Il DDL n. 735 “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, con primo firmatario il Senatore Simone Pillon, nelle sue disposizioni che di fatto relegano il coniuge economicamente più debole (che ancora oggi risulta essere la donna) in una condizione di sudditanza, privandolo persino delle tutele previste nei confronti del coniuge maltrattante (in aperta violazione di obblighi internazionali e di principi sanciti da costante e consolidata giurisprudenza) realizza una vera e propria vendetta nei confronti di tutti diritti e le libertà conquistate negli ultimi cinquant’anni in particolare dalle donne. In quanto tale, il disegno di legge si pone come primo tassello verso quella restaurazione reazionaria della società che pare essere l’obiettivo di chi sostiene questa riforma.

Il disegno di legge Pillon avrebbe infatti come ambizioso obiettivo quello di attuare una progressiva de-giurisdizionalizzazione del diritto di famiglia, ponendo al centro dell’attenzione soprattutto il minore, parte che sino a oggi si ritiene erroneamente trascurata dalle norme vigenti. Si legge, infatti, nella relazione al disegno, che si è posta l’attenzione sui figli con l’intento di restituire ai genitori la possibilità di decidere e contemporaneamente confinare il giudice in un ruolo residuale, lasciando alle parti molta più autonomia rispetto al passato.

Tuttavia, da una mera lettura dei 24 articoli che lo costituiscono, balza subito all’evidenza che l’obiettivo raggiunto, una volta diventato legge, sarà tutt’altro, ossia l’aver dato un ruolo di preminenza ai bisogni e alle priorità dell’adulto, con l’ovvia rinuncia a perseguire il best interest del minore. In particolare, si verificherebbe un’esasperata ingerenza nella vita quotidiana dei genitori (ex coniugi) e del minore stesso, obbligati a confrontarsi con il mediatore, privati proprio della possibilità di decidere autonomamente sui propri figli e costretti a districarsi tra mediatori familiari, coordinatori genitoriali, legali di fiducia e come se non bastasse anche con i nonni, non più testimoni, ma addirittura parti. Il tutto con un probabile se non sicuro aumento di conflittualità e con un inaccettabile incremento dei costi a carico delle famiglie.

Ed il minore? Il minore, colui che la proposta normativa in oggetto millanta di voler tutelare, vivrà due realtà parallele, presumibilmente i primi giorni del mese in una casa, con un genitore ed eventualmente una tata, gli ultimi giorni in un’altra casa, con l’altro genitore e un’altra tata. Tutto questo per il suo “benessere” ed in nome del principio della bigenitorialità! Esaminiamolo nel particolare.

1) Il mediatore familiare (artt. 1 – 5) La prima questione tratta e disciplina la figura del mediatore familiare. Innanzitutto, è singolare che su un tema così importante e controverso i primi articoli si preoccupino di disciplinare proprio la figura del mediatore, le sue qualifiche e soprattutto i suoi compensi. Si prevede, poi, la possibilità delle parti di partecipare al procedimento di mediazione familiare con i loro legali. Tale soluzione però ha due aspetti negativi: da un lato si obbligano i due ex coniugi che si vogliono separare consensualmente – e quindi già in accordo tra di loro – a confrontarsi con tre figure professionali, dall’altro gli si obbliga a sostenere un notevole aumento dei costi. Infatti, in favore del mediatore è previsto un onorario, e non ha alcuna importanza se il primo colloquio sarà a titolo gratuito o che i compensi saranno stabiliti da una tabella ministeriale, quello che rileva è che comunque i costi saranno raddoppiati, andando sempre più verso un tipo di giustizia pensata per persone facoltose.

2) Reclamo immediato al giudice (art. 6) Sebbene l’argomento sia di minore importanza, ci sembra comunque opportuno segnalare i gravi ritardi e rallentamenti che saranno provocati dalla modifica dell’articolo 178 del cpc. Il DDL dispone, infatti, che l’ordinanza del giudice istruttore sarà impugnabile dalle parti con reclamo immediato davanti al collegio. Tuttavia, se per un verso ciò comporterà un maggior controllo da parte del Collegio, dall’altro tale misura si tradurrà in un grave aumento della durata del processo stesso, in considerazione dell’alto tasso di conflittualità che caratterizza le controversie in esame, poiché le parti potranno impugnare qualsiasi ordinanza di modifica del piano genitoriale.

