Il recente scivolone, se così vogliamo chiamarlo, dell’articolo sul sito di Amnesty International nel quale si paragona il niqab con la mascherina anti covid19 ha avuto due aspetti positivi.

Il primo è quello di suscitare come reazione quella di scrivere prontamente una lettera all’organizzazione firmata da alcune giornaliste, intellettuali e attiviste per i diritti delle donne, che sta raccogliendo, senza alcuna organizzazione strutturata alle spalle, consensi massicci e sta riaprendo un dibattito importantissimo sui tentativi di legittimazione dei dispositivi di controllo del corpo delle donne su base religiosa.

Il secondo è quello di riportare alla luce eventi e contributi di pensiero in apparenza lontani nel tempo, ma attualissimi, come la vicenda della sospensione, e poi del licenziamento da parte di Amnesty International, di una delle più interessanti intellettuali e studiose dei diritti umani delle donne o la riflessione dell’attivista Mimouna Adjam sul velo.

Gita Sahgal, alla guida dell’Unità contro le discriminazioni sessuali di Amnesty dal 2001, fu sospesa nel 2010 dall’organizzazione perché aveva espresso pubblicamente riserve sulle scelte politiche della sua organizzazione. “Condividere iniziative con il più famigerato sostenitore dei talebani in Gran Bretagna, che si presenta per di più come difensore dei diritti umani, – dichiarò Sahgal alla stampa anglosassone, -rappresenta un tremendo errore di giudizio”. La conseguenza fu la sospensione immediata, In breve, Moazzem Begg, il cittadino britannico al quale Sahgal si riferiva perchè scelto da Amnesty come testimonial di una campagna contro la tortura, fu arrestato in Pakistan dopo essere fuggito dall’Afghanistan in seguito all’intervento militare del 2001. Fu rinchiuso nel carcere di Guantánamo, e successivamente rilasciato. Da quel giorno creò un’organizzazione chiamata Cageprisoners (prigionieri in gabbia). Begg non rinnegò il suo passato di attivista islamista. Non ritirò l’affermazione che quello dei talebani era il miglior governo possibile in Afganistan. Cageprisoners vanta un altro esponente, Asim Qureshi, che propaganda i principi della jihad nei comizi sponsorizzati dal gruppo estremista Hizb-ut Tahrir difende inoltre uomini come Abu Hamza, il leader della moschea che offrì rifugio a Richard Reid, attentatore suicida. Eppure Amnesty International ospitò Begg nelle delegazioni ufficiali per sollecitare presso il governo inglese il rispetto dei diritti umani.

“Anche se diciamo che dobbiamo difendere chiunque, a prescindere dalle azioni commesse – osservò Sahgal – sembra proprio che se sei una donna inglese, di origine asiatica, e per di più laica e atea, non meriti nessuna difesa da parte delle istituzioni preposte alla tutela dei diritti civili”.

Invitammo Gita Sahgal, per la prima volta in Italia, nel 2006 nel corso del convegno internazionale promosso da Marea, La libertà delle donne è civiltà, della quale è disponibile l’intervento di allora.

Qui di seguito un articolo di Gita Sahgal che Marea pubblicò nel numero del 2010 dedicato al tema della laicità e quello dell’attivista algerina Mimouna Hadjam, anch’ella presente al convegno e sotto scorta perché minacciata di morte dagli islamisti per il suo impegno femminista, sulla questione del velo

La vittima perfetta

di Gita Sahgal

Già dal 2008 avevo preparato una nota su Begg per favorire la discussione ad una riunione di consiglio di Amnesty International. Ero dell’avviso che in primo luogo Begg non dovesse essere invitato a diventare testimonial per una piattaforma di Amnesty, ma la mia opinione non mi fu chiesta, mentre invece fui invitata a fornire informazioni che potessero servire a contestualizzare la sua figura in modo più equo.

