Nell’attuale contesto storico e sociale in cui si assiste al trionfo delle psicoterapie e al loro uso talvolta selvaggio cui non si sottraggono – impudenti – nemmeno i media, offrendo, soprattutto alle donne, “ascolti” improbabili, interpretazioni improponibili e filtri di benessere, una domanda è d’obbligo:
_ Ma le donne, le donne, sono poi davvero così malate?La domanda sorge spontanea e legittima perché a risultare immediatamente evidente a chi segua con attenzione le proposte editoriali sul tema del disagio all’ordine del giorno – è l’{{idea che la patologia sia appannaggio di un solo genere}} e sia dunque declinabile soprattutto al femminile: anoressie, bulimie, depressioni, attacchi di panico e quant’altro, avrebbero rimpiazzato, nella post-modernità, la vecchia “isteria” ormai clinicamente destituita e ridotta a poco più che a un pallido ricordo.
_ Sull’anoressia/bulimia, poi, con i gruppi formati da sole donne, ci si marcia: ma le nuove forme di segregazione femminile, – checché se dica e se ne scriva – vengono legittimate da una teoria ben agguerrita e attrezzata per giustificare l’ingiustificabile…

E, visto che è proprio sulle patologie femminili che tanto si insiste, non c’è di che lamentarsi: un primato di genere – {in}-generoso e {s}-valutante – sul {cotè} “malattia”, pare proprio che le donne lo abbiano conquistato!… Non c’è dubbio.
_ Quest’idea è talmente entrata nella pelle – anche nella pelle delle stesse donne – che a poche/i viene in mente di chiedersi se e in che misura un tale {pre}-giudizio obbedisca a una strategia funzionale ad un {{apparato ideologico e culturale che ha tutto l’interesse a puntare sulla patologizzazione del femminile}} allo scopo di deviare lo sguardo da quelle gravi patologie maschili che producono, ogni giorno, dentro e fuori la famiglia, veri e propri genocidi.
_ E, detto per inciso, che queste stragi siano reali o simboliche, poco conta.

{{Alcune conseguenze…}}

Il primo esito “edificante” di questa operazione di {{ {e}-sportazione chirurgica delle patologie maschili e dei suoi effetti sociali fuori dall’osservatorio clinico}} – ma anche da quello politico e sociale – è che tali patologie, generatrici di stupri e assassinii di ogni genere, restano in ombra, letteralmente “tagliate fuori”, appunto, dall’indagine e dalla riflessione, passando così del tutto inosservate.
_ Considerando la questione dal versante squisitamente clinico, si assiste, in realtà, a una duplice operazione, a un doppio “taglio”, che va ad incidere su due aspetti differenti ma strettamente connessi: non solo queste {{patologie maschili non divengono oggetto specifico di studio,}} ma i soggetti che ne sono portatori, accettati socialmente, non ”entrano” negli studi professionali di coloro che dovrebbero occuparsene (psicanalisti e altre forme di praticantato “psi”).
La connessione, pur intima e importante fra i due aspetti indicati, non sarà oggetto di approfondimento in questo contesto ma potrà essere ripresa e sviluppata in altra occasione.

Una seconda conseguenza, invece, – che investe più direttamente la sfera della politica aprendo seri interrogativi sulla sua effettiva capacità di incidenza etica nel sociale – va senz’altro rilevata: il totale disinteresse e la mancanza d’ attenzione – tutt’altro che innocenti – rivolti da parte delle Istituzioni al tema della violenza contro le donne, rappresentano la {{forma più insidiosa di complicità e di connivenza}} nei riguardi della stessa. E che tale connivenza sia consapevolmente o “inconsciamente” perseguita e praticata attraverso un silenzio/assenso non fa differenza.

Come dire che di queste stragi siamo responsabili tutti, nessuno escluso, nella misura in cui, ciascuno a suo modo e per quanto compete alla sua specifica sfera di influenza – clinica, sociale, o politica – contribuisce a coltivare e ad alimentare il {{ {pre}-giudizio di un femminile patologico invece che impegnare tempo, risorse e pensiero su quelle patologie maschili}} dei cui effetti devastanti siamo puntualmente aggiornati.