3) Obbligatorietà della mediazione familiare nei casi di separazione consensuale in presenza di figli minorenni (artt. 7, 8 e 11) Ma la questione più rilevante affrontata dal DDL riguarda l’obbligatorietà della mediazione familiare nei casi di separazione consensuale con i figli minorenni. Diversamente da quanto si è pubblicizzato, la ratio del DDL sembrerebbe quella di volere tutelare la famiglia tradizionalmente intesa, obbligando i coniugi a sottoporsi in ogni caso al tentativo di conciliazione, limitando la loro autodeterminazione e costringendo il minore a una mobilità forzata. Non possiamo però dimenticarci che la Raccomandazione 98/1 del 19.01.98 del Consiglio d’Europa, nonché la Raccomandazione 1639 del 25.11.03 dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa mettono in evidenza l’autonomia e la complementarietà della mediazione rispetto al contesto giudiziario; la funzione esclusivamente di natura compositiva e non valutativa del mediatore stesso ed il fatto che la volontarietà della coppia al percorso di mediazione familiare deve essere predittiva di un buon esito del medesimo. Oltre a ciò, la mediazione familiare presuppone e richiede, per la propria buona riuscita, un clima di fiducia reciproca e collaborazione, motivo per il quale, durante il percorso, tutti i procedimenti giudiziari e/o stragiudiziali nei quali i clienti del mediatore familiare siano avversari, vengono sospesi fino al termine del percorso di Mediazione Familiare per favorirne il buon andamento; questa “tregua legale” rende le eventuali accuse di abuso e maltrattamento, presentate  quanto tempo mediamente il genitore non-collocatario trascorre con i figli.

Quello che sappiamo con certezza, però, è che il lavoro di cura, nelle famiglie italiane integre, è prevalentemente sulle spalle delle donne. I dati più recenti ci vengono dall’ultimo rapporto di Save The Children sulla maternità in Italia, intitolato “Le Equilibriste” che afferma: “dai dati emerge un’Italia in cui le madri si trovano ad essere equilibriste tra la vita privata e quella lavorativa. La crescita dei figli viene vissuta oggi come un peso che grava esclusivamente sulle spalle delle donne” (pag.15). Nella fascia di età 25-44 anni – quella in cui si colloca il maggior numero di madri, la giornata lavorativa di una donna dura in media 11 ore e 39 minuti, a fronte di una giornata lavorativa degli uomini di 9 ore e 47 minuti (pag.9).

A confermare che l’asimmetria è causata dal carico di lavoro domestico e di cura c’è un altro indicatore temporale, che restituisce in modo sintetico come viene distribuito il lavoro familiare e offre un’idea della differenza di impegno quotidiano tra uomini e donne: è l’indice di asimmetria di genere, che misura il tempo dedicato al lavoro familiare dedicato dalla donna sul totale del tempo dedicato al lavoro familiare da entrambi i partner, e che per le coppie con bambini arriva al 67,3%. Se la condizione femminile nel suo complesso, mediando tra le varie fasi della vita di tutte, rimane ancora arretrata rispetto agli altri paesi europei (secondo il Global Gender Gap Report l’Italia si colloca all’82esima posizione su 144 paesi – pag.6), essere madri, oggi, in Italia, significa raggiungere il punto più critico delle differenze di genere. Ad esempio, la maternità incide pesantemente sulla condizione occupazionale delle donne: se tra i 25-49enni risultano occupati il l’83,6% degli uomini senza figli e il 70,8% delle donne senza figli, la presenza di un bambino aumenta il divario di genere; risultano infatti occupati nella medesima fascia d’età l’88,5% dei padri e solo il 55,2% delle madri (pag.5). Che alla radice di questo divario di genere vi sia il lavoro familiare di cui principalmente le donne si fanno carico, lo suggeriscono i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, che in merito alle motivazioni addotte per le dimissioni rileva la preponderanza di quelle legate alla difficoltà di conciliare il lavoro retribuito con la cura della prole (pag.5).