Anche i miei colleghi che sollevavano domande furono troppo esitanti per chieder qualcosa d’altro se non una introduzione quanto più rispondente al vero, che non dipingesse Begg semplicemente come un benefattore in Afghanistan al tempo dell’11 settembre. Begg era diventato un eroe del movimento legato ad Amnesty. Era pericoloso sfidare il suo status di vittima perfetta, e ancor più pericoloso chiedere che non gli venisse attribuito il ruolo di testimonial.

Nessuna delle informazioni della nota da me preparata proveniva dalle fonti di Amnesty, avendo essa fatto ben poco lavoro di scavo sui tipi di individui e reti coinvolti. Non esiste alcun rapporto di AI sulla radicalizzazione dei giovani musulmani in Europa e in Nord America. Tantomeno, nessuna informazione proveniva da fonti dove ci potesse essere anche solo il dubbio che fosse stata estorta con mezzi di coercizione. La mia opposizione alla tortura, lontana dalla politica di Amnesty, me lo avrebbe impedito. Non avevo letto la parte centrale del libro di Begg, Enemy Combatant: A British Muslim’s Journey To Guantanamo and Back, perché non stavo verificando in alcun modo l’attendibilità delle sue esperienze a Guantanamo. Invece provai a creare un’immagine fedele utilizzando il lavoro di due esperti di politica e prassi della jihad salafita, che Amnesty conosceva in quanto erano intervenuti ad un convegno interno sul terrorismo nel 2007. La mia nota inoltre citava pesantemente un documento intitolato ‘Key Tendencies of the Islamic Right’ (Tendenze chiave della Destra Islamica) pubblicato nel Regno Unito da Awaaz: South Asia Watch. Awaaz, che avevo fondato con altri asiatici laici e antirazzisti al tempo del massacro di musulmani da parte di fanatici hindu nel 2002 a Gujarat, stava analizzando le reti transnazionali dei fondamentalisti aventi base in Gran Bretagna. Il nostro rapporto intitolato In Bad Faith, British Charities and Hindu Extremism (In cattiva fede, le associazioni umanitarie britanniche e l’estremismo hindu) aveva individuato nel Regno Unito la connessione tra organizzazioni hindu, apparentemente innocue, e quelle che avevano ucciso i musulmani a Gujarat. Il documento ‘Tendenze chiave’ era stato redatto da un gruppo che per decenni aveva compiuto ricerche sulle organizzazioni della Jamaat-i-Islami e della Fratellanza Musulmana in Gran Bretagna, come pure su altri gruppi più piccoli ed emergenti. La conoscenza interna di queste formazioni era stata fornita da elementi che erano stati membri di alcuni di questi gruppi. Due decenni fa alcuni di noi erano su posizioni diverse nel ‘caso Rushdie’. Ora stavamo lavorando insieme per tentare di mantenere vivi spazi di laicità, sempre più sotto assedio, tra popolazioni che erano soggette in modo crescente alla propaganda estremista da un lato e ad attacchi ed arresti dall’altro. Facevamo questo lavoro non perché volevamo difendere un Altro a noi lontano, ma a causa di entrambe le minacce che i nostri figli dovevano fronteggiare nelle strade delle nostre comunità.

