Un fatto piccolo piccolo, successo in una piccola scuola di un piccolo comune di una piccola parte del mondo. E una ragazza che, a sua insaputa, ha pagato le colpe di un amico violento e dei suoi genitori inidonei a tale compito, è ‘cosa’ ancora più piccola. Succede oggi in una scuola media che due ragazzi, M. e D., di 13 e 14 anni arrivino ad azzuffarsi usando come pretesto una comune amica. Il fatto che la ragazza sia stata solo un pretesto e non la causa della zuffa trova conferma in un episodio avvenuto circa 15 minuti prima.
_ Mi trovavo nel giardino della scuola quando mi viene incontro uno dei due ragazzi, M., che, in risposta ad uno mio sguardo, mi si fa quasi sul muso e dice: “Tengo ‘na carica ‘ncuoll’ ogge ca si coccheruno me tocca ‘o sfong’!” – (‘Mi sento una carica addosso oggi che se qualcuno mi tocca lo distruggo’). Detto questo rientra e nel giro di un quarto d’ora questa sua carica va a schiantarsi tutta contro il naso di un ragazzo che, a suo dire, l’aveva sfidato.

I due ragazzi, M. e D., si incrociano nel corridoio appena fuori le aule, M. è in compagnia della sua amica S.; D. saluta S. ma M. non apprezza: “Se la tocchi ti sfondo!” e D., che è già maschio e da maschio non può concedere l’idea di aver paura, di tutta risposta, sfiora il braccio di S. con un buffetto.

È quanto basta per scatenare l’ira di M. che si avventa sull’amico colpendolo con un unico pugno dritto sul naso. D. si accascia, il naso prende a sanguinargli tanto da far temere che sia rotto. I due vengono prontamente allontanati l’uno dall’altro, S. viene fatta rientrare in classe, M. dritto dal preside e D. in bagno a tamponare l’emorragia.

Dalla segreteria si convocano i genitori dei due ragazzi: i genitori di D. sono assenti, irreperibili; quelli di M. arrivano a scuola nel giro di pochi minuti. Facce cupe, sguardo basso, la mamma reca in braccio un bambino di un paio d’anni che stringe forte a mo’ di scudo, quasi come se quell’esserino che porta appeso al grembo valesse a giustifica per qualunque fallimento; il padre, omone grosso e grigio, si apre in un sorriso inopportuno e cordiale non appena gli si fanno davanti le varie professoresse e il preside; non ha scudi lui, solo mani grosse da sfoderare all’occorrenza. I due vengono accompagnati dal figlio e fatti accomodare in presidenza.

Dopo poco arriva anche D. ancora dolente. Dalla direzione non proviene voce alcuna, i bidelli e qualche professoressa restano in attesa commentando l’accaduto … “che è violentissimo e gravissimo e chissà quali e quante conseguenze avrà per quei due…”!

Circa mezz’ora dopo si scioglie la seduta: i primi ad uscire sono i genitori di M. La mamma esce furibonda, ma ha ancora l’atteggiamento di chi sente di doversi giustificare, e così si ferma al centro del corridoio e dice: “Comunque ‘e femmenelle s’hanna stà ‘o post’ llor’! Perché po’ ‘e maschie passano ‘e uaje e lloro stann’ in santa pace!” – (‘Comunque le femminucce devo rimanere al loro posto. Altrimenti i maschi passano i guai e loro restano in santa pace’).

Fino a quel momento la posizione della ragazza non era stata messa in discussione, nessuno aveva osato darle un ruolo nell’accaduto dal momento che era chiaro come l’acqua di sorgente che lei era stata usata da M. unicamente come un pretesto per arrivare alle mani. Eppure è bastato questo sfuggevole commento della signora per scatenare l’atroce dubbio in tutti i presenti.

Nessuno ha osato controbattere, sguardi a terra e l’allegra famigliola ha potuto lasciare liberamente l’istituto. Dopo più qualche minuto di riflessivo silenzio, una voce –la mia-: “Addirittura adesso è colpa della ragazza? Ma siamo matti?” mi guardo intorno in cerca di risposte. Tutti tacciono, ad un tratto il bidello – proprio lui che fino ad un attimo prima si era mostrato scosso e scandalizzato dalla violenza e dal sangue che egli stesso aveva ripulito dai corridoi- : “Embè, ma io qualche volta vi deve far federe quella come va vestita!”!

Poi la campanella a sancire la fine di questa infinita giornata scolastica.
_ Nel tragitto da casa a scuola faticavo a spiegarmi come fossero riusciti a tirare in ballo l’abbigliamento della ragazza, visto che la nascita del litigio prescindeva dalla ragazza stessa; e non riuscivo a scrollarmi di dosso quella frase: “qualche volta vi dove far federe quella come va vestita”, eco di quella stessa mentalità che fa di ogni donna abusata una puttana e di ogni donna una potenziale donna abusata.

Alla luce dei fatti, di questi fatti, non basterà certo la giurisprudenza a rendere il mondo un posto sicuro per le donne, a nulla varrà il carcere, come, nel nostro piccolo, a nulla è valso l’aver convocato i genitori di un ragazzo violento.

Quest’ultimo, con la complicità dei genitori e con l’appoggio morale del bidello – e di chissà chi altri- ha chiesto scusa e ne è uscito libero, moralmente libero; l’altro ne è uscito contuso e quindi vittima e lei, l’unica a non essere stata coinvolta né interpellata, tanto era marginale il suo ruolo nella vicenda, ne è uscita sconfitta, messa in discussione nella sua integrità morale per aver osato un abbigliamento che, all’uopo, le è valso come indizio di colpevolezza.

Questo che vi ho raccontato è un fatto piccolo piccolo, successo in una piccola scuola di un piccolo comune di una piccola parte del mondo. E la ragazza che, a sua insaputa, ha pagato le colpe di un amico violento e dei suoi genitori inidonei a tale compito, è ‘cosa’ ancora più piccola.

Ma se ci prendessimo la briga di raccogliere e sommare ogni piccolezza, ogni storia piccola, talmente piccola da ‘non meritare nemmeno due colonne sul giornale’, allora ci troveremmo di fronte ad un’enciclopedia ancora incompiuta, piena di piccole storie di piccole donne ‘scostumate’.