Questi sono solo alcuni dei dati che ci danno la misura di quanto siamo lontani da una situazione che potrebbe essere definita di “parità genitoriale” nelle coppie non separate, un dato reale e ben documentato che i promotori del ddl 735 invece negano apertamente. Se in altri paesi i padri separati trascorrono più tempo con i loro figli dopo la separazione, è soltanto perché trascorrevano più tempo con i loro figli anche prima della separazione. Per questo motivo, se i supporter del disegno di legge fossero davvero interessati agli effetti sul benessere dei bambini del co-parenting o sinceramente preoccupati che l’asimmetria di genere possa procurare danni effettivi alla salute dei bambini, si farebbero promotori di iniziative quali una maggiore tutela per le donne lavoratrici, oppure maggiori investimenti nei servizi alla prima infanzia e magari un congedo parentale un po’ meno simbolico dei 4 giorni attualmente a disposizione dei papà italiani, considerato che i tanto portati ad esempio padri svedesi possono usufruire di ben 15 settimane. Politiche che le associazioni delle donne e solo loro chiedono da tempo.

4) Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni (art. 9). Il DDL ha poi previsto che in caso di gravi inadempienze, di manipolazioni psichiche o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, nonché in caso di astensione ingiustificata dai compiti di cura di un genitore e comunque in ogni caso ove riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori, il giudice possa valutare prioritariamente una modifica dei provvedimenti di affidamento ovvero, nei casi più gravi, la decadenza dalla responsabilità genitoriale del responsabile ed emettere le necessarie misure di ripristino, restituzione o compensazione. Nel modificare l’articolo originario, le integrazioni previste dal DDL 735 forniscono una lista dalla quale però sono esclusi la violenza diretta o assistita nei confronti del minore, mentre compaiono la “manipolazione psichica” – un modo diverso di definire l’alienazione genitoriale – e le false accuse. Ebbene, la letteratura sull’argomento è scarsa e per lo più obsoleta, ma i dati a disposizione ci dicono che questo tipo di accuse è molto raro nei casi di divorzio e solo una piccola percentuale delle accuse risulta infondata e/o mossa nella consapevolezza della loro falsità.

A tale proposito si era espresso qualche tempo fa anche Keir Starmer, che, oltre ad essere un avvocato difensore celebre per la sua competenza in tema di diritti umani, all’epoca era anche il quattordicesimo Director of Public Prosecutions (DPP), a capo del Crown Prosecution Service del Governo della Gran Bretagna. In questa veste, Starmer presentò uno studio sulla questione delle false accuse: nei 17 mesi di osservazione, tra il 2011 e il 2012, in Inghilterra e Galles si sono registrati 5.651 casi di stupro e 111.891 casi di violenza domestica; nello stesso periodo, i casi in cui si sono riscontrate false accuse di stupro risultano essere 35, mentre sono solo 6 i casi di false accuse di violenza domestica e 3 i casi in cui le false accuse erano di stupro e violenza domestica insieme. Sulla base dei dati raccolti, ha affermato Starmer che “il fenomeno delle false accuse è raro”, ma non solo; ha aggiunto che “la convinzione errata che le false accuse di stupro o violenza domestica siano comuni può minare il lavoro di polizia e autorità giudiziarie nel momento in cui si trovano ad investigare su questo genere di crimini”, mettendo così in pericolo la vita di donne e bambini.