Parole ambigue

Nella nota per Amnesty International tracciai una descrizione della minaccia posta dai gruppi della jihad salafita che si riunivano attorno alle librerie ed attraverso internet e dai loro forti legami con i gruppi armati operanti in Pakistan. Queste sono tutte informazioni da allora ampiamente riportate nei media e in vari blog, ma appaiono del tutto estranee alla conoscenza istituzionale e alla comprensione di AI. Avevo inoltre analizzato le informazioni fornite dal resoconto molto parziale che lo stesso Begg aveva fatto sulla propria vita, nel contesto della sua azione politica. Un fattore particolarmente sconvolgente era la sua ammissione di aver gestito, prima di andare in Afghanistan, la libreria Maktabah al-Ansar, dove l’autore più venduto era stato Abdullah Azzam – un mentore di Osama bin Laden e cofondatore del gruppo Lashkar-e-Taiba, estremamente violento e ritenuto responsabile degli attacchi del 2008 a Bombey. Begg non aveva menzionato il fatto che la sua libreria aveva pubblicato nel 1999 The Army of Madinah (L’esercito di Madinah) un manuale scritto da Dhiren Barot, forse la connessione inglese più importante con i capi di al-Qaeda, che si è dichiarato colpevole di cospirazione e omicidio e che ora sta scontando la condanna all’ergastolo, senza libertà condizionata. Barot, che ha scritto sotto lo pseudonimo di Essa-al-Hindi (Gesù dell’India), valorizza esplicitamente l’Afghanistan sotto il regime talebano, così come fa anche Begg con qualche piccola differenza. Azzam e Barot sono sostenitori della ‘jihad difensiva’, un tema che attraversa il libro di Begg. Scrivendo in The Arches, una rivista dell’Istituto di Cordoba allineato con la Fratellanza Musulmana, Begg sembra argomentare che la jihad di cui parla non permetta attacchi indiscriminati contro i civili e pertanto sia coerente con la Convenzione di Ginevra. Ma Begg conferma anche che la jihad violenta sia un obbligo individuale per ogni musulmano, una visione che non è diffusa tra i musulmani e piuttosto rientra nella prospettiva specifica della jihad salafita. Ricompare ancora nella sua difesa del predicatore filo al- Qaeda Anwar al-Awlaki e del reclutatore terrorista, condannato, Ali al- Timimi, che Begg descrive come “uno dei più validi e moderati studenti in cui mi sia imbattuto”. Il fatto che Begg contesti di non sostenere le posizioni di Awlaki circa l’uccidere i civili, solleva la questione se questo prendere le distanze da un sospetto terrorista sarebbe creduto in un contesto differente. I membri ed i sostenitori di Amnesty International cosa deciderebbero se un uomo, che un tempo era uso vendere Main Kampf, ora sostenesse che Hitler, dichiarato un suo ispiratore, è andato un po’ oltre i limiti mettendo in atto la soluzione finale: lo considererebbero una persona adatta a partecipare alle delegazioni in rappresentanza di Amnesty?

Una questione di sopravvivenza

Sfortunatamente i miei avvertimenti e quelli di molti altri e altre sono stati ignorati. Da quando sono uscita pubblicamente esponendo queste preoccupazioni, Amnesty International non ha risposto alla mia accusa fondamentale: che hanno attenuato la politica di Moazzam Begg e lo hanno legittimato come un difensore dei diritti umani. Invece Amnesty ha ulteriormente avallato le opinioni di Begg, sostenendo che la sua posizione compiacente verso i Talebani e il ruolo della jihad nell’autodifesa “non sono antitetiche ai diritti umani”. In una lettera ai tre riconosciuti esponenti che hanno stilato l’appello ad Amnesty per restaurare l’integrità dei diritti umani, il segretario generale ad interim di AI, Claudio Cordone, dice “temo che il resto di ciò che abbiamo sentito contro Moazzam Begg includa molte distorsioni, insinuazioni e prove indiziarie alle quali egli ha già risposto da sé”. Sembra che la mia ricerca e quella condotta da esperti nel campo si riassumano in insinuazioni e distorsioni. La reazione contro chi prende il terrorismo seriamente come violazione dei diritti non è mai stata più dura tra gli alti livelli direttivi di Amnesty. Una delle ultime riunioni che ho organizzato nel mio ufficio prima di essere sospesa è stata con il team dell’Afghanistan, a cui era perfettamente chiaro che una trattativa con i Talebani sarebbe stata un disastro, che non avrebbe portato né pace né sicurezza. Il team ha riferito che alcuni di quelli che erano tornati da Guantanamo, accolti con cerimonie di reintegrazione, erano passati a combattere la jihad. Il loro lavoro è seriamente minato dalla promozione accanita di Begg. Come ho argomentato in un discorso sul terrorismo: “La maggioranza degli atti di terrorismo, nella maggior parte del mondo, vengono rivendicati dai gruppi che li commettono. Spesso sono condotti da persone che conoscono bene i loro bersagli. Il loro scopo non è solo uccidere e ferire, ma incutere timore ed esercitare il controllo. In breve, per i civili che sono i bersagli di tali attacchi, il nemico non è sconosciuto bensì familiare. E la minaccia del terrorismo colpisce la libertà di espressione, la libertà di movimento, il diritto all’istruzione, alla salute e al lavoro così come lo stesso diritto alla vita.”

