Oltre 150 opere a firma femminile saranno protagoniste di una grande mostra in programma al Palazzo Reale di Milano dal 5 febbraio al 6 giugno 2021 dal titolo “Le Signore dell’arte. Storie di donne tra ‘500 e ‘600” a cura di Anna Maria Bava, Gioia Mori e Alain Tapié.

Le artiste selezionate sono 34 e di alcune di loro, che non avevano la notorietà di oggi, nel mio libro del 1983 “Le più belle del reale” (Editore Spada), ho scritto:

“E’ il fare, il produrre, la caratteristica prima dell’artista e se la creatività richiede doti speciali e la spinta di “irreprimibili furori” è altrettanto vero che ad essa si affiancano la pratica e l’esercizio. Per la donna e pittrice Artemisia, che con indiscutibili coraggio e fatica si era fatta strada nel mondo artistico e nella cui esistenza privata non mancano risvolti drammatici, ritrarsi “In veste di Pittura” testimonia che dovunque c’è arte, la vera ispirazione è al lavoro.

Offrendo se stessa come esempio, Artemisia incoraggia quindi altre donne dotate di talento ad avventurarsi sugli scoscesi sentieri della creazione, ad esercitare la pittura, a tentare di raggiungere livelli di perfezione con la costanza della pratica, superando o aggirando le difficoltà poste dall’istituzione professionale. Attraverso un’immagine interamente femminile, Artemisia, che lega indissolubilmente realtà e astrazione, che è donna di carne e si fa corpo glorioso, restituisce alla donna la sua dignità fisica ed intellettuale: non solo corporeità ma neppure magica idealità.

Volontà di potenza e volontà di vivere, volontà di fare proprio del corpo “violato” la casa lucente dell’Arte.

Gli autoritratti di Sofonisba Anguissola, Rosalba Carriera, Elisabeth Vigée Lebrun non solo raccontano direttamente in immagine Sofonisba, Rosalba, Elisabeth, ma di Sofonisba, di Rosalba, di Elisabeth è lo sguardo, di Sofonisba, Rosalba, Elisabeth la “fiction”, la messa in scena di un’apparizione.

Agli autoritratti delle pittrici non è stato concesso di entrare nella galleria dei grandi capolavori d’arte, ma essi rimangono tra le più dirette e magnetiche testimonianze del protagonismo femminile visualizzato dalle sue stesse interpreti. Magnetiche testimonianze di protagonismo non solo rispondono alle caratteristiche dello sguardo femminile (autoriflesso) ma, femminili, sono le modalità della sua comunicazione: muta, sentimentale, enigmatica.

Possiamo, allora, affermare che l’autorappresentazione femminile trova nella tela-specchio, per questa magica particolarità di rimandare in presenza un’assenza, in quanto messa in scena di un fantasma immobile e muto, il suo luogo privilegiato.

“Irreali” resi presenti in immagini che seducono invitandoci ad un gioco di specchi, irreali che conservano, pur sottoposti al vaglio della cronaca, una cifra fantastica che elude una verità troppo determinata e del resto… il fascino perverso del ritratto, come tanta letteratura ha messo in evidenza, consiste nel permettere a chi guarda di stabilire con una “parvenza” del passato un legame misterioso, mistico, trascendentale”.

Arcangela Paladini, Fede Galizia, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi, Elisabetta Sirani… Come non soggiacere già al fascino dei loro nomi e subito dopo dei loro volti così come mi sono apparsi in un gioco di specchi.

Lo specchio, oggetto magico per eccellenza, dominio delle fate e delle streghe. Ci racconta come siamo ma anche come vorremmo essere. Permette ad Alice di entrarci dentro, di oltrepassarlo e di ricrearlo in migliaia di sfaccettature diverse, eppure simili.

Gioco di identità e di frantumazione…

Sì, le riproduzioni delle immagini degli autoritratti delle pioniere dell’arte figurativa, hanno tappezzato per un lungo periodo la mia casa.

Tanta era la voglia di entrare in contatto con le artiste del passato, che la mia ricerca è partita proprio da lì e si è concretizzata in un libro dal titolo “Le più belle del reale”.

Ebbene, le prime donne pittrici dovevano dimostrare di esistere veramente perché non si credeva alla loro esistenza. L’autoritratto, dunque, era una sorta di carta di identità, ma non fu, comunque, sufficiente agli occhi del mondo tanto che, alle pioniere dell’arte figurativa, spesso fu chiesto di dipingere davanti ad un pubblico scettico sulle loro capacità.

E’ il caso, per esempio, di Elisabetta Sirani. Il padre era pittore, amava ricevere pubblico e committenti nel suo studio-salotto e mostrare la figlia nell’atto stesso del dipingere.

Morì di ulcera, giovanissima, la dolce Elisabetta e dopo la morte la sua città – Bologna – la pianse con un’orazione funebre dal titolo “Il pennello lacrimato”.

La poetessa Emily Dickinson, al contrario, ha sempre nascosto le sue poesie in una cassettina di legno sostenendo che la fama è un’ape: ha un’ala ma anche un pungiglione.

Artemisia Gentileschi fu al centro di uno scandalo perché il padre denunciò per stupro un suo collega, Agostino Tassi e ancora oggi ci si chiede se lo fece per vendetta, dopo una lite tra pittori, o per proteggere la figlia. Fatto sta che, a fare le spese del processo fu soprattutto Lei, Artemisia, data in pasto ai più malevoli commenti.

Frida Kahlo amava Diego incondizionatamente. Non le importava se la tradiva e se lo disegnò in mezzo alla fronte. Frida, come Alice, oltrepassava lo specchio giocando all’infinito con la propria immagine.

Artemisia, in età matura, si dipinse “in veste di Fama” con l’orgoglio di chi vuole, a ragione, prendersi la propria rivincita.

Si ritrae con in capo una corona d’alloro Rosalba Carriera, lo fa in vecchiaia… gli occhi sono stanchi e lei quasi non ci vede più.

La certezza di un titolo immortale era anche della poetessa Emily Dickinson che in posa per il proprio dramma interiore e chiamando a sfilare, di fronte a specchi veritieri e nello stesso tempo magicamente stranianti, ogni parte di sé nelle vesti di personaggi diversi, esaurisce totalmente la femminile, eterna richiesta di definirsi e poter essere se stessa.

E tornando indietro nei secoli, Marzia vergine romana, si pose per prima di fronte allo specchio… Ancora lo specchio. Cosa ci racconta lo specchio? Se è di tela, chi siamo o pensiamo di essere, ma anche chi vorremmo essere.

E così… Artemisia, nelle vesti di Giuditta, si trasforma da violentata a violentatrice e sta molto attenta – nell’infilare la spada nel collo di Oloferne – che non le si sporchi di sangue il bel vestito di seta.

Due specchi disposti ad angolo retto usò Artemisia per l’autoritratto in veste di Pittura. Ha una catena d’oro intorno al collo a testimoniare la nobiltà della professione; i capelli disordinati come si addice ad un temperamento artistico che crea sotto l’influsso di una divina frenesia; un drappo cangiante che risplende come i colori della sua tavolozza.

Identificando se stessa in quanto artista / con il suo corpo / il suo braccio teso / il suo profilo / la sua ciocca di capelli abbandonata con la personificazione della Pittura, Artemisia spoglia quest’ultima di astrattismo, la rende in carne ed ossa, alle prese con il lavoro che simboleggia, intensamente e totalmente assorbita dallo sforzo e dal piacere di dipingere.