I dati provenienti da Stati Uniti, Canada, Australia e Gran Bretagna, ovviamente, non ci restituiscono nulla della situazione italiana. Potremmo tranquillamente ipotizzare di vivere in un paese popolato da un’eccezionale quantità di persone con l’inclinazione a mentire e calunniare, se non fosse che, anche nei paesi dai quali proviene la letteratura scientifica sul tema, le associazioni di papà separati analoghe ad Adiantum sono solite diffondere le medesime percentuali. Di fatto, oltre alla propaganda delle associazioni e le affermazioni di qualche isolato soggetto, non esiste nulla di concreto che ci confermi l’esistenza di un’alta percentuale di accuse infondate strumentalmente mosse allo scopo di ottenere vantaggi nel corso di controversie per l’affido in Italia. Infine, l’art. 9 prevede anche il risarcimento dei danni nei confronti del minore qualora si verifichino gravi inadempienze o manipolazioni psichiche, si stabilisce dunque un risarcimento danni per la sindrome di alienazione parentale, disconosciuta dall’intera comunità scientifica internazionale.

5) Mantenimento diretto (art. 11) L’art. 11 disciplina anche il mantenimento diretto del minore, prevedendo un dettagliato elenco dei capitoli di spesa che dovrà essere diviso tra i due genitori, ma solo nell’ipotesi che entrambi lavorino e abbiano un reddito similare, mentre in caso di mono reddito o comunque di una situazione economica particolarmente modesta si farà ricorso all’assegno di mantenimento, che comunque deve essere sempre corrisposto per garantire il giusto tenore di vita all’ex coniuge. Il mantenimento diretto è proposto come migliore attuazione del principio di bigenitorialità (ciascun genitore è chiamato a provvedere direttamente ai bisogni del minore, al suo sostentamento, come idealmente dovrebbe avvenire in una famiglia unita) e viene accostato alla questione del collocamento paritario dei figli: l’ipotesi più semplice, infatti, è quella in cui il figlio venga collocato presso ogni genitore per lo stesso numero di giorni e che entrambi i coniugi producano lo stesso reddito. Non è secondario per i promotori -ed è quindi sottolineato anche nel preambolo- che un regime del genere evita ad uno dei due genitori di dover corrispondere le somme destinate ai bisogni del minore nelle mani dell’ex partner.

Alla base di questo ragionamento c’è la convinzione che l’alta percentuale di padri inadempienti non sia dovuta al sottrarsi dalle proprie responsabilità di genitori, bensì all’idea che tale assegno sia una rendita a favore del coniuge beneficiario, destinata ad esigenze che poco hanno a che vedere con la cura del minore; se mediamente un cittadino che guadagna 1,200 euro mensili versa per un figlio 300 euro dalla sua busta  paga, mantenere un bambino di 2 anni costa mediamente ad una famiglia italiana oltre 830 euro al mese, ne costa circa 1.000 quando compie 9 anni; per non parlare del periodo successivo alla maggiore età.

Queste cifre sono la spiegazione di quanto ci racconta l’Istat della situazione delle madri single o separate nel nostro paese: “La condizione economica delle madri sole è critica: quelle in povertà assoluta sono l’11,8% del totale, a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 42,1% e nel Mezzogiorno arrivano al 58%. Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa imprevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su 5 è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. E altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Alla luce di percentuali del genere, è molto difficile sostenere la teoria che i padri non versino l’assegno perché sono certi che con quei soldi le ex mogli si godano la vita invece di occuparsi dei figli, visto che la maggior parte delle madri sole ha ben poco di cui godere.

Poiché la situazione italiana è molto lontana dal produrre uno scenario ideale nel quale entrambi i genitori producono il medesimo reddito (solo il 54% delle donne infatti lavora e, chi lo fa, guadagna 0.48 euro per ogni euro guadagnato dai colleghi maschi; se il salario annuo di una donna ammonta a 23mila euro, quello di un uomo, 44mila) come è realizzabile un mantenimento diretto che rispetti la proporzionalità al reddito di ciascuno dei genitori? Il disegno di legge propone di stilare un preciso elenco di ogni singola voce di spesa (visite mediche, pappe, latte artificiale, pannolini, lettino, carrozzina, passeggino, biberon, fasciatoio, medicine, vestiti, calzature…) e di suddividere poi quei capitoli di spesa in base agli introiti di ciascun genitore; si configura un lavoro davvero complesso (chissà quante ore di mediazione a pagamento occorreranno…) e da ripetere molto spesso, visto che nella prima infanzia i capitoli di spesa variano a grande velocità: quanti “piani genitoriali” dovranno stilare le famiglie e a quali costi?