La Jihad, di tipo offensivo o difensivo, costituisce una minaccia profonda verso tutti i diritti umani. Amnesty International non si può permettere di mettere sullo stesso piano una visione del mondo fondata sulla discriminazione sistematica verso le donne e le minoranze con posizioni che rispettano tutti i diritti umani.

Donne esperte sostenitrici dei diritti umani, e molte altre persone in Asia, Africa, America Latina lo capiscono; non hanno altra scelta se non lottare simultaneamente contro tutte le minacce rivolte ai diritti umani. L’universalismo non è per loro un principio astratto, ma spesso una questione di sopravvivenza. È tempo che gli europei ed i nordamericani attivi nei movimenti per i diritti umani lo capiscano e lo spieghino ai loro leader.

L’islamismo contro le donne, ovunque nel mondo

di Mimouna Hadjam*

È necessario tentare di risalire alle origini della vicenda del velo, per capire l’esatta natura dell’ideologia che si nasconde dietro di esso. L’ideologia, che va sotto il nome di islamismo politico, mentre finge d’ignorare le conseguenze dovute ai cambiamenti economici e politici sulla scena internazionale, se la prende in primo luogo con le donne, e, ricordiamolo, con le donne musulmane. In Afghanistan, in Algeria, in Nigeria, in Iran, ad essere prese di mira sono le donne musulmane che vengono assassinate, torturate, lapidate. Fortunatamente noi donne immigrate o che provengono dall’immigrazione, non viviamo in questa situazione; ma bisogna riconoscere che questa ideologia ha contaminato la Francia anche se non ha esattamente il volto della barbarie purtroppo perpetrata in quei paesi.

Sappiamo che migliaia di donne immigrate sono vittime di una doppia discriminazione: razzismo da un lato e ideologia patriarcale e oscurantista dall’altro. Nell’ambito dello statuto che gestisce le relazioni famigliari (matrimonio e divorzio) le donne che vivono
in Francia vedono applicare, nei tribunali francesi, le leggi dei loro paesi di origine. Sempre di più sono ripudiate dal marito che pronunzia la formula magica, come indica la sharia, così che la donna si ritrova ripudiata secondo il diritto musulmano, e – cosa non nuova – spogliata di tutti i suoi diritti, in materia di alloggio, e persino del diritto di custodia dei bambini. Nel 1990, per esempio, una giovane marocchina di 26 anni abitante alla Courneuve si è vista togliere la custodia dei quattro figli, tutti di nazionalità francese. Il marito, residente in Marocco, non gradiva che sua moglie ostentasse smanie d’indipendenza. Perciò, ripudiata nel suo paese, il tribunale ha concesso la custodia dei figli al marito. La giurisdizione francese non ha fatto che confermare la decisione del Marocco, nonostante un’inchiesta sociale fosse stata favorevole alla madre. Il fatto è che queste donne non potranno mai risposarsi né vivere una nuova relazione per via della oppressione religiosa e della comunità. Un’altra delle umiliazioni avallate dalla sharia è la poligamia, ufficialmente proibita in Francia, ma tollerata, sempre “in nome del rispetto della cultura altrui”.

Per questo diventa urgente non accettare l’influenza dell’integralismo e della religione sulle nostre vite di donne perché ciò non fa che rinforzare il maschilismo e il dominio perpetrato dal maschio. Ed è necessario interrogarsi sulle ragioni della regressione che viviamo da una ventina d’anni nei quartieri francesi.

