Aumentano di giorno in giorno le lettere di adesione alla campagna de “Il Foglio” per la moratoria sull’aborto. Molte hanno una forte carica emotiva, segno che l’appello tocca corde profonde, con la promessa di travalicare le banalità del quotidiano e le divisioni ideologiche in vista di un fine elevato.
Chi potrebbe negare che l’aborto porti alla soppressione di una vita in fieri? Meno di tutti le donne, che da sempre ne portano il peso: si tratta di un problema chiave nel rapporto col genere maschile (Franca Chiaromonte non ha ironicamente suggerito di proporre una moratoria per gli spermatozoi?). Ma il fatto è che {{affermare in astratto il principio del}} “{{diritto a nascere”}} non può non avere {{risvolti prescrittivi, accusatori e punitivi nei confronti di chi abortisce}}, e infatti è proprio questo che traspare da tante lettere dove si parla di assassinio. Così, come tanti anni fa, l’appello alle coscienze si traduce, immediatamente, in {{appello alle istituzioni statali perché le normative si prestino all’applicazione di quel principio.}} A meno che….la necessità di prescrizioni più cogenti venga rapidamente superata dal realizzarsi di un miracolo: quel totale cambiamento del clima culturale intorno all’aborto, che è obiettivo dichiarato della attuale campagna. Dubito di poter vivere abbastanza a lungo da veder realizzato questo miracolo.

Dovremmo assistere, intanto, al formarsi di {{una cultura dell’accoglienza
nei confronti della maternità,}} non solo da parte dei soggetti più direttamente coinvolti, ma nella società intera. Ci sono state, all’interno del femminismo, isole di condivisione e di pratica che lasciavano presagire una diversa cultura –del percorso nascita, della salute, della contraccezione. Ne esistono ancora alcune eredità, testimoni di una umanizzazione possibile. La prima condizione per realizzarla è ascoltare le donne e fare in modo che si muniscano degli strumenti necessari –{{informazione, empowerment}} (come si presenterebbe la popolazione mondiale se milioni di donne potessero decidere di avere meno figli, invece di essere soggette alle ideologie maschili della procreazione?).

Intanto, {{i bei principi enunciati nella campagna per la moratoria si vanno a cacciare nell’imbuto di realtà che li negano}}. La donna resta, sì, protagonista, ma col suo fardello di decisioni da prendere in {{condizioni di non- libertà}}. Per tutelarla in quanto soggetto debole è nata la legge 194, che impone vincoli burocratici alla determinazione soggettiva, senza strumenti adeguati per offrire la famosa “solidarietà sociale” che rappresenta la motivazione di fondo dell’aborto di stato; e sappiamo quanto i presupposti dell’azione solidale siano oggi sempre più precari. Appena fu approvata la 194, Laura Conti ne colse (col suo “Il tormento e lo scudo”) l’implicita presunzione di colpa nei confronti della donna che abortisce: era il prezzo da pagare in risposta {{all’angoscia insopprimibile dell’essere umano, specialmente se di sesso maschile, di fronte alla aleatorietà del nascere.}} Ora, si rischia di complicare ancora di più la gabbia normativa.

Mi sembra che la campagna per la moratoria sia, in fondo, {{una risposta a quel tipo di angoscia, che sempre si accompagna a rifiuto e diffidenza verso il potere femminile nella riproduzione}}. Per di più si vede, nell’incontro fra autodeterminazione femminile e tecnologie riproduttive, un esito perverso da mettere a freno con ulteriori prescrizioni. Ma torniamo, così, su un terreno dove dovrebbero agire gli elementi culturali, come il senso del limite, piuttosto che quelli normativi. Con l’applicazione delle nuove tecnologie il desiderio femminile rischia diventare veicolo di manipolazione della vita, e non di libertà, ma porre, di nuovo, vincoli e divieti, è una soluzione?