6) Assegnazione casa familiare (art. 14) La norma in esame prevede la possibilità di stabilire nell’interesse del minore che questi mantenga la residenza nella casa familiare indicando, in caso di disaccordo, il genitore che può continuare a risiedervi, il quale sarà tenuto a versare il pagamento di un indennizzo a carico del coniuge che non risiederebbe nella abitazione. Ebbene, tale ipotesi è decisamente impercorribile, non solo perché non sembra tener conto della reale situazione economica in cui versa solitamente una famiglia italiana, già ampiamente illustrata nel capitolo precedente, ma soprattutto perché non sembra ricordarsi che spesso la donna ha rinunciato al lavoro oppure ha interrotto la propria carriera per crescere i figli. Peraltro, si evidenzia la genericità dell’assunto, atteso che non esamina il caso di comproprietà o di intestazione ai figli, ma parla solo di proprietà. Nel nostro Paese l’affido condiviso non ha trovato una grande applicazione, non per le ragioni che si leggono nel corpo della relazione al ddl, ma poiché, diversamente da quanto si verifica negli altri paesi europei, la gestione dei figli è pressoché esclusiva prerogativa della donna. Per tale motivo, la risoluzione del Consiglio di Europa, volta a adottare una legislazione che assicuri l’effettiva uguaglianza tra padre e madre nei confronti dei figli, trova maggiore applicazione nei paesi della Unione. Diversa è la cultura e profondamente differenti sono stati negli anni in essi gli interventi normativi e di welfare volti, effettivamente, a tutelare e migliorare la possibilità delle donne di crescere i loro figli, salvaguardando il proprio diritto al lavoro e alla possibilità di progredire sul piano professionale e dunque usufruire di quella autonomia economica che oggi è quasi inesistente.

7) Il “friendly parent”, ovvero i diritti relazionali del bambino (art.17) Recita l’art. 17 del DDL: “Quando in fase di separazione dei genitori o dopo di essa la condotta di un genitore è causa di grave pregiudizio ai diritti relazionali del figlio minore e degli altri familiari, ostacolando il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo con l’altro genitore…il giudice…può adottare con decreto uno o più provvedimenti . . .”. La “friendly parent provision” è un concetto sulla base del quale si pretende di giudicare la competenza genitoriale in sede di separazione: il bravo genitore è un genitore “friendly”, ovvero un genitore che – dopo la separazione – è capace di cooperare con l’altro genitore e di agire in modo da incoraggiare e favorire i contatti del minore con lui. In Italia la friendly parent provision è denominata “criterio dell’accesso” e viene inteso come la “capacità di comprendere ed elaborare il problema della continuità genitoriale, che lega entrambi e perdura oltre e nonostante la separazione, nonché la disponibilità di assicurare al figlio l’accesso all’altro genitore e, con lui, alla sua stirpe ed alla sua storia relazionale.”  La friendly parent provision sembra la naturale conseguenza del riconoscimento del diritto del figlio minorenne di mantenere, anche in caso di separazione dei genitori, un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, in modo da ricevere da entrambi cura, educazione ed istruzione, un diritto sancito dalla legge sull’affido condiviso del 2006; in quanto tale, sembrerebbe un criterio in grado di garantire che le decisioni prese dal Tribunale in materia di affido vengano prese nel rispetto del superiore interesse del minore. In realtà la friendly parent provision è un ragionamento paradossale e conduce a decisioni spesso dannose per i soggetti coinvolti. È paradossale perché propone di limitare i tempi di permanenza del minore col genitore “colpevole” di aver ostacolato la bigenitorialità, condannando il minore a non trascorrere tempi paritetici con entrambi i genitori, cioè creando per il minore la medesima situazione pregiudizievole che dovrebbe correggere; conduce a decisioni pericolose e/o dannose per i soggetti coinvolti perché si fonda su premesse false. Alla base della necessità di garantire al minore il mantenimento in merito hanno dimostrato che raramente le accuse di violenza domestica e abusi sui bambini sono false e strumentali. Riguardo gli abusi sui minori, una analisi australiana dei documenti del Tribunale della famiglia, ad esempio, che ha preso in esame 200 casi nei quali erano state mosse accuse di abuso sui minori, ha riscontrato che solo il 9% di queste accuse erano false.