Una lunga esperienza nel campo del disagio femminile mi ha tuttavia insegnato, in proposito, a riconoscere un aspetto inquietante che tende a rimanere velato sullo “sfondo” passando così del tutto inosservato.
_ Di che si tratta? Del fatto che la “malattia”, il più delle volte, non è semplicemente lo stato di malessere di cui soffre la persona che, in preda ai suoi sintomi, si rivolge a qualcuno in cerca d’aiuto (se non indirettamente per gli effetti che ne derivano) ma è una condizione di disagio e di sofferenza che appartiene, prima che a lei, a chi si tiene rigorosamente fuori e si guarda bene dal frequentare quei luoghi di Cura in cui una richiesta d’aiuto potrebbe essere accolta.

{{Rovesciamo la prospettiva…}}

Se questa breve premessa è stata necessaria per demistificare il pregiudizio largamente diffuso sull’entità e frequenza delle patologie femminili, dobbiamo ora chiederci che cosa ci abbia spinte, a proporre di aprire in Padovadonne uno spazio intitolato Per una Cura a misura di donna.
_ Una contraddizione emerge, infatti, palese: perché dedicare spazio e attenzione al tema della Cura, {{perché parlare di una Cura a misura di donna}} se non abbiamo fatto altro, sinora, che cercare di dissolvere l’idea stessa secondo cui le donne sarebbero così malate come i media, l’editoria, la psichiatria, la psicanalisi e le altre pratiche “psi” vorrebbero far credere?
_ Perché? Perché è un fatto conclamato e unanimemente riconosciuto che sono proprio le donne – a differenza dei rappresentati dell’altro sesso e fatte salve, ovvio, le debite eccezioni – a rivolgersi a qualcuno per parlare di sé, per affrontare un malessere spesso invivibile, per formulare, insomma, una domanda di Cura e iniziare un percorso in una direzione che potrebbe essere risolutiva.

Si tratta allora, rovesciando la prospettiva, di chiedersi se questa attitudine – tutta femminile – all’attenzione, all’introspezione e all’elaborazione interiore degli eventi se questa apertura e disponibilità “naturali” a relazionarsi agli altri/e, se questo {{ {Coraggio} che porta le donne a indagare se stesse, siano segni di malattia e o di salute, di debolezza e/o di forza }}e quali siano, per contro, gli effetti nella vita di coppia, nel sociale, nel politico, della tendenza contraria – riscontrabile in preoccupante misura sul versante maschile – ad una supposta autosufficienza narcisistica che rende gli uomini così “resistenti” e refrattari a parlare di sé, a intraprendere le vie della Cura.

Se diamo retta a Freud che certo – pur con tutte le critiche che merita sul versante dei suoi scritti teorici sul femminile – qualcosa ne sapeva, dobbiamo dire che chi è in grado di riconoscere e di aver consapevolezza del proprio malessere è, già, in qualche modo, sulla via della Salute, il che ci porta a concludere che la maggior richiesta di Cura da parte delle donne, {{lungi dal deporre a favore di un primato della patologia femminile, depone piuttosto a favore del contrario}}.

{{L’importanza della Differenza nella Cura}}

Ciò premesso, dobbiamo ora entrare nel vivo del nostro argomento e chiederci da dove sia nata l’esigenza – direi persino l’emergenza – di porre al centro della nostra riflessione l’importanza della Differenza all’interno di una Cura e di dare a questo particolare aspetto una così grande rilevanza.
_ L’urgenza nasce dal fatto che la cura, nei termini in cui viene generalmente pensata e “diretta” – sia essa di genere psichiatrico, psicanalitico, psicoterapeutico o altro – è sempre di un solo genere, è {{una cura unisex in cui la differenza uomo-donna non è tenuta in alcun conto}}.

Esistono, invece, fra uomini e donne, differenze assai sensibili (sia nei casi di anoressia, che nelle depressioni, e persino nelle motivazione e nelle modalità suicidarie) che vanno dall’esperienza e percezione che ciascun genere ha del proprio corpo, al modo di rapportarsi al male di vivere, al tipo di sintomatologia e tali differenze esigono l’utilizzo di modalità terapeutiche differenti per i due sessi.
C’è dunque, fra le tante, almeno {{un’ottima ragione per insistere sulla Differenza nella Cura}}, su questo aspetto davvero cruciale e tale ragione consiste nel fatto che nessuno – o quasi – lo fa.

