, Bruxelles, Lione, Parigi, Barcellona, Berlino, Vancouver, Ginevra, Zurigo, Stoccolma, Oslo … fino a Bologna e Torino (già la nostra Italia, dove sappiamo bene quanto pesi l’ingerenza clericale!).

Le donne polacche il 3 ottobre hanno lasciato ogni loro occupazione, e la loro adesione massiccia all’evento è stato il pesante atto d’accusa contro la negazione del loro inalienabile diritto di autodeterminazione.

Così come fecero le donne islandesi che inaugurarono questa forma radicale di lotta il 24 ottobre 1975, dandosi appuntamento per il primo sciopero di tutte le donne a Reykjavik. Erano in 25mila su una popolazione allora di 220mila abitanti. L’Islanda, che viene chiamata “l’isola delle donne”. L’Islanda, dove la Costituzione all’art. 65 afferma: «Uomini e donne hanno uguali diritti da tutti i punti di vista». Un principio che il Paese ovunque rispetta.

Indossavano calze rosse le islandesi di quel 24 ottobre, dal simbolo del movimento femminista che le guidava. Rosso: colore del sangue, della vita, della libertà, dell’emancipazione e della rivoluzione.

Hanno indossato abiti neri il 3 ottobre 2016 le donne polacche convenute a Varsavia, Danzica, Breslavia, Cracovia, Czestochowe – la città della Madonna nera di Monte Chiaro, che come le altre tante Madonne nere, in quel nero si portano addosso la metabolizzazione di antichi culti della natura: terra nera – terra madre – dea madre.

Ma il nero delle donne polacche lunedì 3 ottobre, era il simbolo del lutto, della nera prevaricazione clericale che getta le donne nell’antro oscuro della sopraffazione identificandole col loro utero.

Donne fattrici, recluse nella croce della maternità come condanna, sempre e comunque, eliminando anche quei pochi casi previsti per l’IVG dalla legge del 7 gennaio 1993, che consente l’aborto ove ci sia minaccia per la vita madre, quando la gravidanza è risultato di stupro o incesto, quando il feto è affetto da malattie incurabili.

La Polonia democratica non sfila oggi sotto l’insegna della croce come ai tempi di Solidarnosc, ma per difendersi da quella croce che si abbatte soprattutto sul corpo delle donne per avere il controllo dell’intero corpo sociale. Proprio come avviene nei paesi islamisti. Questo volevano significare quelle donne polacche che il 3 ottobre manifestavano velate, lasciando scoperti solo gli occhi, significativamente incorniciati dal sigillo di un rosario.

Fantasmi di donne ingabbiate nel mito del fiat mariano, che è stato ed è usato come baluardo contro i processi di emancipazione sociale. Del resto il PIS, l’iperclericale partito di governo non sta forse da tempo cercando di addomesticare la Costituzione assoggettando al governo la Corte Costituzionale, che adesso il Presidente Andrzej Duda vorrebbe porre sotto il suo diretto controllo? Duda, l’uomo della conferenza episcopale polacca, che non perde occasione per ribadire il disegno di riportare integralmente la Polonia alle radici cattoliche.

Femminicida. Così definiscono le femministe polacche la legge antiaborto che il Parlamento polacco si sta apprestando a varare. Una legge dettata dalla conferenza episcopale polacca.

La Polonia, storico baluardo cattolico dell’est Europa dall’epoca dell’evangelizzazione dei monaci itineranti spediti in missione conversionista da Gregorio Magno. La Polonia stato cuscinetto per il cattolicesimo romano, dove ancora oggi nei settori più retrivi pullula antisemitismo e sessismo.

Non è un caso che Auschwitz, il campo di sterminio simbolo della shoah, i nazisti lo misero in terra polacca vicino Cracovia, la città dove quando si girava Schindler’s List gli attori che nelle pause di riprese si recavano ai bar o ai ristoranti vestiti col costume da nazisti venivano avvicinati da qualcuno che seriamente diceva loro: ammazzateli questi ebrei!

A Cracovia nel 1998 vidi personalmente le chiese tappezzate oscenamente di manifesti di feti: in ecografia e abortiti. Il terrorismo psicologico diventava pornografia a supporto delle parole di Wojtyla che paragonava la donna che abortiva alla SS che gettava i bambini nel forno crematorio. Era l’epoca in cui i cattolici cercavano anche di impossessarsi della gestione di Auschwitz in una invereconda gara a chi piantava croci sempre più enormi in un’ala di accesso al quel campo.

La misoginia si respirava nell’aria a Cracovia dove i maschi si sentivano in dovere di fare alle donne – soprattutto se straniere – apprezzamenti e avances pesanti anche in pieno giorno.

Ma il processo di secolarizzazione avanza anche in Polonia. E con esso il diritto delle donne ad essere le esclusive proprietarie della loro vita. Questo fondamento laico non negoziabile è emerso con chiarezza nella manifestazione del 3 ottobre, dove le donne sono state il volto per la possibile rivoluzione della libertà contro i “misericordiosi” ideologi della sofferenza e i loro compari di governo.

da Micromega