Un altro studio, sempre australiano, ci dice che: dei colpevoli di abuso sui minori (quelli trovati colpevoli al di là di ogni ragionevole dubbio), il 61% erano padri, il 31% altri membri della famiglia (per lo più maschi) e l’8% erano madri. Dei 4 tipi di abuso (abuso fisico, sessuale, psicologico e negligenza), l’abuso sessuale è risultato quello maggiormente confermato dalle indagini e i maschi rappresentano la percentuale più alta fra i perpetratori.

Delle accuse presentate dalle madri, il 63% è stato confermato dalle indagini, mentre solo il 13% delle accuse presentate dai padri è stato confermato. Su 147 famiglie esaminate, in 11 casi le accuse sono risultate false (pari al 7%). Un altro studio afferma che quando i padri vengono accusati di abuso, la possibilità che queste accuse conducano il Tribunale a negare i contatti con la prole è remota anche quando le accuse sono confermate dalle indagini, mentre un report dell’Australian Institute of Criminology denuncia che i bambini tutelati dal West Australian Family Court hanno espresso tutta la loro frustrazione per il fatto che le loro denunce degli abusi subiti sono stati minimizzate e/o rigettate dalla Corte, che le ha imputate all’ “influenza materna”. In un altro studio ancora si rileva che proprio i padri che reclamavano nel corso delle controversie per l’affido maggiore tempo da trascorrere con i figli erano quei padri con alle spalle un passato di maltrattamenti, problemi mentali o dipendenza da alcol o droghe e che, nonostante questo, il Giudice si è impegnato a garantire la continuità della relazione padre-prole. Alla luce di tutte le ricerche condotte, oltre ad eliminare la friendly parent provision, il Family Law Legislation Amendment del 2011 (che come sottotitolo porta “Family Violence and Other Measures”, misure riguardanti la violenza domestica), ha modificato le definizioni di “violenza domestica” e “abuso”, e ha imposto che la priorità, quando si tratta di decidere per l’affidamento di un minorenne coinvolto in una separazione, deve essere la sua incolumità. La parola usata in inglese è “safety”, intesa come “freedom from risk” (libertà dal rischio). Il bambino deve essere innanzi tutto essere protetto da tutto ciò che può costituire un rischio concreto per la sua vita e per il suo benessere.

Questo perché, spiega il magistrato David Halligan in una “guida alla riforma per gli operatori”: “l’enfasi sulla bigenitorialità e sul concetto di “friendly parent” ha portato i tribunali a dare scarsa importanza e inadeguata attenzione al problema della violenza domestica e del maltrattamento dei bambini.” La seconda priorità, afferma il professor Patrick Parkinson, ex presidente del Family Law Council (un organo consultivo del procuratore generale federale), deve essere la “parental safety”: quando si decide per l’affido di un minore, prima ancora di preoccuparsi di mantenere il rapporto fra questi e i genitori, occorre assicurarsi che uno dei genitori non sia costretto a correre rischi a causa dell’altro; è più importante impedire che i soggetti coinvolti – tutti i soggetti coinvolti, non solo i bambini – corrano il rischio di subire violenze, piuttosto che tutelare il rapporto del minorenne con entrambi i genitori. In Italia, nel 2014 Rosi Buonanno muore assassinata a casa sua, nella quale l’ex convivente Benedetto Conti poteva accedere per ben due volte a settimana allo scopo di far visita al figlio di due anni. Così aveva stabilito il Giudice, a dispetto delle accuse di stupro e stalking: sei denunce. Conti si è recato a casa di Rosi, l’ha uccisa e se ne è andato, lasciando il bambino in casa, accanto al corpo senza vita della madre, da solo. Il bambino è rimasto lì per ore, prima che lo ritrovassero i nonni. Dopo l’omicidio la madre di Rosi dichiarò alla stampa: “Sapevamo che sarebbe finita così”. Una morte annunciata, che si sarebbe potuta evitare grazie ad una adeguata valutazione del rischio e all’applicazione del principio della parental safety. È anche quanto è successo nel caso di Federico Barakat nonostante tutte le denunce della madre.