Nessuno – o quasi – sembra interessato a una questione così delicata e dai risvolti umani e sociali estremamente complessi, né dal punto di vista strettamente teorico, né dal punto di vista di quelli che possono essere, per una donna, gli effetti postumi – decisamente disastrosi – di una cura indifferenziata, di una cura unisex.
Il “quasi” è qui giustificato dal fatto che ad accennarne, proprio di recente, è stato uno psichiatra cui va riconosciuto il merito, fra altri, di aver sollevato il problema.
_ Quanto all’{{apporto teorico delle donne}} – psichiatre, psicanaliste, psicologhe e quant’altro – sul tema della violenza contro le donne in generale e, in particolare sul tema della Differenza e della sua incidenza nella cura, sarebbe ingenuo contarvi perché il genere di formazione unisex impartita all’interno delle varie istituzioni “psi” non lascia, al momento, troppe speranze.

{{Le insidie di una Cura indifferenziata (unisex)}}

Le psicanaliste donne esistono davvero? Ecco una domanda per chi fosse interessata/o ad approfondire lo status della posizione delle donne all’interno delle Istituzioni psicanalitiche e di confrontarlo a quello che normalmente governa altre istituzioni di genere unico: il funzionamento di tali Istituzioni, infatti, non differisce per nulla – se non per il fatto di essere di gran lunga peggiore – da quello di tutte le altre.
_ Ma che cos’è una cura unisex?

E’ – come il termine suggerisce – una cura pensata, impostata e “diretta” a partire da una teoria e da una pratica che non tengono nel dovuto conto la differenza di genere che passa – nei modi di sentire, di vivere, di soffrire, di essere – fra un uomo e una donna.
Eppure che tale differenza esista e che si evidenzi nella forma di un’asimmetria radicale e irriducibile fra i generi, fu chiaro, ad un certo giro di svolta teorica, allo stesso Freud, deciso a battere, in un primo tempo, con l’Edipo, la via indifferenziata dell’omologazione di genere.
_ Per farsene un’idea, basta leggere gli scritti – non a caso cronologicamente tardivi – dedicati alla sessualità femminile in cui sono facilmente percepibili le difficoltà teoriche, il travaglio concettuale e il groviglio di questioni in cui il Padre della psicanalisi si trovò letteralmente invischiato per la sua incapacità a trovare una via d’uscita teoricamente persuasiva…

Di qui l’interrogativo, assai noto, sull’enigma della femminilità che tanto affliggeva Freud e continua forse a dar da pensare agli psicanalisti…: Che vuole la donna? (ma perché ho il sospetto che forse avrebbero voglia di dire, fuor dai denti e senza osarlo: Ma che cosa diavolo vogliono…!?).
_ Già… Non solo gli psicanalisti ma, in verità, neppure gli uomini, in generale, sono in grado di capire che cosa vuole una donna anche se i primi passano a volte la loro vita a chiederselo e magari a “curarle” senza troppo successo…

Alcuni anni fa, in una Conferenza a Milano, ho provato a rispondere a questa domanda partendo da una riflessione sulla mia concreta esperienza di lavoro condotta con molte donne dicendo, semplicemente, che ciò che la donna vuole, ciò cui massimamente aspira – al di là delle apparenze e al di sopra di ogni altra cosa – è la possibilità-libertà-diritto di {{Essere una donna, ovvero di essere Altro-da una Madre, Altro-da una Moglie, Altro-da un Uomo, Altro-da un Oggetto}} per il desiderio dell’altro, senza che questa Alterità implichi la sua scomparsa/cancellazione dal simbolico.
E’ una tesi assai poco ortodossa: niente supposta “invidia del pene”, la cui attribuzione alla donna è da mettere in conto, piuttosto, a un desiderio/fantasma maschile su ciò che l’uomo desidera che la donna desideri… Senza questo desiderio di lei, lui affonda…nell’impotenza.

{{Inferno…}}

Che l’esercizio di questo suo diritto ad Essere una donna – e a non essere dunque costretta ad abdicare alla propria femminilità – sia per lei un’esigenza irriducibile e profondamente radicata, non vuol dire che sia consapevolmente riconosciuta, né, d’altronde, che sia realmente vivibile e praticabile..
_ L’{uni-verso} patriarcale mono-fallo-centrico che governa incontrastato il nostro ordine simbolico, esclude il di-verso, il due che da questo uni-verso differisce e i riflessi deleteri di questa esclusione simbolica agiscono e si ripercuotono sulla donna oltre che sotto forma di rinuncia coatta al femminile e ai suoi valori, anche nell’impossibilità di trovare, all’interno di un ordine pensato e costruito a misura d’uomo, “un posto”, uno spazio abitabile.
_ L’inesistenza di questo spazio essenziale – di genere e di senso – si fa immediatamente percepibile tutte le volte che proviamo a rispondere a queste domande:

_ Che cos’è, che valore ha, nel simbolico, una donna che non sia una Madre?
_ Che valore ha, nel simbolico, una donna che non sia una Moglie?
_ Che valore ha, nel simbolico, una donna che non faccia l’ Uomo, che non assuma come propri dei paradigmi di comportamento maschili?