Nel 1989, scoppia il caso dei primi foulards, due anni prima della guerra del Golfo. Ciò rappresenta una frattura importante nella compagine dell’immigrazione. La guerra del Golfo ha accentuato la confusione nell’immigrazione che non ha saputo esprimersi politicamente per paura di vedersi assimilata alla quinta colonna di Saddam Hussein. Gli immigrati che vivono in Francia non hanno mai tagliato il cordone ombelicale con i paesi d’origine. Del resto nessuno al mondo si sognerebbe di rimproverar- glielo. Nel contesto della crisi economica della fine degli anni ’70, che li col- pisce duramente e in modo prioritario, la rivoluzione islamica in Iran trova una prima risonanza favorevole proprio tra questa gente. Va ricordato che il regime dello Scia, vilipeso dal popolo iraniano, sostenuto dagli Usa, spazzato da Khomeyni ha trovato larghi sostegni, ovunque nel mondo, anche da parte dalla sinistra francese.

Siamo tutte contro i foulards, siano essi indossati a Teheran, Kabul, Algeri, La Courneuve, Lille, Marsiglia e sia che essi ricoprano una parte del corpo o il corpo intero, perché i foulards nel mondo esprimono una sola identica cosa: la sottomissione coatta delle donne a un programma di oppressione. Ma abbiamo analizzato questi fenomeni nel contesto dell’immigrazione, e sappiamo che, per molte donne, questo foulard non ha sempre lo stesso significato. Per le donne della prima genera- zione si trattava soprattutto di una tradizione rurale, e – diciamolo onestamente – queste donne erano così poco visibili che poca gente si era realmente interrogata sul perché del loro isola- mento all’interno della comunità ed è stato necessario che le loro figlie – spontaneamente, senza imitare le madri – proponessero in Francia una usanza del Maghreb, perché il dibattito scoppiasse nella società francese. Adesso le figlie adolescenti lo portano qualche volta per far piacere ai genitori, generalmente quando questi sono ancora immigrati recenti. Pensano semplicemente di guadagnare la loro fiducia, ma ben presto si trovano intrappolate. Se in un primo tempo, il foulard è utilizzato per giustificare il fatto di uscire da casa, la famiglia lo utilizza come mezzo di repressione e diventa allora impossibile per le giovane donne togliersi il velo poiché il gesto di scoprirsi è considerato come un peccato, un insulto all’islam. Il foulard simbolo dell’identità diventa ben presto una imposizione. Con la moltiplicazione delle associazioni islamiche nelle moschee che elargiscono i corsi, crescono il numero delle ragazzine in apprendistato di foulard. Il mercoledì e il sabato nelle cités, accade sempre più spesso d’incontrare bimbe di meno di dieci anni mentre si dirigono verso i corsi di religione col foulard sul capo.

L’apprendistato del foulard avviene con il compiacimento bonario dell’entourage famigliare. La ragazzina finisce col rivendicare, non senza orgoglio, il suo foulard all’età di 14 anni, affrontando i suoi professori e proclamando: “è una mia scelta”. Questa ricerca “etnico-identitaria” delle adolescenti si fa a spese delle donne e si trovano sempre più persone disposte a difenderle per non passare da razziste.

La strumentalizzazione delle donne, a partire dalla loro più giovane età, rimane uno dei bersagli dell’islamismo politico ed è per questo motivo che gli islamici hanno a loro disposizione una miriade di militanti.

Tuttavia non si possono considerare come vittime la totalità delle donne dell’immigrazione, poiché nella società francese ci sono delle contraddizioni che la dividono; infatti, anche se l’immigrazione appartiene in modo esponenziale alla classe operaia, vi ci si trovano persone di destra, di sinistra, di estrema destra, ricchi e poveri. È una realtà con la quale occorre fare i conti. L’islamismo politico ha saputo fare questi conti e tra le sue figlie militanti si ritrovano universitarie che rivendicano l’islamismo in maniera politica. Vanno quindi considerate avversarie politiche. Queste militanti fanno un lavoro enorme basato sulla colpevolizzazione delle donne musulmane, delle loro famiglie, a proposito dell’insuccesso dei loro figli a scuola, della delinquenza. Non vi è nessuna accusa precisa, ma tutto è sottinteso. Oltre all’importante aiuto psicologico e morale che viene dato alle donne meno abbienti si aggiunge spesso un aiuto materiale e finanziario (pagamento della retta delle colonie estive, assistenza ai bambini). (..)