O nella strage di Cisterna di Latina per non citare che i casi più noti. La friendly parent provision impone una semplificazione della realtà, specialmente quella delle relazioni affettive, attraverso uno schema rigido che omette colpevolmente di citare il problema delle violenze intrafamiliari, rischiando in questo modo di rendere lo strumento normativo un concreto ostacolo ai processi di uscita da un vissuto di maltrattamenti e sofferenza. Per tutelare davvero i bambini coinvolti in una separazione giudiziale occorre prendere coscienza di alcuni fatti:

• Non è vero che la violenza sulle donne non ha niente a che fare con la violenza sui bambini, anzi, tutti gli studi mirati ad analizzare la coesistenza di violenza domestica e abusi sui minori hanno rilevato che spesso si sovrappongono, perché è estremamente probabile che quei padri che hanno usato violenza sulle compagne adottino anche con i propri figli il medesimo comportamento abusante e le stesse tecniche di controllo psicologico;

• Non è vero che le accuse di violenza domestica e abusi sessuali sui bambini sono comuni durante le controversie per l’affido dei minori e non è vero che la stragrande  maggioranza delle accuse sono false, infondate o strumentali. Anzi: nelle aule di Tribunale sollevare accuse di abuso spesso va a discapito del genitore abusato o protettivo più di quanto non danneggi il presunto abusante. Le donne che muovono accuse di abusi ottengono sentenze meno favorevoli di quelle che non lo fanno;

• “Non si può essere allo stesso tempo un buon padre e un partner violento. 8) Abrogazione del reato di cui all’art. 570 bis cp (art. 21) Con l’abrogazione poi del reato di cui all’art. 570 (art. 21) il coniuge non ha più la possibilità di denunciare la grave condotta perpetrata, atteso che di tutt’altra natura è la sanzione amministrativa prevista dal disegno di legge. In sintesi, una sorta di impunità al genitore dolosamente inadempiente. * Riassumendo, il DDL Pillon in concreto vuole:

• Espropriare i genitori che si separano consensualmente della capacità genitoriale sostituendo alla loro figura il mediatore famigliare in ciò che riguarda la vita concreta di bambini e bambine, partendo dal presupposto che due persone che si separano siano automaticamente incapaci di occuparsi del bene dei minori, e pertanto vadano esautorate dai loro compiti, limitate nella loro libertà e costrette a rendere conto ad una figura terza, ritenuta dallo Stato un supervisore competentissimo e super partes, anche quando la separazione è consensuale e vengono trovati accordi soddisfacenti per tutti;

• Costringere i bambini e bambine a cambiare continuamente casa indipendentemente dalle valutazioni e dagli accordi dei genitori trasformandoli in piccoli migranti settimanali senza tener conto del fatto che la stabilità della propria stanza e della casa è un bisogno fondamentale per ogni essere umano, con tutto il carico di fatica che questo comporta: non si amano due orsetti identici, non ci sono due pigiamini preferiti identici, nulla di ciò che amiamo è interscambiabile perché non siamo cloni. Il Disegno di legge Pillon per questo

• Introduce il mantenimento in forma diretta dei figli, eliminando l’attuale assegno di mantenimento, il piano genitoriale e la mediazione familiare obbligatoria, che rischiano di prolungare e rinforzare la conflittualità in una separazione che già di per sé impoverisce qualunque coppia.