Nessuno/niente. Siamo di fronte a una perdita di valore e di senso della sua stessa esistenza perché per Lei donna – senza figlio, senza uomo e incapace di rassegnarsi a diventarlo – non è contemplato, dentro questo simbolico, uno statuto di esistenza.

Di qui il significato e il senso della formula “La donna non esiste” enunciata da uno psicanalista che, malamente interpretata negli anni ’70, fu motivo di scandalo.
“{{La donna non esiste}}”, non è un giudizio di valore negativo ma vuol dire che la donna, per poter diventare ciò che è – compito che, a prescindere dal sesso, spetta a ciascuno di noi – deve prima inventarsi e questa invenzione di sé non può che essere opera sua, creazione esclusivamente sua.

Un’opera non ancora iniziata che potrà nascere, crescere e prender forma solo in una prospettiva di oltrepassamento di quel limite riduttivo insito nella ricerca di parità e di emancipazione.
_ I presupposti “storici” affinché quest’opera d’invenzione avvenga ci sono tutti ma c’è ancora molto, moltissimo lavoro da fare per la realizzazione di un obiettivo come questo. Ciò è dovuto ad uno scarto generazionale oggi inevitabilmente più forte di quanto non lo fosse negli anni ’70. La presenza, in un movimento ancora in via di costruzione, di due generazioni di donne necessariamente disomogenee per grado e livello di crescita personale, di maturazione e di elaborazione raggiunte, comporta un dislivello fra percorsi di crescita già avvenuti e percorsi di crescita appena iniziati.
_ I problemi posti da questo scarto generazionale sono molti e saranno oggetto di approfondimento e di dibattito all’interno della nostra Associazione.

{{Imparare l’arte del Dentro e Fuori: un modo de-situarsi tutto femminile}}

O l’Uno o l’Altro, o Dentro o fuori: è questa la {{logica binaria, il cancro da cui è affetto il simbolico patriarcale}} in cui viviamo e da cui dipendono, in larga misura, le cosiddette patologie femminili.

Dai suoi effetti distruttivi, quotidianamente all’opera e vissuti sulla propria pelle, è scaturita quella forma di sapienza femminile che lucidamente traspare quando le donne si chiedono se sia il caso di stare dentro o fuori dai Luoghi della politica.
_ Se insistono nel riflettere su questo punto, è perché “sanno” perfettamente – anche se non sempre c’è consapevolezza di questo “sapere” – qual è la vera grande questione, il Nodo che le affligge come donne tutte le volte che si trovano costrette a partecipare con una squadra maschile a una partita giocata in campo maschile e dunque sul registro simbolico (binario) dell’Aut-Aut, del dentro o fuori.

La vera grande questione si chiama Alienazione nel primo caso (dentro) e Mortificazione nel secondo (fuori). {{Se l’inclusione simbolica implica l’alienazione, l’esclusione implica la morte (simbolica)}}.
_ Affrancarsi da questa alternativa vuol dire {{imparare l’arte di stare sincronicamente dentro e fuori dal dentro in cui si sta dentro}}, vuol dire abitare quella dimensione del Due che loro, le donne, hanno nel sangue…

Una Cura a misura di donna dovrebbe dunque {re-stituire} alle donne l’estro di inventarsi, di creare se stesse, di utilizzare quella sapienza che deriva dal dolore di una condizione al limite dell’impossibile – e dell’invivibile – per {{aspirare a ben altro che alla parità e a un’emancipazione}} da cui sembrano talvolta così accecate da restare più prigioniere e vittime di se stesse che dei loro aguzzini.

La “scomparsa” – scrive Terragni – ma direi, meglio, l’estinzione del femminile, è la più grande vittoria del patriarcato.
_ Occorre un “giro” in più e se questo giro, questa svolta in direzione contraria alla estinzione del femminile (di cui l’anoressia tragicamente testimonia) non si compie da parte delle donne, la via della regressione è fatale – e non solo per loro.
_ Che questo regresso sia all’opera non c’è dubbio ed è possibile leggerlo come un segnale, il prezzo da pagare per una svolta mancata, quasi che il movimento delle donne, giunto al culmine del suo pensiero, avesse mancato il Tempo giusto.
_ E’ possibile oggi non mancare il Tempo che il presente ci offre?