Emily Wilson

La traduzione è libertà.  Questa può essere percepita come un’affermazione inusuale da molti in relazione all’attività della traduzione. Forse questo è dovuto al fatto che i testi in traduzione – oppure tradotti solo in parte, data la grande presenza della lingua inglese in ogni lingua e la conseguente familiarità che si è acquisita con essa- sono ormai parte integrante della vita quotidiana. Si è infatti circondati da traduzioni, dai più banali slogan pubblicitari che circolano in tutto il mondo ai romanzi più o meno noti, di cui sono presenti versioni in ogni lingua parlata sulla terra. Questi, attraverso l’atto della traduzione, vengono resi accessibili al maggior numero di persone possibile, e tramite questo vengono liberati da quello che può essere descritto come un vero e proprio handicap, cioè essere redatti in una lingua che non permette la diffusione del loro messaggio. Date queste affermazioni si è portati a pensare che la traduzione è da sempre stata uno strumento a favore della libertà e dell’espressione dell’individuo; purtroppo non è stato sempre così. Per secoli, infatti, la traduzione è stata espressione prima della sottomissione, poi del dominio di un gruppo sociale nei confronti di quella che appare come una minoranza subordinata a questi. Più specificatamente, l’egemonia degli uomini nei confronti delle donne.

È ironico pensare che, primariamente, la traduzione era considerata una sfera prettamente femminile; anzi, era l’unica attività in ambito intellettuale a cui le donne potevano dedicarsi in quanto predisposte per natura. Perché questo? Prima di tutto dal punto di vista biologico: le donne sono coloro che possiedono il dono della vita, di poter dare vita a nuovi esseri viventi. La traduzione può essere vista anche come la creazione di un nuovo testo: le donne quindi dimostrano maggiore affinità con questa pratica. Questo è solo il primo aspetto che lega le donne alla traduzione: ve ne è infatti un altro, che deriva da una parola e dal suo relativo concetto, ancora oggi usati dalla società nei confronti delle donne nel tentativo di ridurre la loro libertà: la fedeltà. Un concetto che può essere inteso in varie modalità, ma che nei riguardi delle donne e della traduzione ha contribuito a creare e mantenere la loro sottomissione. Tutto è stato basato su una semplice associazione: è opinione comune che la traduzione debba essere simile il più possibile al testo originale; in altre parole, la traduzione deve essere fedele al testo originale. Non a caso la fedeltà è una delle virtù tradizionalmente associate alla figura femminile in ogni civiltà: nel vincolo matrimoniale, alla moglie è sempre stata  richiesta la fedeltà al marito, qualità che le donne possedevano per natura, contrariamente all’uomo. Inoltre, la traduzione era ritenuta consona alle donne per l’uguale considerazione a loro attribuita: da sempre la traduzione è reputata inferiore al testo originale in quanto alterazione del messaggio originale. Allo stesso modo, le donne sono da sempre considerate inferiori alla classe dominante, cioè quella maschile. La traduzione risulta quindi essere affine alla donna, in quanto entrambi rivestono la stessa importanza all’interno della società.

Se la traduzione è da sempre stata un’attività riservata quasi esclusivamente alle donne, a novembre 2017 il mondo accademico anglofono non avrebbe dovuto essere attraversato da quello che è sembrato uno scandalo scatenato da una semplice traduzione, per giunta di uno dei testi più studiati e tradotti al mondo: l’Odissea di Omero. Oltre che alla traduzione in sé, edita da Norton, il fattore di novità di questa versione è individuabile nel sesso del traduttore, o più correttamente della traduttrice: infatti questa è la prima traduzione inglese ad opera di una donna, Emily Wilson, docente alla University of Pennsylvania. È sconcertante constatare che, nella storia della traduzione inglese di questo poema epico, non sia possibile annoverare un contributo femminile; specialmente se si considera il mondo anglofono, da sempre più aperto riguardo alle tematiche di genere e in prima linea riguardo ai diritti delle donne e all’impegno nell’abbattere ogni forma di oppressione. Invece, culture tradizionalmente riconosciute come maschiliste e limitanti per quanto riguarda le donne e la loro possibilità di espressione, presentano una realtà del tutto differente. Ad esempio quella italiana, dove il machismo emerge persino nella grammatica attraverso la presenza di due pronomi distinti per indicare il genere sessuale e che non prevede un pronome neutro, a differenza dell’inglese. Qui risulta infatti essere presenta una tradizione ben radicata per quanto riguarda le traduzioni dell’Odissea ad opera di donne: basti pensare che la più utilizzata in ambito scolastico risulta essere ad opera di Rosa Calzecchi Onesti, pubblicata nel 1963. L’Italia quindi si classifica come rispettosa, in un certo senso, della tradizione che attribuisce alle donne il ruolo di traduttrici, ma allo stesso tempo si dimostra all’avanguardia rispetto al più evoluto mondo anglofono dove, a partire dalla prima traduzione del poema nel 1615 ad opera di George Chapman, si contano solo uomini.