Le donne velate sono un reale pericolo nei confronti di quelle che non lo sono. Può accadere nei corsi di alfabetizzazione che una maggioranza di donne non velate scherzino durante le pause, e che la conversazione vada a finire sull’argomento uomini. Si racconta, per esempio, questa scena accaduta durante un corso a Drancy: alcune ragazze stanno scherzando, come si usa tra giovani. Una di loro entra, col capo velato. La ragazza rimane in un silenzio eloquente. Non è capitato granché in realtà, ma basta questo silenzio e l’uso del velo, per gelare l’ambiente. Allora le altre sono in imbarazzo, costrette a cambiare discorso, a tornare alla serietà parlando di religione, tornare a ciò che è “morale”. Insomma, s’instaura la paura.

Questo non è che uno dei tanti esempi, ma accade spesso, nei gruppi, che la presenza di una velata imponga il cosiddetto rispetto interrompendo tutte le dissertazioni, aumentando di fatto la tensione su coloro che oppongono resistenza. Per quanto riguarda la possibilità di fumare, le cose sono ancora peggiori, poiché le velate impongono che nessuna donna fumi nel gruppo, mentre, per la verità non esister nessuna proibizione ufficiale nell’islam. Ma loro argomentano che per una donna, fumare è spregevole e ne danneggia l’immagine.

Questi fatti ci hanno portate a dire no a 10 tutti i foulards, e non solo da un punto di vista repubblicano, ma da un punto di vista femminista. Vogliamo riproporre la vicenda del foulard dal punto di vista dell’islamismo politico e le dirette conseguenze sui diritti delle donne. Oggi lo sappiamo, la sharia riesce a passare tra le maglie del diritto francese attraverso le convenzioni bilaterali, le delibazioni e i matrimoni combinati sono in aumento. Che cosa accadrà domani se perdiamo la battaglia attorno al foulard?
È urgente la lotta per la difesa della scuola laica anche se questa lotta non ci impedisce di vedere le carenze dell’educazione nazionale. Ciò che fa crollare la scuola, infatti, non è solo l’approccio culturale, bensì il riflesso di meccanismi sociali, di esclusioni che esistono nella società. Detto questo non pensiamo che sia discriminante chiedere ad una ragazza velata di togliersi il foulard davanti alla porta della scuola.

Nel 1989, la presa di posizione contro l’esclusione di tre ragazze a Creil, era nata per volere di un preside noto per le sue posizioni di destra. Ma allora il dibattito si svolgeva nel contesto di una Francia che vedeva l’ascesa dell’estrema destra e del razzismo anti-arabo (in quel decennio erano morti decine di giovani beurs, cioè i giovani d’origine magrebina nati in Francia da genitori immigrati. Le femmine sono chiamate beurettes).

Con le femministe, avevamo scommesso il trionfo della modernità sull’ignoranza.
Dobbiamo ammettere di esserci sbagliate e le donne sono rimaste intrappolate. Non eravamo fanatiche di una legge perché sappiamo per esperienza che una legge non risolve tutto. Ma le diverse leggi contro il razzismo pur non abolendo il razzismo, permettono alle vittime di difendersi. Se la maggioranza della gente non s’interroga sulla proibizione dell’escissione (della clitoride), è perché la legge proscrive questa pratica. In questo senso pensiamo che la legge per la laicità potrebbe rivelarsi una stampella per le donne e le ragazze che rifiutano le idee integraliste. Nessuna legge è perfetta e continueremo a rivendicare una vera politica sociale per i quartieri in fatto di educazione, impiego, alloggi sociali, in modo che i bambini non possano trasformarsi in apprendisti integralisti.

*Associazione Afrika