Forse anche in noi che vorremmo essere nonviolenti rimbalzano
tentazioni di radicalismi che ci impediscono di vedere i limiti di
tutti e, quindi, anche nostri. Viviamo tempi abbastanza particolari, in cui certa è l’inevitabilità
di profondi cambiamenti, anche antropologici; meno certe le direzioni
di marcia che imboccheremo come società.
_ Avvertiamo la positività
potenziale di molti diritti che si sono affermati almeno
giuridicamente, anche se non ancora per tutti, di tanta ricerca
scientifica, della ricchezza della comunicazione e delle nuove
tecnologie.
_ Ma non è detto che saremo così bravi da “essere
all’altezza”: è quasi palpabile la percezione della violenza, quella
palese e aggressiva, ma ancor più quella latente e subdola che ovunque
insidia la convivenza e la democrazia.

Perfino il linguaggio politico
si esprime ormai solo nella rissa e ignora l’argomentare. Inadeguati e
ammutoliti i rapporti familiari che ammettono offese, percosse,
stupri, pedofilia, uccisioni. False e intempestive esigenze di
giustizia insidiano anche le religioni e portano la passione e la fede
fuori dal livello simbolico a farsi azione rivendicativa e divisione
con esiti eversivi, settari, razzisti.

Forse anche in noi che vorremmo essere nonviolenti rimbalzano
tentazioni di radicalismi che ci impediscono di vedere i limiti di
tutti e, quindi, anche nostri.
_ Ho già detto che i computer meno
aggiornati continuano a sottolineare in rosso la parola “nonviolenza”:
dobbiamo renderci conto che è già gran cosa che siamo meno isolati
degli antichi profeti.

Ma per essere totalmente coerenti bisogna
testimoniare di più e in modi nuovi (da cercare perché neppure io so
bene quali possano essere).

Penso all’obiezione di coscienza e
all’incapacità di capire che, una volta che il soldato è diventato un
professionista, non possiamo limitarci ad assistere alle
trasformazioni dei sistemi d’arma e alla partenza dei droni senza
pilota azionati da un soldato che senza emozione ripete le mosse di
quando giocava alla playstation e manda bombe sulla popolazione
civile.

E’ una parola non gradita, ma dovremmo “studiare” di più per
non limitarci alle pur necessarie iniziative simboliche. Celebriamo
il nostro Gandhi, che amiamo per quello che sappiamo di lui, ma che è
sempre più lontano nel tempo, soprattutto per i giovani, ai quali
risulta difficile coglierne l’esemplarità.

La conoscenza della
spiritualità di Gandhi non è immediata, potremmo perfino percepire
come limite la sua scelta di castità a trentasei anni e domandarci se
questo grande uomo sia stato davvero giusto con la moglie, da cui
confessa di aver imparato la nonviolenza per la sua sottomissione alla
propria giovanile intemperanza e nonostante lei abbia affrontato il
carcere e, nel 1946, sia morta dopo un digiuno.

Dico questo non per
limitare il valore di Gandhi, ma perché non credo nella venerazione
totalizzante. I grandi che ci hanno preceduto hanno consegnato la loro
eredità perché venisse portata oltre in altri modi e diventasse
dinamica.

Capitini voleva che non ci definissimo mai “militanti”, ma
“persuasi”. Persuasi che vale la pena, ma non solo nei gruppi in cui
ci troviamo fra noi e, forse, ci consoliamo. Bisogna alzare la voce,
usare la fantasia e i mezzi del nostro tempo per far emergere lo
scandalo della nonviolenza e farla diventare metodo non (solo) perché
virtuosa, ma perché necessaria per la salvezza del futuro.

* {da La Nonviolenza in Cammino, 25
sett. 2010}