Era necessaria una rivoluzione, ed Emily Wilson è stata la prima a capirlo e a metterla in atto. Sicuramente consapevole della risonanza mediatica che avrebbe avuto, e sicuramente conscia di essere la prima donna a fare questo, ha utilizzato un testo millenario come il manifesto di denuncia della condizione delle donne impegnate in ambito accademico, soprattutto in quello delle lettere classiche. Semplicemente, è un mondo creato da uomini per gli uomini, costantemente impegnati a difenderlo dalle donne e cercando di limitarle in ogni modo. Questo è quello che è emerso nelle numerose interviste seguite alla pubblicazione della sua traduzione: i suoi anni di studio, descritti da lei come anni passati in un vero e proprio “club per soli uomini”, dove sono assenti figure femminili di riferimento, in quanto tutti gli insegnanti erano uomini. E non solo questo: ricorda come, in procinto di intraprendere la sua opera di traduzione, un nutrito numero di colleghi uomini abbiano tentato di dissuaderla dal suo progetto. Ed è ancora più interessante notare che, a partire da marzo 2018, si stiano succedendo nuove traduzioni dell’Odissea ad opera di uomini, sembra quasi nel tentativo di ribadire la supremazia ed il controllo della traduzione da parte degli uomini.

Poter consultare questa opera è già di per sé un atto di ribellione, ma questo è solo l’inizio. La vera novità è la sua traduzione. Ovviamente la storia non è stata alterata: è sempre il racconto delle peripezie di Odisseo, di ritorno ad Itaca dopo i dieci anni della guerra di Troia, e delle vicissitudini incontrate durante il viaggio. Ma è proprio attraverso la figura di Odisseo, la prima menzionata nel Proemio, che la Wilson esprime il suo desiderio di cambiamento. “Tell me about a complicated man” è quello che lei scrive: una presa di posizione abbastanza forte se si considera che tutte le versioni a lei precedenti facevano riferimento fin da subito alla furbizia e scaltrezza di Odisseo, oltre che a suggerire la sua natura quasi divina per la sua capacità di sfuggire illeso ad ogni pericolo e di trovare sempre la soluzione ad ogni problema. Attraverso quel “complicated” per la prima volta si mette in discussione la figura semidivina di Odisseo, tramandata per secoli dalle traduzioni dominate dalla visione maschile. Conformemente alla visione dell’uomo che ha dominato per secoli la civiltà occidentale, e che ha contribuito alla creazione di stereotipi, non riusciva ad ammettere che anche gli uomini potessero mostrarsi deboli e in difficoltà. Oltre che a gettare un’aurea negativa sul protagonista, dato che questo termine nella lingua inglese evoca associazioni negative,“complicated” allude alla diversità del genere umano, alle varie sfaccettature di ogni persona e alla molteplicità di fattori che possono cambiare radicalmente il corso della vita di ogni individuo, perché così è la quotidianità dell’uomo. Allora la figura di Odisseo assume tutta un’altra connotazione: è l’uomo tenuto prigioniero (per alcune interpretazioni) da Calipso sulla sua isola, che rifiuta l’offerta dell’immortalità e che piange sconsolato ogni giorno, in quanto il suo più grande desiderio è ritornare alla sua casa e dalla moglie Penelope, e morire con lei.

Questo è solo il primo aspetto che indica l’innovazione di questa traduzione; infatti non è solo il personaggio di Odisseo ad aver subito un processo di modernizzazione. Anche lo stile è stato modificato: con lo scopo di permettere al maggior numero possibile di lettori di avvicinarsi al poema, la Wilson ha deciso di adottare quello più comune al pubblico inglese, quello utilizzato dai grandi poeti della tradizione come ad esempio William Shakespeare, togliendo al poema ogni traccia della sua origine orale. Anche le scelte lessicali non hanno precedenti, e sono indicatrici della ideologia in cui crede. Oltre all’introduzione di espressioni appartenenti al linguaggio dei nostri tempi (come ad esempio la carne che diviene “kebab”), la Wilson ha deciso di attenuare, se non di eliminare, la componente misogina del poema, particolarmente evidente nella descrizione di alcuni personaggi femminili. Come da lei illustrato nella Nota alla Traduzione, questa è stata la più grande sfida del suo lavoro: quella cioè di annullare stereotipi tramandati nelle varie epoche e che hanno attribuito ai numerosi personaggi femminili dell’Odissea connotazioni umilianti. Riconoscendo di essere lei stessa una femminista, ha tentato di donare nuova dignità a personaggi trattati senza pietà nelle traduzioni attraverso l’uso di linguaggio derogatorio che, curiosamente, non presenta nessuna traccia nel testo originale greco. Inoltre cerca di dare una nuova connotazione ai maggiori personaggi femminili, come ad esempio la ninfa Calipso che presenta una certa ambiguità nel suo comportamento, oppure nella novità nella caratterizzazione di Circe, tradizionalmente resa come maga o, più comunemente, come strega.

Nei secoli l’attività della traduzione, nonostante le sia stata attribuita da sempre l’immagine della libertà, è stata invece una delle molteplici manifestazioni dell’oppressione delle donne per mano degli uomini. Quello che era stato loro concesso proprio dagli uomini, in quanto ritenuto conforme alla loro predisposizione, è stato loro tolto. Solamente con il gesto comune, ma allo stesso tempo eclatante, di una donna, è risultato evidente che le donne da tempo non erano più libere di esprimersi. Il mondo apparentemente maschile dell’Odissea, apparentemente profanato da una donna, è stato l’inizio di questa nuova consapevolezza. Sembra quasi che gli uomini si siano sentiti minacciati da questo, e che stiano cercando di riparare a questa frattura con traduzioni ad opera di uomini, forse nel tentativo di sottrarre alle donne la loro voce da poco ritrovata. Speriamo invece che ci siano altre Emily Wilson, con la stessa sua determinazione e con la consapevolezza che basta poco per perdere ogni libertà e diritto.