Posso dire di aver  fatto la conoscenza del testo della Eger  davvero per caso, in un giorno di dicembre. Un libro quasi in disparte sugli scaffali,  giallo pallido la copertina, un filo spinato che s’intreccia con lo stelo di un fiore altrettanto giallo, ma vivido. E’ un  testo  scritto da una psicologa sopravvissuta  ai lager nazisti (che)  ci insegna a superare  i traumi del passato attraverso la resilienza.

Questo leggo dalla copertina. Invita ad implementare   la speranza di essere più forti del dolore che si prova e che con ogni probabilità continueremo a sentire, quando per una frazione di secondo o un’interminabile (o forse più)  minuto  la consolazione non riuscirà  a farsi pensiero pensato .

Il racconto del lager  è sgomento puro, tempo senza tempo, cammino in luogo   infinito di desolazione , testimonianza  di prova sovrumana. Là  nell’allora superata, ma  nel quì ed ora  ancora  potentemente presente.

Il  giorno della memoria, declinato nel  27 gennaio di ogni anno, obbliga ad  affrontare la rappresentazione di un dolore inenarrabile. Questo dolore Edith Eger lo ha vissuto. Interroga il lettore  con domande silenziose e scomode, forse  già monche di risposta, a loro volta  sommesse interlocutrici di un mondo di individui a brandelli, imprigionati in uniformi sporche e stracciate. Costruisce con pazienza e fiducia un filo sottilissimo, ma potente, di speranza.

Sopravvivere significa per lei  a tutt’oggi avere la forza di cercare se stessa. Nuda, la pelle segnata da cicatrici di odio, il cranio rasato, in mano ciuffi di capelli strappati.

Poteva  scegliere se continuare a vedere ciò che aveva perduto  o imporsi di guardare a ciò che ancora aveva. Ha scelto e vissuto, a condizioni scandite  dallo strazio di esistere, dal tramonto di una speranza sempre più abortita fino al contatto con  un’alba  impoverita dal buio di notti dentro le quali la sua vita si incistava .Memore di quanto  le era stato passato in eredità da sua  madre: nessuno potrà portarti via quello che hai messo nella tua mente.

Il ricordare  accetta di dare voce anche alla rabbia, di non chiudere  la bocca alla possibilità di trovare senso. Il dottor Mengele  , che l’aveva costretta a ballare una danza elegante e grottesca al tempo stesso, ricamata dalla grazia del voler riscattare il paradossale nel qui ed ora, non potrà ancora vincere su ciò che resta di crani nudi ed uniformi sdrucite. Regista assurdo  di tanta inumana e disperata bellezza sarà costretto a vivere con il ricordo di quello che ha fatto. Lei, costretta a ballare  il dolore, potrà e  dovrà continuare a cercare un senso  in quello che le è stato fatto.

La lotta per quella che fatica a chiamarsi ancora vita porta Edith e le sue compagne a rifugiarsi nella fantasia: cucinavamo  tutto il tempo, nella nostra  immaginazione passavano da una festa all’altra. Ne è uscita con la vita. Si chiede – e  può  farlo solo dopo che è passato tanto tempo – se è ora  in grado  di essere dentro le proprietà della vita,   lei amputata nell’anima almeno tanto quanto  è stata risparmiata dall’ insulto di una morte biologica. Viva, appunto, ma con dentro tante morti. Lascia a volte   senza respiro quella intermittenza nella luce calda di parole, quel sentirsi  passo dopo passo, ed in qualche modo (anche)   ri-conquistata al vivere, ben discosta però dal percepire continuità nella propria vita.

E’ prosa abbastanza agile, buona la traduzione. Le parole  non avvizziscono  in una ridondanza di maniera.  Usate con onestà  paiono  appena  eccessive  per quel  tramortirci di dettagli. La sensazione di essere là, dentro, nel lager si nutre di  immagini di  individui, di corpi, di pensieri, di cose. Lo spirito  di sopravvivenza, la volontà inesausta di non voler perdere il profumo dei ricordi, l’unico mondo dentro il quale si riesca ancora a percepirsi liberi dall’agonia quotidiana, permette a  lei, poi sopravvissuta,  di poter essere libera di  non identificarsi con il proprio corpo irrimediabilmente sfinito.

Sono parole nude, liberate, incise,  leggere ed impopolari nella volontà  di farsi domestiche, indossate come uniformi, ad unica protezione della  violenza del tutto manca. Ci rendono consapevoli che  pensare significa somministrarsi una violenza quasi peggiore. Trapela dagli odori diligentemente descritti il bisogno di tenere a bada, contrastandolo, un terrore  ancor più inesorabile , quello che  il  puzzo di morte possa e debba sempre regnare sovrano.

Costretta a vivere con il ricordo, Edith Eger, che pubblica  questo suo primo libro a 90 anni, ne diventa quasi il mentore buono. Davvero sceglie  nel raccontare  di lottare ancora  contro un annientamento,  annunciato in ogni minimo dettaglio come totale e totalizzante.  Usa il suo bisturi di dolore e di  rabbia per trovare la speranza, evitando di serrare  la bocca .

Solo la forza di voler vivere è riuscita a renderla più forte del suo strazio.

Dal testo di  Edith Eva Eger   La scelta di Edith, edizione Corbaccio, dicembre 2017,in originale The Choice Escape the past and embrace the possible, traduzione dall’originale americano di Lucia Corradini Caspani.