• Presume che le donne accusino falsamente il partner di violenza per avere benefici nelle cause civili di separazione e divorzio; che le donne utilizzino i minori contro i padri; che il genitore economicamente più debole (per lo più le madri) utilizzi il contributo economico al mantenimento del minore corrisposto dall’altro genitore per finalità personali, introducendo il c.d. mantenimento diretto dei minori, senza peraltro prevedere alcuno strumento volto a tutelare il nucleo genitore/minore in caso di inadempimento dell’altro genitore. Nello stesso senso, il DDL, fa un uso strumentale dei principi del preminente interesse del minore e della bigenitorialità, con una retorica parificazione dei tempi di frequentazione genitoriale, di impossibile concreta applicazione. È dato certo che alcuni genitori, per esigenze lavorative e personali, stiano con i propri figli un tempo minore rispetto a quello concordato e/o disposto dal Tribunale. Così come avviene nelle coppie serene. Dunque, la norma non ha lo scopo di implementare la relazione affettiva con i figli ma solo di esonerare un genitore dal pagamento del contributo economico e di conservare il proprio patrimonio immobiliare.

• Introduce di fatto l’impossibilità per una gran parte delle donne, in particolare per quelle con minori opportunità e risorse economiche, di chiedere la separazione, a mettere fine a relazioni violente e continuare in situazioni di rischio in nome di malintesi diritti dei figli (che vengono così a loro volta messi a rischio)

• Obbliga alla mediazione familiare, una pratica sconsigliabile e, in presenza di violenza domestica e familiare, e secondo le normative attuali, espressamente vietata dalla Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia in Parlamento all’Unanimità nel 2013. • Introduce l’alienazione parentale facendo finta di non sapere che la teoria, nata dalla mente di un finto scienziato, non ha alcun fondamento scientifico e legittima il valore della pedofilia e dello stupro familiare sui figli, colpevolizzando le madri che tutelano i minori dalla violenza diretta e/o assistita.

• Ignora volutamente il persistente squilibrio di potere e di accesso alle risorse delle donne, proponendo un’equiparazione tra i genitori – doppio domicilio dei minori, eliminazione dell’assegno di mantenimento, contributo all’affitto per il coniuge non assegnatario della casa – che dà per scontate disponibilità economiche molto spesso impossibili da garantire per le donne • Ignora volutamente gli elevatissimi tassi di disoccupazione femminile e del gap salariale tra uomini e donne, come il fatto che le madri continuano a essere espulse dal mercato del lavoro per la carenza di servizi in grado di conciliare scelte genitoriali e professionali, mentre sulle donne ricade quasi interamente il lavoro di cura

• Ignora volutamente che già ora, nelle separazioni causate dalla violenza maschile, i figli diventano per i padri oggetto di contesa e strumento per continuare ad esercitare potere e controllo sulle madri.

• Ignora volutamente il fatto che, prima ancora di ricorrere alla giustizia penale, le donne scelgono la separazione o il divorzio per sottrarsi a relazioni sbagliate o violente  e regolamentare l’affidamento dei figli, denunciando le violenze solo se continuano anche dopo la richiesta di separazione.

• Ignora volutamente che sia stata ampiamente riconosciuta l’inefficacia dell’affidamento congiunto e di altri percorsi prescrittivi e coatti nei casi di violenza assistita da minori.

• Ignora volutamente la pervasività e l’insistenza della violenza maschile che determina un gran numero di richieste di separazioni e genera le situazioni di maggiori tensioni nell’affidamento dei figli.

• Ignora volutamente che nei Tribunali le donne incontrano difficoltà enormi nel denunciare le violenze subite, che spesso non sono credute, che devono affrontare una pesante ri-vittimizzazione da parte di un sistema giuridico e sociale che ancora tende a spostare la responsabilità degli atti violenti sulla vittima del reato piuttosto che sull’autore. *

Per tutte queste ragioni l’UDI-UNIONE DONNE IN ITALIA chiede a codesta Commissione che il DDL a prima firma del Senatore Pillon venga ritirato. Esso è in contrasto con le Convenzioni internazionali ratificate dallo Stato italiano e lede i diritti fondamentali dei minori e delle donne che trovano fondamento nella Carta Costituzionale per come interpretata dalla Corte Costituzionale e applicata dalla Suprema Corte di Cassazione.

Unione Donne in Italia